Alla domanda “cosa avrebbe fatto se non avesse fatto l’attore?”, Eduardo De Filippo rispose “non sarei nato”. Si tratta di vocazione. La stessa che si percepisce in Jago, scultore che vive e lavora a Napoli, nel cuore della Sanità. In un luogo insolito, sacro e sconsacrato; la Chiesa dei Crociferi. Verrebbe naturale starsene in silenzio. Ma questa è un’intervista e non un pellegrinaggio.
Quando e come è iniziata la tua passione per la scultura?
Io sto ancora capendo cosa vuol dire fare scultura, faccio quello che faccio per darmi delle risposte. È una parola che inevitabilmente uso, “scultura”, spesso forse anche in maniera impropria: cerco di vivere da scultore, credo sia un modo di vivere le cose, d’immaginarle, di dar loro una forma. Questa impostazione ce l’ho sempre avuta fin da bambino; manipolare le forme, montare, cercare di capire le cose che mi circondavano, e ho mantenuto questa modalità della curiosità fino ad oggi. Ho conservato lo stesso modo di fare che prima era nel gioco e che ora è un lavoro, ma l’entusiasmo sincero, tipico del gioco, io fortunatamente ce l’ho ancora, ogni mattina quando vengo qui, perché sto mettendo al mondo qualcosa di nuovo. Effettivamente non c’è stato un inizio, o come spesso avviene non c’è un inizio rintracciabile. C’è stato un momento in cui ho dovuto mettere a sistema questa passione o esigenza per renderla un lavoro. Dovrebbe far parte della crescita di ognuno: trasformare in mestiere una passione.
Toni Morrison alla domanda “perché scrivi?” rispose “perché altrimenti mi resterebbe soltanto la vita…”, cosa rispondi tu alla domanda banale quanto assoluta; perché scolpisci?
È come respirare. Sicuramente tu puoi tentare di smettere, ma il tuo corpo ti imporrà naturalmente di farlo perché altrimenti stai male. Se invece vogliamo fare un ragionamento profondamente materialista, potremmo chiederci a cosa serva qualsiasi cosa facciamo, fino a svilire tutto, a tal punto da privare ogni cosa del suo significato proprio mentre tentiamo di trovarlo, così da concludere che in fondo dobbiamo soltanto dormire, mangiare, riprodurci. Per fortuna abbiamo anche altro, e a volte è prezioso lasciargli mistero, l’altro che anima la vita è uno spazio indefinibile. Se spiegato e analizzato si trasforma, diventa meccanico. Possiamo anche voler stare lontani da una sua definizione, ognuno ha la sua. Ecco io credo che sia meglio tenersi lontani da certe definizioni e fare. E vivere.
Il tuo è un talento luminoso, ma se come diceva un filosofo, il destino è nel carattere, quanto credi che il tuo carattere ti sia servito? E soprattutto che carattere pensi di avere?
Non so definirmi con precisione. Ti dico la verità; quando sento alcune persone dire “questo è il mio carattere” oppure “eh ma io sono fatto così”, mi sembra sempre una giustificazione per non essere in grado di migliorarsi. Io sono fatto in tanti modi e in continuazione cerco di modificarmi, preferisco essere accogliente verso il punto di vista dell’altro, talvolta anche con sofferenza. È come scolpire; quando scolpisci, forzando non otterrai mai una risposta positiva, non puoi aggredire il marmo senza avere consapevolezza del marmo, devi essere morbido. Io voglio essere morbido e non impormi, morbido anche nei confronti di me stesso. Lo stesso vale per la comunicazione, devi saper ascoltare e comprendere che tipologia di materiale hai di fronte a te, in scultura ciò significa che ogni materiale reagisce in modo diverso rispetto agli strumenti che utilizzi, nella comunicazione gli strumenti sono le parole, se le sbagli, l’effetto che avrai sarà come quello che si ottiene scolpendo con delle punte ottuse. Le persone sono come le punte, o ottuse o acute, una persona acuta è una persona penetrante, quando scolpisco il marmo devo usare punte acute, una punta ottusa non rompe la superficie, non fa breccia nel materiale. Devi riuscire a capire che carattere ha l’altro per capire e essere capito. Per quanto possiamo tentare di nasconderlo, è l’esigenza fondamentale di ognuno di noi; vogliamo essere compresi. La scultura mi ha insegnato a prestare attenzione al materiale che ho davanti, e questo cerco di farlo anche con le persone, quando comunico. Ci sono persone che possiedono una padronanza del linguaggio enorme, si dilettano in sproloqui di sinonimi e contrari senza mai inciampare, senza mai una pausa d’incertezza, ma poi non sanno scrivere una poesia, e in generale spesso parlano e non dicono niente, nessuno capisce, tranne loro, perché non si preoccupano di chi hanno davanti. E altri che fanno danni incredibili, ancor peggio se di fronte a una platea, perché lì hai più persone diverse che ti ascoltano. Ma tornando alla domanda, io vorrei avere un carattere in grado di partecipare favorevolmente alla crescita dell’altro e lo si può fare anche parlando, a volte basta anche soltanto un sorriso.
