In tempi in cui il dettaglio della presunta bisessualità del protagonista potrebbe facilmente rappresentare la chiave di lettura di un testo di per sé irriducibile alle monodimensionali categorie esegetiche dell’epoca postmoderna, appare arduo recensire Tonio Kröger – racconto pubblicato da Thomas Mann nel 1903 presso la rivista tedesca Neue Rundschau – senza cadere nella banalità o essere, viceversa, considerati dei reazionari demodé. Tuttavia, in questo caso, nessun proposito ideologizzante sarebbe stato premeditabile poiché chi scrive ha scoperto senza volerlo il suddetto libro in un mercatino dell’usato da dove, tra l’altro, come in un fiume del remoto ovest americano, si possono dissotterrare di sovente inaspettate, preziosissime pepite d’oro. Thomas Mann – che nel 1901 aveva pubblicato I Buddenbrook – nei primi del ‘900 è uno scrittore affermato e, osserva Ernst Nolte in La Rivoluzione Conservatrice, è altresì uno degli antesignani della stessa, successiva “Rivoluzione” – alla quale, prima di virare verso un ordine di idee parzialmente differente, contribuirà con le celebri Considerazioni di un impolitico (1917), dove, annota ancora Nolte, l’autore contrapporrà nettamente la germanica Kultur – “cultura, anima, libertà, arte” – alla illuministica e francese Zivilisation – “società, diritto di voto, letteratura”.
Nel libro che il destino ci ha posto tra le mani, il futuro autore di Doctor Faustus racconta in terza persona la storia di Tonio Kröger – dalla prima giovinezza sino alla maturità. Tonio – nome di origine chiaramente latina – sublima lo spirito artistico, sensuale e anticonformistico tipico di Consuelo, la bella e focosa madre del protagonista, fuggita, alla morte del congiunto, in azzurre lontananze con un musicista italiano; nel cognome Kröger – derivato dal padre di Tonio, mercante d’alto rango e console – soffia invece la fredda aria del Nord e traluce la serietà, la severità, un’algida bellezza e, in qualche modo, la normalità borghese. Già dalle prime righe Tonio interpreta la propria vita alla luce di questa sofferta dicotomia di cui egli stesso si sente parossistica incarnazione e che esperisce nelle vicende quotidiane come una sorta di fatale destino. Da un lato sin da giovane ama farsi trascinare dall’impeto sentimentale e legge il Don Carlos di Schiller; dall’altro è attratto dalla parca e fruttuosa produttività, dalla empatica moralità delle persone sicure di sé e comuni – ma, forse per questo, sempre a proprio agio, di successo, amate perché amabili, desiderate da tutti.
I primi amori adolescenziali saranno pertanto indirizzati verso due figure – una maschile, l’altra femminile – che sembrano appunto personificare tale adamantina, teutonica sicurezza: Hans Hansen – giovane, biondo e dagli occhi azzurri – e l’allegra, anch’ella bionda, dolce e “arrogantemente banale” Inge Holms – entrambi nordici nei connotati, certi del loro fascino, un po’ distanti dagli altri, in grado di gestire le situazioni e le compagnie. Si tratterà di attrazioni non corrisposte, di “amori” platonici come se, soprattutto nel caso di Hans, il protagonista fosse estasiato, più che dalle persone, dal loro ineguagliabile ethos che in parte sente suo, in parte percepisce come inaccessibile, così normale da essere inattingibile. La stessa sensazione di essere travolto da contrasti estremi – tra “gelida spiritualità” (padre) e “divorante ardore dei sensi” (madre) – si appalesa in fondo anche quando, dopo aver esperito, probabilmente in Italia, le estreme forme della voluttà e dopo essere diventato uno scrittore di successo, Tonio discute con la pittrice Lisaweta Iwanowna del significato dell’arte constatando come non sia affatto vero che il grande artista debba totalmente farsi invasare e devastare dai sentimenti essendo invece l’arte qualcosa che esige distacco, qualcosa di inumano che, sì, trasfigura la vita, ma separandosene, essendo altro da essa – “poiché (…) il sentimento sano e forte non ha gusto. È finita per l’artista non appena diventa uomo e incomincia a sentire”.
Il vero artista difficilmente può essere uno spirito puro e, quantunque sia facilmente vulnerabile, non è un ingenuo gingillo del pathos; anzi, per essere artisti, è necessaria una buona dose di inumanità – quanto basta a rappresentare l’umano senza farne parte. L’artista è una sorta di abile prestigiatore che sa ingigantire il dettaglio partorendo un altro mondo – una costellazione che ammalia e che esalta gli animi ma che affonda le radici in un torbido abisso. Tonio – si percepiscono qui le ascendenze dell’Aurora di Nietzsche – non lavora per vivere ma per creare, “per il resto si aggira grigio e dimesso come un attore senza trucco che non è niente finché non ha niente da rappresentare”. Egli disprezza i dilettanti “per i quali il talento è un ornamento da società” e che hanno come unica preoccupazione quella di essere felici e amati “senza sapere che opere buone nascono solo sotto la pressione di una vita cattiva” e che “bisogna essere morti per essere davvero creatori”.
