C’è aria di guerra nel Vecchio Continente. Trascorsi poco meno di ottant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, per convenzione ultimo grande bagno di sangue dell’Europa che conta, Marte può dirsi una volta per tutte tornato a risiedere entro i confini di casa nostra: mentre in Ucraina le ostilità proseguono incessanti, l’antica divinità di soldati e mercenari adocchia le vicine Moldavia e Georgia, ma pure i Balcani, eterna polveriera etnico-nazionale mai davvero smorzata, ed il Mediterraneo orientale, sulle cui acque corre intensa la secolare rivalità tra greci e turchi. Tanti fronti potenziali ed uno solo reale, appunto l’Ucraina invasa, dove alla constatazione ormai banale che la pace post-’45 non poteva durare in eterno va affiancandosi la consapevolezza, assai più inquietante, che un eventuale scontro potremmo davvero perderlo. La spetsoperarsija voluta da Vladimir Putin ha infatti finito per mettere a nudo i gravissimi deficit militari ed industriali del blocco NATO, lungamente coperti dalla foglia di fico della supremazia americana e che adesso imbarazzano l’Alleanza.
Dai cannoni ai missili, dai carri alle granate d’artiglieria, sulle due sponde dell’Atlantico mancano gli strumenti essenziali per battersi e battere un nemico che continua di contro a sfornare materiale bellico in quantità sempre maggiori. A farne le spese è anzitutto Kiev, che priva di un adeguato sostegno si è vista negli ultimi mesi costretta ad arretrare in diversi punti della linea di contatto; con la temuta offensiva primaverile russa concretizzatasi in questi giorni in una decisa avanzata nella regione di Kharkiv, tutt’a un tratto prende corpo l’ipotesi, impensabile appena un anno fa, di un definitivo collasso della resistenza ucraina. È forse ancora possibile evitare il disastro, ma la débâcle politica e strategica può ormai dirsi irreversibile: sfumata la possibilità di una vittoria sul campo, Bruxelles si trova ora faccia a faccia con la prospettiva di dover suo malgrado convivere con un Cremlino militarizzato e mai così audace nel proprio revisionismo.
Motivo in più per accelerare sulla corsa agli armamenti, che divenuta una corsa ai ripari assume ora i tratti di una priorità assoluta. Sia il passo che la destinazione sono però incerti: mentre Jens Stoltenberg invita gli alleati a prioritarizzare l’appoggio alle forze gialloblù l’UE e gli USA tergiversano, l’una impegnata a fantasticare sulla difesa comune, gli altri affaticati dal moltiplicarsi delle crisi internazionali, entrambi paralizzati dalla rovente stagione elettorale. Superfluo poi accennare alle vicissitudini del blob che è l’industria della difesa occidentale; e se anche si riuscisse a risolverle, se anche le fabbriche prendessero a vomitare armi, i vertici euro-atlantici non saprebbero a chi farle imbracciare. Dopo aver tardivamente riappreso che in guerra la quantità, la massa d’urto pura e semplice fanno la differenza, iniziamo con tempismo non migliore ad accorgerci che questo principio si applica non solo al materiale, ma anche agli uomini. E che non abbiamo nemmeno quelli.
Esclusi gli States, la Turchia e la neo-accolita Finlandia, le forze dei singoli Paesi alleati contano in media poche centinaia di migliaia di effettivi: 200mila in Francia, 180mila in Germania, 150mila nel Regno Unito, per non parlare di casi-limite come l’Albania (8mila uomini) o la Slovenia (7mila). Numeri troppo, troppo esigui, e destinati per giunta a calare ulteriormente. «I soldati europei se ne vanno proprio ora che c’è bisogno di loro», titolava sconsolato Politico a marzo. Quelli che escono dai ranghi sono i metaforici caduti dell’impari lotta, anch’essa figurativa ma dalle conseguenze assai reali, che da anni ministri e alti ufficiali ingaggiano contro paghe basse, infrastrutture scadenti, capacità scarse e assistenza latitante. Soffre assai proprio il munifico Zio Sam, i cui lauti bonus di ri-arruolamento — fino a centomila dollari per una seconda ferma, e c’è chi ci mette anche una Dodge — non bastano a fermare l’emorragia di personale, più e meno qualificato, che ha colpito le sue armate.
E in Italia? Di recente l’Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, Capo dello Stato Maggiore congiunto — nonché prossimo numero uno del Comitato Militare NATO — ammoniva le Camere che i 170mila uomini e donne in forza ad Esercito, Marina ed Aeronautica sono appena sufficienti ad «assicurare la sopravvivenza» del sistema-Difesa e del Paese in genere. L’uno è d’altronde il riflesso dell’altro: in caserma come in strada aumenta dunque l’età media, oggi pericolosamente vicina ai cinquant’anni, e nel medio-lungo termine l’inverno demografico conclamato minaccia di ridurre il già limitato bacino di reclutamento nazionale ad una pozzanghera. Se non altro l’attuale governo di centrodestra si direbbe cosciente della questione, che ne interseca e sovrappone due cavalli di battaglia quali sono l’atlantismo e la natalità; ma i fondi magri, parte a loro volta di un quadro dei conti pubblici a dir poco drammatico, e l’esigenza di ammodernamenti urgenti non lasciano che poche briciole per cercare di tenere o rimpiazzare i militari che dicono addio alle stellette.