Tu non hai terminato i tuoi studi all’Accademia, quanto è stato sregolato il tuo genio all’inizio e quanto può permettersi di esserlo?
Ho sempre dovuto lavorare con disciplina; darsi una regola è fondamentale, la regola corrisponde a una tua serietà professionale. Porsi degli obiettivi e portarli a termine è necessario. Non aver finito il mio percorso di studi mi costringe a dover studiare per tutta la vita. C’è chi pensa d’essere pronto con un pezzo di carta ad affrontare il mondo, ma la vita è imprevedibile e gli strumenti che ti servono vanno al di là di un percorso di studi. Puoi studiare la teoria quanto vuoi, puoi eccellere nel memorizzare le nozioni, ma non è detto che tu poi riesca ad eccellere nella pratica, anzi.
Hai bisogno, talvolta, di ricontattare lo studente insofferente che eri, il ragazzo che sei stato?
Quel ragazzo lì non è mai morto, quel ragazzo mi ha condotto qui, consapevole che avrebbe potuto costruire il suo sistema. Io ho sempre odiato la scuola e studiare, ma ho sempre amato imparare. Se vuoi ottenere dei risultati nella vita non ti serve frequentare chissà che scuola, e oggi lo dico con una disinvoltura diversa perché posso provare dei risultati, prima era più difficile affrontare l’argomento, mi dicevano le solite cose; “se non fai così, non andrai da nessuna parte”, e lì serve il carattere, devi avere fiducia in te stesso. La scuola di oggi, indipendentemente dagli insegnanti magnifici che si possono anche trovare, purtroppo ti dà tutto tranne quello che veramente ti serve, ovvero la consapevolezza di chi sei. Tu entri in un’istituzione che per regola ti deve dare la possibilità di assaggiare un po’ di tutto per farti capire quello che sei, in realtà in quel modo tu dimentichi chi sei, perché già lo sapevi. Ogni bambino sa quello che vorrebbe fare, poi quando entra nel mondo, eredita dai genitori l’assenza di risposte, le paure, le insofferenze, si ritrova a replicare quelle stesse modalità. Io vado avanti a mio modo, ogni giorno imparando, e creando il mio sistema. Io so fare quello che faccio, poi ho bisogno di persone che lavorino con me, non per me, e che devo avere la capacità di gestire, è una mentalità imprenditoriale. Chi oggi vuole avere successo deve allontanarsi da tutto ciò che è preconfezionato, perché non funziona più così, è saltato tutto.
Cosa ti ispira?
Quando si parla di ispirazione sembra che si parli di suggerimento. Cosa ti ispira sembra; dove trovi il suggerimento? Forse è simile alla scrittura; ci si ispira mentre si scrive, nel processo creativo ci poniamo domande. Io mi ispiro facendo, poi prendo molto anche dagli altri.
