OGGETTO: La parodia dell'androgino
DATA: 15 Maggio 2020
Riflessioni sulla teoria del gender.
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Sulla teoria gender moltissimo si è scritto e detto negli ultimi anni. Nata negli Stati Uniti a partire degli anni Cinquanta, nell’ambito di studi clinici relativi a condizioni patologiche come l’ermafroditismo e il transessualismo, questa corrente di studi si è via via sviluppata fino al punto di soppiantare i women studies, diventando un punto di riferimento imprescindibile per il pensiero femminista. Questa corrente di studi – che ha trovato la sua consacrazione a livello mondiale nel 1990 con la pubblicazione del celebre Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, della filosofa americana Judith Butler – sostanzialmente cerca di dimostrare che l’identità sessuale di un individuo non dipende dal sesso biologico, ma da norme o modelli culturali imposti dalle tradizioni, dalla società e dalla famiglia, norme che inevitabilmente tendono ad essere interiorizzate e di conseguenza percepite come naturali: l’identità sessuale si riduce quindi ad una costruzione culturale, completamente indipendente dal dato biologico e quindi dall’appartenenza sessuata.

Ma quello che a nostro avviso è più significativo, e che ci sembra sia sfuggito alla maggior parte degli studiosi − i quali nel migliore dei casi si sono limitati a confutarne le posizioni da un punto di vista meramente filosofico – è che in tale tentativo di superare la differenza sessuale, fino al punto di negare l’esistenza di uomini e donne, si può ravvisare una grossolana parodia o contraffazione di un insegnamento tradizionale: ovvero quello della natura androgina dell’umanità primordiale, che ritroviamo in una forma o nell’altra in tutte le dottrine metafisiche e religiose. 

Tra i moltissimi passi che potremmo citare al riguardo, si pensi innanzitutto a Genesi (I, 26-27):

Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.

Oppure a questo passo del Simposio (189, d-e) di Platone: 

anticamente, la nostra natura non era identica a quella di adesso, ma differente. Innanzitutto i generi dell’umanità  erano tre, e non solo due come adesso, cioè il maschio e la femmina… A quel tempo infatti l’androgino era un’unità e partecipava, sia nell’aspetto che nel nome, di entrambi, il maschile e il femminile.

L’androginia che caratterizzava l’umanità edenica, naturalmente, non va intesa in senso letterale: essa simboleggia la condizione di pienezza e di armonia assolute di cui godeva l’umanità durante quella che la tradizione greco-romana definisce l’Età dell’oro, un’epoca in cui l’uomo – non ancora separato da Dio – partecipava ad uno stato di indifferenziazione principiale (simboleggiato nella tradizione biblica dalla “nudità” di Adamo ed Eva). Si tratta dell’uomo primordiale, in cui il Cielo e la Terra, l’Essenza e la Natura – di cui il maschile e il femminile sono un’immagine – non sono ancora separati e si trovano in perfetto equilibrio. Da ciò deriva il significato spirituale della relazione amorosa tra l’uomo e la donna: come afferma A. K. Coomaraswamy,

la relazione coniugale è un sacramento e un rito in quanto riflesso e simbolo adeguato dell’identificazione in divinis dell’ Essenza e della Natura.

Da qui il carattere sacramentale del matrimonio, il quale permette all’uomo di riunire ciò che è stato separato, di ricondurre la molteplicità all’Unità (nell’Islam un celebre ḥadīth  afferma che «il matrimonio è la metà della religione», tanto che la preghiera dell’uomo sposato ha molto più valore rispetto a quella di un uomo scapolo). Il dispiegarsi della Creazione, infatti, avviene attraverso la separazione dell’Essenza e della Natura (Natura intesa come il ricettacolo o il supporto della manifestazione, identica a Prakṛti nel Vedānta), ovvero i due princìpi che costituiscono la polarizzazione dell’Essere universale (Dio o Uno), i quali entrando in correlazione tra loro producono lo sviluppo della manifestazione nella totalità indefinita dei suoi stati.

Questa separazione rappresenta una caduta nel tempo, e dunque nella molteplicità e nella morte, ed è per tale ragione che il matrimonio simboleggia la reintegrazione dei due princìpi separati, ovvero il maschile e il femminile, e quindi il ritorno all’Unità principiale («affinché il Cielo e la Terra siano nuovamente sposi», come recita Ṛgveda, X, 24, 5). In un testo gnostico infatti, il Vangelo di Filippo (68-20), leggiamo che

Nei giorni in cui Eva si trovava in Adamo, la morte non c’era; la morte sopravvenne allorché Eva fu separata da lui. Se rientra in lui, e se egli la prende in sé, la morte non ci sarà più.