La letteratura è una maledizione che conduce alla solitudine e che inizia a farsi sentire presto, allorquando si realizza di non essere umani, di essere “qualcosa di estraneo, di sconcertante, di diverso” e di non poter mai più godere di alcuna autentica intesa sociale. L’artista non è un essere morale, un santo che redime nel bello l’irrazionalità dolorosa del reale arrivando alla agognata armonia; anzi, egli è condannato a carpire gli aspetti più profondi dei fenomeni giungendo alla “nausea della conoscenza”, allo “sconforto senza parole”, all’apatia, all’indifferenza e alla “ironica stanchezza nei confronti di ogni verità”. La lingua dell’artista non sublima elevandolo il sentimento; piuttosto ignobilmente lo gela, lo liquida, lo annichilisce; la sua tragedia è di sentire l’arte come un anatema e di amare la vita prima che sia ibernata nelle parole:
No, la “vita” in quanto si contrappone, come loro perenne antitesi, allo spirito e all’arte, non si presenta a noi che siamo fuori dall’ordinario come qualcosa di straordinario, come una visione di sanguinosa grandezza e di selvaggia bellezza; ma il regno di ogni nostro desiderio è ciò che è normale, decoroso, amabile, la vita nella sua seducente banalità.
Tonio Kröger – Thomas Mann
L’artista è colui che “conosce la nostalgia per tutto ciò che è innocente, semplice e vivo, il desiderio di un po’ di amicizia, di abbandono, di calore e di felicità umana”, in una parola, la nostalgia della normalità e il desiderio di chi – come Hans, come Inge – non ha bisogno dello spirito. L’arte è una malattia che corrode la semplicità della vita e sedurre alla poesia sarebbe in questo senso un crimine. Ma un crimine che si paga con la stessa vita giacché è a questa, alla quale segretamente si anela, che si rinuncia. Pertanto, ammetterà l’alter ego di Mann nelle ultime righe del testo, la sua coscienza borghese gli farebbe sospettare dell’arte, giudicata profondamente ambigua ed equivoca, e gli farebbe invece amare ciò che è “sincero e gradevolmente normale”, ciò che, lungi dall’essere geniale, è dignitoso e corretto. Lisaweta – anticipando queste confessioni – accusa Tonio di essere semplicemente un “borghese sulla strada sbagliata” e lo stesso Tonio darà ragione all’amica definendo se stesso “un borghese smarritosi nell’arte, un bohémien con la nostalgia per le buone maniere, un artista con la coscienza sporca”.
La novella sembra di gran lunga autobiografica e per molti versi Tonio è Thomas, non solo in virtù delle coincidenze tra le due biografie (entrambi per esempio hanno un genitore nordico e una madre misteriosamente “latina”) ma anche perché il personaggio si fa portavoce di idee e suggestioni tipicamente manniane. Infatti la tematica del contrasto tra arte e vita, così ricorrente in tanti filosofi del tempo come ad esempio Simmel o lo stesso Nietzsche, è un topos nelle opere dello scrittore, grande ammiratore, tra l’altro, anche di Goethe e di Schopenhauer. Nelle battute finali avvertiamo la tragedia di Tonio che, se è giudicato quale borghese dagli artisti, è parimenti considerato degno dell’arresto dai borghesi. E, chiosa l’autore, non si sa cosa sia peggio:
I borghesi sono stupidi; ma voi adoratori della bellezza, voi che mi chiamate flemmatico e incapace di desiderio, dovreste riflettere che c’è un modo di essere artisti, che è così profondo per sua origine e per suo destino, che nessun desiderio gli sembra più dolce e più degno di essere sentito di quello che porta alle gioie della normalità.
Tonio Kröger – Thomas Mann
È questo amore “buono e fecondo” per la vita che non è arte che trasforma la letteratura in poesia – l’amore un po’ “borghese” che custodisce nostalgia, “malinconica invidia, appena un po’ di disprezzo e una grande, casta felicità” per tutto ciò che è umano, vivo e ordinario, rispetto al quale la parola non sarebbe che un vacuo tintinnar di sonagli. Dopo il colloquio con l’amica russa Tonio viaggerà verso l’estremo nord della Germania alla ricerca delle sue radici e di un’apollinea sicurezza iperborea ma anche alla ricerca di se stesso attraverso il mare (simbolo ricorrente) e la natura che trascende e uomo e parole; avrà modo di ripercorrere malinconicamente la sua infanzia nella dimora dei suoi avi oramai adibita a biblioteca e di sentire il torrente di una indecifrabile nostalgia quasi travolgerlo, per poi tornare a viaggiare, fuggendo da sé e oltrepassando momentaneamente il guado del dolore, verso Copenaghen. Qui, come in un simbolico déjà-vu, incontrerà un’altra volta i lontani affetti della sua giovinezza che, fatalmente, neppure si accorgeranno di lui – loro che evocavano un’immagine “di una purezza inoffuscata, di serenità”, un’immagine “di una ritrosia al tempo stesso semplice e fiera, intoccabile”. In questi luoghi spiritualmente originari, in una sorta di risentimento nietzscheano, egli ancora li adora e soffre per loro – “voi biondi, vivi, voi felici”. Cosa c’era stato sino ad allora, cosa in mezzo al cerchio che nella conferma su di sé si chiude? “Torpore; desolazione; ghiaccio; e spirito! E Arte!”. Come allora, quando viveva dell’emozione dell’irraggiungibilità (“la felicità non è essere amati”), li spia danzare da un altro vano per poi ascendere, nell’oscurità, lontano dalla vita, alla sua solitaria camera d’albergo. Ancora artista – non ancora uomo.