Che Michelangelo non si paragoni a nessuno, lo dicono tutti. Eppure nel tuo caso il paragone con Michelangelo c’è, ti insegue come un fantasma. Quanto è stato importante nel tuo percorso aver avuto il parametro più alto di tutti e quindi aver deciso di misurarsi con la storia?
Se mi devo mettere in competizione con qualcuno o qualcosa, chiuso nel mio bagno, da solo con me stesso, non su un palco dove mi tirerebbero i pomodori, punto al massimo. E’ da stupidi il contrario, è da stupidi mettersi in competizione con chi non dimostra un valore. È molto più avvincente mettersi in competizione con chi ha fatto la storia. Poi, onestamente, a me non interessa paragonarmi a un maestro della tradizione. Lo scrivono gli altri, è una cosa che io non ho mai detto, mi è stata attribuita e non ha alcun significato se non per chi la dice. Io non voglio essere il nuovo tizio, io voglio essere il nuovo me stesso. Non ha molto senso, però se inquadriamo questo paragone storicamente, allora possiamo pensare a quando, per esempio, il piccolo Bernini incontrò il Papa e al Cardinale Barberini disse speriamo che questo giovinetto sia il Michelangelo del proprio secolo. Anche a livelli altissimi c’è sempre stato e ci sarà sempre la necessità di creare un collegamento, affinché il linguaggio possa continuare ad insistere, ad esistere. Il fatto di creare un legame ci aiuta a comprendere dove stiamo andando, ma non perché ci sia un legame effettivo, ma perché in questo modo ricalchi un dialogo che continuerà sempre ad esistere. La novità assoluta è incomprensibile. Se togliamo i nomi; Michelangelo, Bernini, Canova, resta la bellezza, ciò che noi continuiamo a vedere, un linguaggio che continua ad esistere e che è diventato patrimonio di una collettività. Poi ci sono le persone nella propria quotidianità, ognuno con i propri limiti, io chiaramente capitano di questa legione, e dobbiamo calarci nel momento, nei nostri tempi, e sentirci paragonati a chissà chi altro ancora, ma distogliendo lo sguardo, dall’alto possiamo renderci conto che c’è solamente l’arte che si manifesta, che continua ad esserci.
Ho notato che un concetto su cui tendi a soffermarti riguarda l’ormai sottile differenza che c’è tra l’essere umili e l’essere umiliati. Per averci pensato su, nell’epoca della mediocrità travestita da intelligenza o talento, devi forse aver conosciuto l’umiliazione. E allora Musil aveva ragione a scrivere ne ‘I turbamenti del giovane Törless’; “i giovani con un grande avvenire possiedono per lo più un passato ricco di umiliazioni”. In quali contesti ti è capitato di sentirti umiliato?
Te lo dico senza filtri; sicuramente tante volte mi hanno detto o mi hanno suggerito di essere umile, con i soliti modi; “sii umile”, “fai l’umile”, “un po’ di umiltà”. A me questa cosa è sembrata sempre ridicola, perché percepivo che fosse un invito a mettersi al di sotto. E mi è stato detto anche quando ho deciso di venire a lavorare in questa chiesa. Un’altra frase tipica è “ma non ti hanno educato?”, invece questa è proprio l’educazione alla mediocrità e francamente per me è inaccettabile. Me ne frego profondamente: preferisco risultare poco umile ma aver completamente soddisfatto quella che è la mia ambizione personale, che comunque si manifesta nel rispetto degli altri, male che vada ho fatto un torto a me stesso o la mia immagine ci ha rimesso. Non fai male a nessuno se sei ambizioso, però dal mediocre la voglia di eccellere viene vissuta come una minaccia. Gli umiliati ti dicono che dovresti essere umile, io ai giovani, ai miei coetanei e anche a quelli che di solito si umiliano per fare bella figura, per sottostare al politically correct, dico che bisogna essere ambiziosi in maniera sfrenata. L’ambizione sfrenata non solo non esclude il rispetto degli altri, ma assicura il rispetto che dobbiamo a noi stessi. Perché se non sei ambizioso in maniera genuina, sana, sincera, rinunci per partito