Che scoperta. La letteratura racconta l’eccedente, l’eccesso, l’eccezionale. I grandi libri confondono, perturbano, vanno gettati dalla finestra. Da Gilgamesh che non accetta la morte, la terribile potenza del corpo che crolla, a Ettore, corpo straziato, appeso al carro di Achille, che sbraita intorno alle mura di Troia, corpo sconfitto e scritto, tormento eletto a verbo, non si canta che l’enigma, la carne rastrellata, l’ira contro le evidenze, la solarità della tenebra. La letteratura, che scoperta, è scoperchiare il sacrilegio: Clitemmestra che sgozza il marito, Edipo che giace con la madre, Pasifae che si dà al toro, Fedra che brama il figliastro, Ippolito, la Monaca di Monza, la peste che sovverte le virtù, Padre Sergij che si mozza il dito, Achab accecato dalla diabolica ossessione per la Balena Bianca, il mercimonio di massacri di Cormac McCarthy, l’esegesi nella psicosi di Giuseppe Berto, Mario Pomilio che sventra i testi sacri, William Faulkner che dissacra le parentele, Céline che s’impania in odio nottambulo, Hermann Broch che disintegra il romanzo per cercare un punto di gloria nell’agonia di un uomo che muore, Virgilio.
Il libro, voglio dire, è per natura pericoloso, è magia oscura, ingresso nella gola della tigre. Pur soltanto l’impeccabile costruzione di un mondo altro, parallelo, persuasivo, autonomo, ha in sé qualcosa di sinistro, il sortilegio di chi di questo realtà, terrena, mostra l’equatore della menzogna, l’insussistenza, la meticolosa idiozia. Questa filiera di ovvietà, tuttavia, è sconfessata, da anni, dal predominio del mercato e dalla perversa e pervasiva morale dei neopuritani della cultura. Una volta i libri venivano banditi, censurati, processati – e l’Index Librorum Prohibitorum fungeva da biblioteca di testi che non si potevano non leggere, dacché ogni libro è un accesso al proibito, per questo lo si chiude, sperando d’interrompere, così, il suo clamoroso incantesimo –, oggi sono bendati dall’indifferenza, stigmatizzati dall’intransigenza dei puri di cuori, paladini di una sorta di eugenetica della letteratura. Così, pensieri che sembravano ormai acquisiti, digeriti, passati, come La letteratura e il male di Georges Bataille – “La letteratura non è innocente e, colpevole, doveva infine ammettersi tale” – fungono, incredibilmente, da antidoto ai nuovi accademici del rancore, che rinnovano la letteratura integralista del buon ‘messaggio’. Recentemente, per dire, per la Stanford University Press Dorothy J. Hale, che insegna letteratura inglese a Berkeley, ha firmato un saggio, The Novel and the New Ethics, in cui dimostra – attraversando autori come Henry James, Toni Morrison, Ian McEwan, attraverso saggi di sgargiante ‘correttezza’ – che è l’etica la norma che regge la danza letteraria, che un buon romanzo si giudica dal proprio passaporto morale. “Ammirare un romanzo come pura forma significa banalizzarne la dimensione sociale, mentre il romanzo rivendica primariamente una dimensione etica, politica”, scrive l’autrice, benché l’unica morale, in un romanzo, sia soltanto formale, l’egida aggressiva della forma. L’ideologia della ‘missione etica’ dello scrittore porta, appunto, all’eugenetica delle anime belle, per cui “le brave persone sono anche bravi romanzieri, e le persone moralmente migliori sono romanzieri migliori”.
Ma questa, come dire, è accademia (che negli States non sta chiusa nelle mummificate aule universitarie, ma diventa pensiero diffuso, dominante, coercitivo). Il resto, è storia. Declinata, spesso, in forme grottesche. Jeanine Cummins, ad esempio, autrice, l’anno scorso, di American Dirt, storia possente di una donna messicana che tenta di varcare il confine degli Usa, è stata stigmatizzata dai latinx – come si dicono ora – perché una nordamericana non può raccontare storie di immigrazione che riguardano messicani. Contravvenendo – non è la prima volta – alla più ovvia delle norme letterarie: penetrare nello sconosciuto, interpretare l’assolutamente altro, mobilitare l’immaginazione per immergersi nello sconvolgente, nello sconveniente, nell’alieno, nell’alienato. Lo scrittore è tale proprio perché non si limita a raccontare i fatti suoi, il bunker della quotidiana cerca, ma invade le esistenze ignote, appena immaginate, spaccando lo specchio, spurio, della ‘rappresentazione’. D’altra parte, lo scrittore e accademico – insegna alla University of Southern California – e premiato Viet Thanh Nguyen (quello de Il simpatizzante e Il militante), in un lungo saggio pubblicato lo scorso dicembre sul “New York Times” insegna che il compito fondamentale della letteratura è “un lavoro di impianto critico e politico, teso a destabilizzare il bianco e a rivelare il pesante lascito del colonialismo”. Piuttosto, Bruce Wagner, scrittore americano – in Italia lo pubblica Baldini Castoldi –, sceneggiatore di peso (c’è il suo talento dietro Maps of Stars di David Cronenberg), si è stampato l’ultimo romanzo, The Marvel Universe, da sé, visto che l’editore con cui aveva firmato il contratto, Counterpoint Press, ha preferito rifiutarlo, a causa del “linguaggio problematico per lettori sensibili”. Wagner, in sostanza, fa dire alla sua protagonista, una grassona, che è “una grassona”, e questo non va bene. Replica dell’autore: “credo che i cosiddetti ‘lettori sensibili’ manderebbero al rogo pressoché tutti i miei libri”.
