Il 30 dicembre 2005, il giorno successivo alla sua nomina di governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi venne fermato in via del Plebiscito dai giornalisti appostati sotto casa di Silvio Berlusconi. Alla domanda se fosse lì per incontrare il premier, Draghi sorprese tutti i cronisti appostati lì dicendo che era stato da padre Rozzi. Fu così che divenne nota la figura di Franco Rozzi, parroco gesuita alla Chiesa del Gesù, insegnante di storia e filosofia, preside del liceo classico Massimiliano Massimo di Roma. Il migliore in matematica, bravo giocatore di basket, educato e spiritoso, competitivo ma disposto a far copiare i suoi compagni di classe – come raccontano alcuni ex colleghi – MarioDraghi non ha mai nascosto il forte legame con la scuola della Compagnia del Gesù, frequentata dalla IV elementare al III liceo. A quindici anni perse i genitori e si può banalmente supporre che Rozzi abbia rappresentato per il giovane Draghi una sorta di figura paterna. Di certo è stato un autorevole punto di riferimento, capace di formare quella che poi sarebbe divenuta una buona parte della classe dirigente del Paese. Fortuita coincidenza o scrematura che avveniva già all’interno delle famiglie borghesi, fatto sta che la III B guidata da Franco Rozzi alla maturità nel 1965 annoverava tra gli studenti, oltre ai più noti Mario Draghi e Luca Cordero di Montezemolo, il futuro presidente della Bnl Luigi Abete e il futuro direttore generale dell’Enea Giovanni Lelli. In generale poi l’elenco degli ex alunni passati dal liceo classico Massimiliano Massimo di Roma, quando Padre Rozzi era preside, sono abbastanza significativi: Elisabetta Belloni (attuale segretario della Farnesina), Gianni De Gennaro (ex ministro degli Interni), Francesco Rutelli (ex sindaco di Roma), Staffan De Mistura (inviato speciale delle Nazioni Unite), Piero Sansonetti (direttore del Riformista), Antonio Padellaro (fondatore del Fatto Quotidiano).
Prima di fantasticare su un presunto “metodo Rozzi”, è anzitutto utile rileggere la descrizione che lui stesso fornì del suo operato intellettuale, inclusa nel libro “Gli amici di Padre Rozzi”, una raccolta dei suoi maggiori insegnamenti a cura di alcuni suoi ex studenti;
“In definitiva facciamo filosofia se rispondiamo a tutti i perché del bambino. La filosofia ha la presunzione di abbracciare tutte le scienze in quanto cerca le loro cause ultime. Le scienze si occupano delle cause prossime degli avvenimenti, la filosofia delle cause remote!”
Recentemente il Direttore della Civiltà Cattolica, il gesuita Antonio Spadaro, ha pubblicato su Facebook un filmato inedito, di diversi anni fa, in cui il presidente del Consiglio incaricato ricorda quegli anni con “profonda gratitudine”. È facile immaginare quanto l’insegnamento di “non prendere mai decisioni in base a propensioni disordinate”, seguendo gli esercizi spirituali di Sant’Ignazio da Loyola, abbia giovato alla sua carriera. Mentre il sociologo Giuseppe De Rita, anch’egli ex allievo, rievoca l’importanza della massima gesuita perinde ac cadever (obbedire come un corpo morto) paradossalmente in linea con il suo spirito “libertino”, Mario Draghi sottolinea la forza morale che pervadeva ogni giornata degli studenti, eco delle riflessioni di Sant’Ignazio, per cui ogni cosa va fatta al meglio delle proprie possibilità. Antico quanto all’avanguardia, il metodo gesuita si concentra sulla considerazione che un individuo deve avere di sé stesso. Come ci tiene a precisare l’ex Presidente della Bce, gli studenti crescevano sentendosi
“speciali in qualche modo, speciali come persone umane”, perché “al di là di quello che potevamo fare come scolari, come alunni, al di là di quanto potessimo apprendere, avevamo un compito nella vita; un compito che poi il futuro, la fede, la ragione, la cultura, ci avrebbero rivelato”.