preso a tutto ciò che di base partecipa alla tua crescita personale da quando sei bambino. Il bambino se ne frega; vuole emulare i fenomeni che vede o che immagina nella sua testa, vuole divertirsi al massimo, non si fa problemi. Crescendo, invece, rischiamo di diventare il burattino di noi stessi, di muoverci all’interno di paletti che spesso ci imponiamo da soli, pensiamo troppo a cosa penseranno gli altri, diamo troppa importanza all’opinione pubblica. Nulla di tutto questo ha valore; le cose più belle, più importanti, di cui noi oggigiorno tra l’altro ci vantiamo, sono il frutto del gesto di persone profondamente ambiziose, a cui non fregava un cazzo del concetto di umiltà, se non nella misura in cui avevano perfettamente integrato l’idea che umiltà vuol dire riconoscere a se stessi il proprio livello, e qui c’è un gesto importante di autocritica, e qui entra in gioco la nostra coscienza. Facciamo un esempio: Bernini è a un livello altissimo, ottimo, io voglio arrivare là, anzi voglio superare quel livello, avendo coscienza di stare molti gradini più in basso. Con questo tipo di impostazione puoi diventare te stesso, ad un livello diverso, dimostrando gratitudine nei confronti di chi è arrivato in alto perché quello rappresenta il volano che ti permette di crescere. Così funziona la storia dell’arte e la storia in generale, così evolve il pensiero.
Hai avuto qualcuno che reputi il tuo maestro? Più in generale, credi nei maestri?
Sì, chiunque può essere un maestro, sta a noi riconoscerlo. È la capacità che ognuno di noi ha nel riconoscere valore in ciò che ci viene detto che poi ne determina l’insegnamento. Secondo me c’è una grossa fetta di persone che sono dei maestri inconsapevoli. Persone che ti dicono cose, anche all’apparenza insignificanti, e che poi tu poni a un livello alto. Gli altri ci forniscono un punto di vista sulle cose, sta poi a noi elevarli a rango di maestro anche senza che loro lo sappiano.
Hai mai distrutto una tua opera che non ti convinceva, magari agli inizi della tua carriera?
Penso immediatamente a quella del Papa, quello è stato un gesto di distruzione. Ma in realtà ogni scultura nasce da un gesto di distruzione. Io per creare qualcosa devo distruggere qualcos’altro. Questo è un problema che mi sono posto all’inizio, quando ho iniziato a scolpire. Per scolpire tu hai bisogno di un materiale preciso, immagina che quel materiale io lo prenda da un fiume, e lì rifletti, perché ti rendi conto che quel fiume ha già fatto un gesto di scultura, in quanto gli scarti, frutto della cavatura del marmo che vengono buttati nel ravaneto e vanno a finire nel fiume, sono stati lavorati dal fiume piano piano, con costanza, in maniera incessante. Quel moto dà loro nuova dignità naturale, li ricontestualizza, cambia loro la forma e quasi spariscono perché tornano a far parte di un panorama senza che possa essere in alcun modo evidente il gesto dell’uomo, ecco quello non è un gesto di scultura? Quando mi sono reso conto che c’era già bellezza, mi sono chiesto davvero quanto valesse il mio intervento. Se una cosa è bella e la riconosci come tale, un intervento successivo ha valore o dovresti semplicemente godertela così com’è? Quindi già distruggere quel sasso, aprirlo, per farne qualcosa di proprio, è una violenza, è già un gesto di distruzione; non c’è riconoscenza verso quella bellezza, ci sei tu col tuo ego che vuole imporsi, per un applauso, per denaro, per cosa? Ti devi chiedere perché lo fai, io ho davvero la necessità di andare avanti, lo faccio per risolvermi. Più in generale, la scultura è l’arte del togliere, anche chi lavora con l’argilla; metti e togli, metti e togli, ha a che fare con il modificare perennemente la realtà delle cose. Non è giusto o sbagliato, funziona così. Distruggo in continuazione: da un materiale che in potenza contiene tutte le forme, io ne tiro fuori solo una e lì c’è la responsabilità dell’artista.