Eppure, una pur pallida forma di ribellione alla coercizione moralista americana si muove. Un informato articolo di Otis Houston – anche lui, facciamoci il callo, uscito dalle fatidiche ‘scuole di scrittura creativa’, il pollaio dei nuovi scrittori globali, globalisti –, Beware of Books!, pubblicato su “Persuasion”, reagisce al “moralismo che sta opprimendo il mondo letterario”. Vale la pena ricalcare un pezzo dell’articolo:
“Non c’è niente di nuovo né di strano nel denunciare idee e autori in nome di una moralità. È una forma di potere esercitata da sempre, da chi intende affermare un dominio culturale… Negli anni Ottanta e Novanta erano i conservatori della morale pubblica a sorvegliare le virtù del pubblico dei lettori americani. Ciò che è nuovo, oggi, è che la tendenza a controllare la bontà morale dei libri riguarda la comunità letteraria di sinistra, quelle stesse persone a cui abbiamo affidato il compito di guidare il corso della nostra cultura. Chi brucia i libri di J.K. Rowling, cercando affannosamente le prove della loro transfobia, sono membri della sinistra progressista, irritati da commenti su questioni che riguardino gender e trans… Questo nuovo moralismo letterario, questa frenesia della censura, che considera la letteratura secondo fini politici, offende l’arte. Rende gli scrittori timorosi di sconfinare oltre le definizioni semplicistiche della propria identità, li priva della libertà di affrontare temi moralmente complessi. E annichilisce le attese dei lettori. Se ci aspettiamo che la letteratura risolva i problemi sociali, fraintendiamo la sua sfida. L’arte non semplifica, ci costringe a guardare il complesso. La scrittura, se è potente, non offre risposte”.
La scrittura, piuttosto, pone sempre nell’illecito – perfino quando la sua nitidezza formale è esatta, inattaccabile, essa ci vince, pretende che noi soccombiamo. È un gesto, lancinante, di prevaricazione estetica, la letteratura. Che la sua pericolosità sia costantemente ostacolata, nel tentativo di disinnescarla, è perfino ovvio. Ne sappiamo qualcosa. Una boria politica ha portato Elio Vittorini, nel 1951, a ideare, sui frantumi della Seconda guerra – e dei repentini cambi di casacca – la collana ‘I gettoni’ per Einaudi. Ma Vittorini, che conosceva bene la letteratura americana – almeno, quella che garbava a lui – era un letterato vero, puro: così tra i Fortunato Seminara, i Giovanni Pirelli, gli Aldo De Jaco, i Mario La Cava, i Giampiero Carocci, pubblicava Anna Maria Ortese e Dylan Thomas e Borges, e scopriva Beppe Fenoglio e Giovanni Testori. Ce ne fossero. Oggi gli scrittori – ancora eredi del ‘realismo sociale’ – latitano tra buone intenzioni sociologiche, messaggi politici, massaggi al proprio ombelico, schiavi del colonialismo moralista anglofono.
E tutto ciò che appariva già dato, conquistato, assunto, sfocato, semmai, per fagocitante falò, torna, ora, innocente e pervertito. Chessò, Maurice Blanchot:
“Scrivere vuol dire produrre l’assenza d’opera (l’inoperosità)… Scrivere come inoperosità (nel senso attivo del termine) è il gioco insensato, l’alea tra ragione e sragione”.
Già, il libro: ingresso nell’irragionevole, tempo violato, volitivo al niente, dove ogni circostanza è accerchiata dall’acido, accidia che acceca, offesa continua, fenditura che si fionda nel vulnerabile dell’uomo. E blocca la sua operosità assassina. Che scoperta, i grandi libri non vanno pubblicati ma incendiati: “i suoi libri sono libri destinati al fuoco, oggetti ai quali manca, in verità, di essere in fiamme; esistono, ma per scomparire, è come se fossero già annientati”, scrive Bataille – uno di quelli da censurare – dell’opera di Franz Kafka. E poi, radioso, “Fra gli scrittori Kafka è stato forse il più astuto: lui, almeno, non si è lasciato cogliere!”. Ma vaglielo a dire, ora, a questi, che lo scrittore è quello in fuga, mentre chi legge ha pupille che sono un’alcova di vipere. Oggi, piuttosto, è la ninna nanna del genio, che esorbita, sostituito dal reame delle vittime, con la ghigliottina in tasca.