Nessuna vessazione, insolite e profetiche le punizioni. Il rigore imposto ai suoi studenti da Padre Rozzi, secondo Padre Michele Lavra, era generato “da un amore profondo per i suoi allievi, dal desiderio di trasportarli al di là della mediocrità”. Come raccontato dallo stesso Rozzi all’Avvenire, l’unica pecca del curriculum scolastico di Draghi era la sua scarsa puntualità, per questa gli venivano assegnate mansioni extrascolastiche. I compiti a casa di padre Rozzi, per sopperire a mancanze disciplinari, erano incentrati sull’importanza della concisione, che l’insegnante sosteneva essere un sinonimo di precisione. La sintesi come prova della chiarezza del proprio pensiero, la capacità di pesare le parole senza che il linguaggio si vanificasse come una sfida volta a dimostrare la propria personalità intellettuale. Ciò veniva comunemente richiesto in esercizi del tipo; “Aristotele e Cartesio, somiglianze e differenze. Tre righe”, oppure “La dialettica di Hegel. Tre righe.”.
Si riaffaccia spontaneo il ricordo del 2012, anno in cui di tutto un discorso furono principalmente tre parole (whatever it takes), a cambiare il corso degli eventi. Poiché un governatore di banca incide nell’economia reale anche con le parole e sbagliarle può provocare voragini, prezioso è stato per tutto il percorso di Draghi, l’insegnamento di doverle sempre calibrare minuziosamente, riuscendo a cristallizzare una moltitudine di concetti in delle istantanee, in dei tweet ante litteram senza mai cinguettare. In direzione contraria alla società dell’iper-comunicazione, consapevole, oltre che del potere della sintesi, del potere del silenzio, si può già ipotizzare che da presidente del Consiglio non lo vedremo intasare la rete o le televisioni con prosaici discorsi alla Nazione. Calzante in questi termini l’analisi di Filippo Ceccarelli su La Repubblica;
“il potere vero non ha bisogno di parlare, più grande è, più silenziosamente agisce (….) di tutti gli arcani del comando, il silenzio, fratello del vuoto, dell’attesa e dell’immaginazione, è dunque il più temibile, e infatti a certe orecchie ormai poco avvezze è risultato, come si dice, assordante”.
Nel 2010, Draghi scrisse con riconoscenza, per L’Osservatorio Romano, l’elogio funebre del suo maestro; “la sua autorità era indiscussa, la sua giustizia veniva amministrata con lucidità ed equilibrio, era ben spiegata, spesso temperata dall’ironia”. Ironia rintracciabile nel racconto che Rozzi fece dell’altra sua missione insieme all’insegnamento, ovvero quella della confessione; “Per anni ho raccolto le confessioni di donnine che mi dicevano solo peccatucci inconsistenti. Poi un giorno venne un uomo e mi disse; “Ho ucciso”. Finalmente un peccato!”. Nello stesso articolo, Draghi scrive che il messaggio educativo di Rozzi, che “ha inciso in profondità generazioni di alunni”, si possa così riassumere; “la responsabilità di compiere al meglio il proprio dovere non è solo individuale, ma sociale; non solo terrena, ma spirituale.” Non sembra un caso che al suo primo discorso in Senato, per la prima volta visibilmente emozionato, Draghi abbia parlato di responsabilità sociale e del dovere della cittadinanza. Inoltre, ciò che potrà dare a questo nuovo esecutivo una visione del futuro “ignaziana” è proprio da ricondurre al tanto chiacchierato pragmatismo di Draghi, che – secondo padre Spadaro – è “l’essenza del metodo educativo dei gesuiti”, più specificatamente; “si parte dal concreto per compiere una valutazione. E’ una visione non ideologica dell’azione e della comunicazione, molto esperienziale, fondata sull’osservazione diretta…”. Si narra che ogni mattina Rozzi chiedesse ai suoi alunni; “Dove sarebbe bello essere ora?”. Chissà cosa risponderebbe Mario Draghi oggi che è a Palazzo Chigi.
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