Ecco, l’hai appena citata, tu hai rimesso mano ad un’opera ritraente Papa Benedetto XVI (Ratzinger), dopo che era stata premiata al Premio delle Pontificie Accademie 2010 con la medaglia del pontificato. L’hai “spogliata” ed è diventata “Habemus Hominem”. Credo che più che un pensiero, il tuo sia stato un gesto. Un vero gesto artistico, l’imprevisto contro il sempre uguale, il già scritto…
Ci ho rimesso mano dopo che era stata premiata, poi ho tenuto l’opera e quando il Papa ha annunciato la sua rinuncia, si è spogliato, io l’ho spogliato. Ho fatto un video perché mi sembrava interessante poter aver memoria di quel gesto, perché effettivamente, a quel punto, era il gesto la cosa importante, più che la scultura in sé. E questo ha aperto dei capitoli, uno fra tutti; quand’è che un’opera d’arte può dirsi finita?
Continuando in questa direzione, il filosofo Carlo Sini per non iscrivere l’arte in una logica di pensiero che è propria della filosofia, sostiene che l’arte non pensi. Prima di scolpire, tu pensi e soprattutto esegui passaggi precisi, tecnici, dal bozzetto al gesso. Eppure, nel momento in cui crei si può dire che tu non stia pensando?
Io non ho nessuna preoccupazione di questo tipo, tutti questi problemi io non me li faccio, sono distanti dal mio modo di vivere. C’è sia un pensiero che un gesto, le due cose vivono insieme, possono convivere. Non passo le mie giornate a fare riflessioni di questo tipo, anche perché o parlo o scolpisco. Faccio esperienza della creazione e dentro me avvengono cose magnifiche. Possiamo parlare d’arte tutta la vita, ma poi l’abbiamo fatta? Forse sì, anche parlandone. Se tu riconosci arte in quello che faccio, io sono contento. Io faccio questo perché è così che mi manifesto in questa dimensione materiale, questo è il mio modo di stare al mondo. Tutta l’esperienza della vita avviene dentro di noi, poi gli altri talvolta la proiettano fuori. Se invece un giorno dovessi avere una risposta, perché posso senz’altro cambiare idea, te lo farò sapere, oggi mi sentivo di risponderti così.
Hai mai pensato di impazzire, essendo questo un destino comune a molti grandi artisti?
Definiscimi pazzia, ognuno ha una sua idea di pazzia, è una domanda che pretende una spiegazione, altrimenti non è precisa.
Esagero: tagliarsi un orecchio…
E chi ci dice che è pazzia? Fare un gesto che è fuori dall’idea generale di “normalità” è pazzia? Va bene, la maggior parte delle persone non si taglierebbe un orecchio quindi chi lo fa è pazzo, ma allora la maggior parte delle persone non lavorerebbe in una chiesa, quindi io sono un pazzo. Credo che ci sia un livello dell’agire alternativo, nuovo, alla base del progresso del genere umano, che necessita uno sbilanciarsi in una dimensione che dagli altri venga percepita folle o lontana dalla normalità. Io sicuramente e molto spesso nei miei pensieri, nella mia intimità, nei miei gesti, sono costretto a fare quel salto. È come chi salta dal paracadute, quante volte sentiamo dire “sono pazzi!”, eppure nel momento in cui salti devi essere pienamente lucido, devi essere in grado di tirare la cordicella, e quello è un momento di presenza assoluta, quasi di meditazione. E quante volte noi vorremmo essere totalmente presenti alle cose che ci accadono, godercele, invece siamo completamente distratti. Ogni passo in una dimensione lontana da ciò che è generalmente considerato normale viene percepito diverso, e a tratti folle, perché ti addentri in mondi che all’inizio sono per pochi. Davanti a un blocco di sei tonnellate ci arrivo ogni volta accompagnato da persone, che poi mi lasciano solo, perché soltanto io so metterci mano. E quante volte sarò stato percepito folle, per ogni mattina passata da solo di fronte a un blocco di marmo, ad affrontarlo. Poi quando le cose vengono fatte diventano d’improvviso normali. Sei saltato col paracadute, sei di nuovo a terra e tutti attorno a te si complimentano e ti chiedono come è stato. Abbiamo bisogno di incasellare la follia per fare pulizia attorno a noi. La creatività si manifesta in modi sconosciuti e io ti posso dire che quando scolpisco, come il paracadutista che si butta, necessito di un’assoluta presenza e della mia lucidità, devo esserci. In quei momenti, ogni artista è solo con sé stesso e lì c’è un viaggio che è soltanto suo.