Come si vede, ogni creazione – sia quella prodotta da Dio attraverso la polarizzazione dei princìpi suddetti, sia quella a livello microcosmico – presuppone una distinzione o differenziazione, senza la quale nulla potrebbe venire all’esistenza. 

Ananda Coomaraswamy nel 1916

Ora, riteniamo che le osservazioni precedenti siano sufficienti a comprendere che dall’uguale non può nascere alcunché. Quando i teorici del gender vagheggiano un mondo in cui l’eterosessualità sia scomparsa − o perlomeno non sia considerata normale, come auspicato da Eric Fassin o Monique Wittig − non comprendono che essa è considerata normale in ogni tempo e in ogni luogo non in quanto imposta dalla società «patriarcale e fallocentrica», ma perché la presenza e la correlazione di due princìpi opposti e complementari è necessaria affinché la vita – a qualunque grado dell’esistenza appartenga, sia esso individuale o sovraindividuale – si manifesti. Quello che alcuni teorici del gender vorrebbero imporre all’umanità intera nel loro sogno di indistinzione sessuale – in quanto la differenza sessuale sarebbe causa di oppressione e discriminazione − è metafisicamente impossibile, prima ancora che sterile biologicamente: dall’identico, dall’uguale (dal greco όμός) non può nascere nulla, perciò giustamente Alain de Benoist vede in questo sogno di una società senza sessi «un sogno di morte».

Ma il punto essenziale è che questa uniformazione, scambiata peraltro per uguaglianza, a cui tende la teoria gender è esattamente la contraffazione dell’unità, quell’unità che caratterizzava appunto l’umanità edenica. L’uomo unitario delle origini si trasforma dunque nell’individuo unisex, l’indifferenziazione principiale diviene l’erranza di un individuo scisso, un individuo concepito come causa sui, pura monade nella quale tutto sarebbe costruito e nulla innato (e dunque  in grado di scegliere liberamente il proprio sesso). In fondo questo tentativo di spogliare gli esseri delle loro qualità essenziali, fosse anche il sesso biologico, ha come scopo principale la riduzione di ogni aspetto dell’esistenza alla pura quantità, al fine di privare gli esseri di ogni fondamento ontologico. E non c’è quasi bisogno di aggiungere che l’uniformizzazione, la quale è inerente all’ambito della quantità, è l’esatto opposto dell’unificazione, che al contrario appartiene all’ambito della qualità. E se la qualità unisce, la quantità è proprio ciò che separa, anzi è il principio stesso della separatività. 

Monique Wittig

D’altronde è chiaro che questa figura dell’individuo unisex – come quella di altri “soggetti nomadi”, come il migrante e il lavoratore precario – è quanto di più funzionale possa esserci nell’ottica del capitalismo globalizzato, il quale concepisce gli individui alla stregua di unità numeriche, perfettamente uniformi e interscambiabili. La teoria gender, come del resto tutte le ideologie del nostro tempo, conduce inevitabilmente alla mercificazione integrale dell’esistente, giacché un uomo spogliato di qualità non è più un uomo, ma un oggetto. E come ci ricorda Gόmez Dávila,

Più gli uomini si sentono uguali, più facilmente tollerano di essere trattati come pezzi intercambiabili, sostituibili e superflui.

Ma al di là dell’aspetto filosofico o sociale, quello che ci preme sottolineare è che in questa figura dell’individuo unisex ritroviamo il medesimo carattere che accomuna i principali “miti” del nostro tempo − come ad esempio il transumanesimo, la società multietnica e la nozione di un governo mondiale – ovvero la contraffazione di un simbolo tradizionale. Ciò che contraddistingue le forze della sovversione è che finiscono per parodiare quei simboli che, nelle dottrine tradizionali, avevano un carattere puramente spirituale e metafisico, per adoperarli in senso anti-tradizionale. Poiché il prototipo di queste forze animate da una feroce antropofobia − tale da spingerle ad adoperarsi per l’avvento del postumano − è proprio quell’essere troppo orgoglioso per obbedire a Dio, tanto da rifiutarsi di riconoscere la centralità metafisica dell’Uomo nel creato (in quanto Al-Insān al-Kāmil, ovvero l’Uomo universale, identico all’Adam Qadmon della Cabbala e all’Uomo trascendente della tradizione taoista: colui che riassume in sé la totalità degli stati dell’essere), riflesso e vicario di Dio sulla terra (si veda Corano II, 30). Pertanto, per tutti coloro che stanno cercando di sfigurare l’uomo, fino a renderlo irriconoscibile, valgono queste parole del Corano (II, 34)

E quando dicemmo agli Angeli: “prosternatevi ad Adamo”, tutti si prosternarono, eccetto Iblīs, che rifiutò per orgoglio e fu tra i miscredenti.

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