I congedati portano via con sé l’inestimabile bagaglio di esperienza accumulato in decenni per tanti di loro costellati di deployments e combattimenti; restano i leviani salvati che dell’uniforme sono riusciti a fare una carriera quando ne valeva la pena, trenta e quarantenni senza nessuno a cui passare il testimone. In Europa i posti offerti nei concorsi rimangono sempre più vuoti, mentre oltreoceano il Pentagono suona l’allarme sulle vere e proprie voragini apparse nelle fila delle forze armate a stelle e strisce. L’Esercito non raggiungerà il target di 25mila reclute fissato per quest’anno, la Marina prova a compensare ammettendo candidati con la sola licenza media, e perfino l’Air Force, nota come arma “facile”, fatica a trovare nuove leve. Per il momento soltanto i Marines tengono botta, forti di una solida cultura interna e di un’immagine smaccatamente machista; quanto a lungo potrà ancora durare non si sa, specie alla luce del ruolo di primo piano che il Corpo avrebbe da giocare in un eventuale conflitto con la Cina.
Alla mimetica i giovani statunitensi (e non) sembrano preferire l’università e il lavoro civile, in proprio, in ufficio o addirittura nei fast food, che passata la pandemia vanno a caccia di teste con stipendi anche cinque volte superiori al salario minimo federale: girare hamburger potrà non essere eccitante, ma è un impiego sicuro, in più di un senso. Sul problema influisce inoltre la percezione del servizio, macchiata in maniera indelebile da un ventennio di guerra al terrorismo e dal tragico finale afghano di quest’ultima. L’ottimismo degli Anni Novanta e l’ondata patriottica dei primi Anni Duemila sono ricordi lontani, rimpiazzati nella psiche collettiva dalla diffidenza nei confronti di un apparato che in questo ventennio di controinsurrezione fallita si è fatto la fama di considerare chi vi entra come un bene usa e getta: così, per la prima volta i padri invitano i figli a non seguire le loro orme e a non indossare la divisa, tagliando di fatto l’ultimo flusso certo di manpower a disposizione dei pianificatori.
I quali, constatato che la carota non funziona, sembrano un po’ ovunque guardare con crescente interesse al bastone. La leva non è più un tabù; ultimo ad invocarla è stato Matteo Salvini, andato ancora una volta alla carica con la (quantomeno opinabile) proposta di una sorta di “militarizzazione pedagogica” tramite cui raddrizzare le nuove generazioni. Boutades a parte, un ritorno al modello della coscrizione obbligatoria è tutt’altro che impossibile: secondo alcuni tabloid teutonici la Bundeswehr starebbe valutando opzioni in merito, mentre a gennaio il comandante dell’esercito britannico Patrick Sanders, in polemica con Downing Street, aveva paventato la reintroduzione del vecchio National Service. Frattanto la Svezia e la Danimarca sono passate ai fatti, incontrando l’approvazione di commentatori del calibro di Edward Luttwak e l’emulazione dei minuti Paesi baltici, timorosi di essere nel mirino di Putin; e anche nella nostra Italia sarebbe relativamente facile ripristinare la famigerata naja, sospesa — non abolita — nel 2005.
Tuttavia, al netto delle elucubrazioni la lévée en masse è ben lontana dal rappresentare una soluzione efficace alla crisi del reclutamento. Mettere insieme e mantenere in prontezza eserciti anche solo paragonabili a quelli della Guerra Fredda ha un costo che Washington, sempre più presa dal braccio di ferro con Pechino, non è disposta a sobbarcarsi alla stessa maniera di allora: in mancanza di alternative concrete, precluse dalle stesse regole finanziarie UE, gli europei dovrebbero quindi ricorrere con ogni probabilità a tagli della spesa tanto massicci quanto prevedibilmente impopolari. È anche per questo che nel profondo Nord si richiamano poche centinaia di cittadini (donne comprese) alla volta, per un totale che negli anni è arrivato a produrre appena l’equivalente di una brigata in ciascuna delle due nazioni citate poc’anzi. Fare di più è certamente possibile; il livello di legittimazione democratica di cui potrebbe godere l’allargamento o, altrove, la reintroduzione del vincolo di servizio non è però scontato.
C’entrano i soldi, lo si è detto. Ma soprattutto c’entrano la sfiducia ed il risentimento che serpeggiano sempre più evidenti nei confronti di un sistema politico, economico e sociale che, tralasciando facili letture ideologiche, sembra aver lasciato indietro i ragazzi. Siamo schietti: ridotta alla sua essenza, la guerra è questione di uccidere ed essere uccisi. Tanto si vorrebbe chiedere, anzi pretendere da una gioventù che a torto o a ragione si vede sconfitta in partenza, con un presente precario e senza futuro. Per cosa dovrebbe inastare la baionetta, allora? Qualcuno potrebbe provare a rispondere con quella strana parola che è “patria”; sennonché l’idea stessa di una patria, un luogo di appartenenza vera e tangibile, non può che apparire superata a chi è cresciuto rimbalzando da un posto all’altro, spessissimo con l’entusiastica approvazione di coloro che adesso spingono per il dietrofront. In definitiva, non basta la retorica a destare i giovani dal nichilismo ormai sublimatosi in apatia generale: schiacciato tra un interventismo da operetta e un pacifismo straccione, il grosso semplicemente si divincola, e fa bene.
Così, mentre i tecnici si arrovellano su come trovare la quadra del pressante dilemma militare, le basi continuano a mancare, in una replica del medesimo errore commesso sulle armi e al quale il denaro non è in grado di ovviare. Perché la guerra, lo ribadiamo, la fanno le persone.