“Un’opera d’arte impallidisce, si spegne nelle stanze dove ha un prezzo ma non ha valore”, diceva Jünger. Tu hai esposto una tua opera, Look Down, a Piazza del Plebiscito. L’hai donata alla piazza di una città piena di contraddizioni e quindi piena di vita come è Napoli. Cosa significa questo atto non dovuto?
La storia è lunga. L’opera nasce a New York, la porto qui a Napoli. Piazza del Plebiscito era evidentemente il luogo dove doveva andare a finire. C’era necessità di attirare l’attenzione con un gesto in relazione ad un momento difficile che è il lock-down, che stiamo vivendo tutti, ma io volevo farlo con un occhio verso chi è condizionato di più da questa situazione, ovvero chi non ha una casa. Mi sembrava significativo lasciarla a Piazza del Plebiscito. È un gesto, non va spiegato. La scultura è lì e ognuno ci può trovare i propri significati.
Cos’è la libertà per te?
Da un punto di vista materiale è poter fare quello che voglio quando dico io. Molti di noi si trovano a dover fare cose per sopravvivere su un piano materiale. Mentre da un punto di vista intimo, spirituale, mi trovo in una condizione di libertà, perché ho un bel rapporto con me stesso, mi esprimo, mi amo e faccio quello che faccio anzitutto per una questione d’amor proprio.
Hai una routine giornaliera?
Tento di svegliarmi abbastanza presto, se riesco alle sei, oppure alle sette, dipende da quanto si estende la sera prima. Io devo dormire otto ore al giorno e cerco di non utilizzare mai la sveglia. Devo leggere almeno venti minuti la mattina, venti minuti la sera. È importante svegliarsi presto, così puoi avere un momento per te. E non leggo mai libri d’arte, dell’arte mi interessano le storie, i dietro le quinte di un’opera, ma per fare una battuta; la storia dell’arte non la studio, sto tentando di farla. Scherzi a parte, anche qui spesso si entra in discorsi pedanti: a scuola un professore ti dice ignorante se non studi abbastanza storia dell’arte, ma poi lui non si ritiene ignorante se non sa usare un martello e uno scalpello. Dov’è l’ignoranza, chi ignora cosa? Tornando alla routine, vengo ogni giorno qui a lavorare e ascolto, come regola, con le mie cuffie, un audiolibro mentre scolpisco.
Lo sguardo nel tuo mestiere è fondamentale. Pasternak scrisse: “il poeta vede, al tempo stesso e da un punto solo, ciò che è visibile a due, isolatamente.” Credi che il tuo sia anche un lavoro poetico?
Il poeta dovrebbe essere l’unica vera professione d’arte, poi ci sono le sottocategorie. Io spero che la mia poesia si esprima attraverso la scultura.
Un’opera d’arte vive e moltiplica vite al di dà dell’artista, può persino diventare un qualcosa d’estraneo all’artista stesso. Quale è stata la reazione ad una tua opera che più ti ha sorpreso?
Sono sempre diverse le reazioni, posso dire che non mi stupisce più niente. E soprattutto, non pretendo minimamente una reazione precisa. Però sono curioso, fare un’opera è metterla al mondo come un figlio, e come un figlio è soggetta alle dinamiche del mondo. La cosa più folle che puoi immaginare, stai pur certa, che almeno in potenza può succedere.
Questa chiesa è il tuo studio e hai intenzione di farla diventare un museo. Non ci sono dei momenti durante la creazione di un’opera in cui, però, non puoi veramente farti guardare?
L’idea è quella, abbiamo costruito una barriera di vetro che in relazione al periodo storico che stiamo vivendo, quando si potrà riaprire, dividerà questo spazio; la prima parte sarà di musealizzazione, la seconda rimane il mio studio e io lavorerò. Ci sarà la possibilità di accedere in silenzio con una selezione di persone. Ci sarà una biglietteria in relazione anche ad altre opportunità museali; il Figlio Velato, le Catacombe. Sarà aperto tutti i giorni, come una normale apertura museale, e le persone saranno istruite sul fatto che io devo lavorare. È un po’ spostare quello che avevo già fatto online, dal vivo, è la sua versione materiale. In effetti, all’inizio pensavo che essere osservati durante la creazione potesse essere un problema perché c’è una condizione di intimità che si cerca quando si crea, però poi ho scoperto che in qualche modo c’è sempre un senso di partecipazione del contesto sulla mente, di cose che avvengono a tua insaputa e sulle quali tu non hai controllo e che in qualche modo partecipano favorevolmente o sfavorevolmente a ciò che stai facendo. Le influenze esterne ci sono sempre, ho già lavorato in diretta online, con la consapevolezza di essere osservato e sono riuscito a portare a termine le mie opere. Come per tutte le cose, l’esercitazione le rende normali e non si soffre più l’ansia di prestazione. Il me di qualche anno fa non ce l’avrebbe fatta, oggi ho scardinato una serie di limiti personali tra cui l’imbarazzo, che magari si manifesta in altre cose ma non più in relazione al mio lavoro. Sono tranquillo da questo punto di vista, sapendo che tutto quello che avviene al di fuori può partecipare favorevolmente alla realizzazione dell’opera, se riesco a fare qualcosa di buono è anche frutto di tutta una serie di condizionamenti e io sto imparando a discernere, a cercare quelli buoni.
Hai mai avuto la sensazione di aver fatto un capolavoro?
No, non ho questo approccio. Giocando dico o faccio poche opere d’arte o pochi capolavori, ma è una battuta. Mi sembrerebbe ridicolo dirmelo da solo e neanche me ne preoccupo a dire il vero. Ci sono opere d’arte finite sui libri di storia che non sono capolavori, e altre sconosciute che hanno dignità di bellezza. Ho fatto dei capolavori rispetto a cosa? Io cerco di dare il massimo sapendo che il me ideale è sempre più in là, e questa rincorsa mi dà coraggio ed entusiasmo. Ci vediamo tra qualche anno e vedremo se sarò migliorato.
Il tuo ambito porta, con più naturalezza, chi lo frequenta a confrontarsi con tutto ciò che non è più contemporaneo, ma eterno. Dovrebbe essere così per ogni ambiente artistico, ma qualcosa evidentemente si è rotto nel dialogo con il passato. Guardando le tue sculture sembra ci sia l’ambizione di restare per sempre. Lo trovi assurdo o riesci ad ammettere di giocare con l’eterno?
Niente è eterno, le mie sculture potranno anche finire nel dimenticatoio in un modo o nell’altro. Oppure rimarranno rispetto agli esseri umani, a me interessa sapere che per un determinato tempo lascerò agli altri una presenza, qualcosa che può avere un valore, ma io non posso prevedere quanto a lungo questo valore riuscirà a partecipare alle vite degli altri. La mia opera chissà, si trasformerà, tornerà a far parte di qualcos’altro. Allo stesso modo il concetto di contemporaneità mi ha sempre fatto sorridere, se ne parla come fosse una corrente. Tutta l’arte è contemporanea per me, se io posso farne una esperienza diretta: Botticelli, io lo vedo adesso e non ha esaurito le cose da dire, continua a parlare in maniera nuova agli occhi delle persone che vi si pongono dinnanzi, questa è la bellezza, e sarà sempre nuova e innovativa. Io vado semplicemente avanti in questa direzione; per me, tutta l’arte è contemporanea finché continua ad esistere.