Atipico, controverso, scioccante e per questo unico. È Lucien Rebatet, scrittore tra i più raffinati e interessanti del Novecento francese. Polemico e coltissimo, libellista acido e tagliente. Collaborazionista e nazionalista, scrisse per l’Action Francaise di Maurras e il Je suis portaut di Brasillach. Parlando di musica e cinema, scrivendo le migliori pagine della critica francese. Dimenticato per i suoi trascorsi politici deplorevoli e per il suo romanzo più venduto “Les decombres” (Le macerie) che gli aprì le porte del carcere di Fresnes a fine guerra. A quarantadue anni, prigioniero come Villon, incatenato come Cervantes, condannato come Andrea Chenier, prima dell’ora dei condannati, come altri in altri tempi, su fogli scarabocchiati scrisse il suo testamento anticipato, cronaca di quel periodo grigio: “Non si fucila la domenica” (Mimesis, p64, 2018).
Non si fucila la domenica è un libro ibrido, nato da innesti di bozze, di lettere, di pensieri. Raccolto e successivamente pubblicato nel 1953, strutturato come un pamphlet che offre un ritratto fedele e malinconico dello spirito e della condizione degli intellettuali collaborazionisti a fine seconda guerra mondiale. L’autore è uno scrittore in fama di fascista, intellettuale colto e critico finissimo, innamorato dell’Italia e stregato da autori come Nietzsche, Stendhal, Wagner e Spengler. Che ha fatto parte della destra maurassiana fino a prenderne le distanze negli ultimi anni antecedenti il conflitto bellico. Quando entra a far parte degli organi stampa della collaborazione filotedesca insieme a Brasillach e Chateaubriant. Si definisce fascista ed antisemita e scrive con tali convinzioni il libro più venduto in Francia durante la seconda guerra mondiale: Les decombres. Un pamphlet di oltre settecento pagine che sembra il figlio illegittimo di Bagatelle per un massacro di Celine e Kaputt di Malaparte. Un libro sulle macerie della Francia. Una nazione kaputt coperta da “rovine di cose, rovine di dogmi, rovine di istituzioni”. Raccontata nelle su meschinità nei suoi generali antiquati e ridicoli, contro Vichy, contro la chiesa, contro gli ebrei. In cui vengono scritte le pagine più deplorevoli dell’autore. Pagine che gli valgono l’arresto e la condanna a morte.
Condanna che sarà il grande presagio incombente di “Non si fucila la domenica”, con la sua sentenza arrivata dopo oltre 160 giorni di attesa, tra drammatica commozione e nevrosi. Leggendo questo libello l’autore accompagna il lettore in una routine carceraria fatta di attese e disperazioni, di momenti in cui il protagonista sembra dormire abbracciato con la morte, e di altri scanzonati che fanno dimenticare il clima grave e terribile.
Il libro inizia attraversando la reclusione nel carcere di Fresnes, tra la “mondanità” dell’incontro con i magistrati e gli avvocati, in processi farseschi e ridicoli. Al turbine giuridico si aggiungono gli incontri con i gaffe, le guardie carceriere, che fraternizzano e solidarizzano con i condannati. Chiedendogli inopportuni autografi prima delle esecuzioni: “pensate ho già Laval, Pasquis e Bucard nella mia collezione. Tutti fucilati!”. Mostrando profonda pietà umana, ragguagliando i detenuti con frasi speranzose, convenendo, loro abituati a vedere esecuzioni capitali, che fosse ingiusto fucilare un autore per i propri libri. Un ambiente quello carcerario che viene descritto dall’autore come di “fetidi sotterranei, corrosi dall’umidità. Un vero obitorio”. Morti prematuri di questo obitorio i collaborazionisti, descritti con spirito cameratesco ed ironia. Deformandone i personaggi che sembrano abitanti di una bolgia dantesca, illustrati da Jerome Bosch:
Falstaff, lo sguercio, l’amputato, il burattino, l’epatico, portavano abiti smessi come spaventapasseri, chiusi in qualche modo da cordini, nei quali i magri divenivano scheletri, i grossi otri mostruosi.
Bolgia in cui lo scrittore alterna a momenti di intimismo proiettati tutti sulla scrittura le visite-incontro con l’avvocato Bernard e i compagni di sorte, come Cousteau. Attraverso giorni identici cullati dai fuochi delle esecuzioni, capaci di intimorire e “creare una irresistibile corrente di solidarietà”. Mostrando scene di grande umanità, dal rapporto con i carcerieri alle esecuzioni in cui i condannati mostrano dignità e integrità, come con la fucilazione di Suarez. Mettendo il proprio cuore a nudo, descrivendo in quei giorni l’impreparazione alla morte e la più grande paura di uno scrittore: morire prima di aver terminato il proprio capolavoro.
Il libro in questione non è solo il testamento spirituale di Rebatet, ma una missione. Una eredità e una garanzia di immortalità. Lo scrittore francese si voleva affidare ad esso come un naufrago ad un messaggio in una bottiglia, spedito nell’oceano. “nel detestabile turbinio del mio cervello, dominava un pensiero: tutto un testamento letterario ancora da scrivere”. Parliamo de “Les deux etendards” (“I due stendardi”, di recente tradotto per la prima volta in italiano dalla Settecolori edizioni) un romanzo considerato dal critico Georges Steiner come il più grande romanzo francese dalla Recherche di Proust, paragonabile solo al Viaggio al termine della notte di Celine. Un romanzo mondo che ai tempi della prigionia era ancora in fase embrionale.
Al contrario di Celine e Drieu La Rochelle, Rebatet non aveva prodotto opere degne delle sue abilità al tempo della detenzione. Ciò creerà una corsa contro il tempo per ultimarlo prima di quella condanna latente. Pensiero fisso che si alterna ai dubbi dell’autore sulla sorte dell’amata moglie, sul suo dolore, mostrando un legame tenero e candido tra i due. Ma il pamphlet non è solo una storia intellettuale. È la descrizione dura di una massa di derelitti di un mondo imploso. In cui il lettore piomba in questo “medioevo di ghiacci e catene, di cenci dimenticati da ogni persona civile” in prigioni con temperature polari. I suoi personaggi sono cadaveri eccellenti, icone e santini di un mondo condannato. Non hanno lo stoicismo di Drieu che, come Mishima, si suicida contro la fine di un ideale, né lo sprezzo cavalleresco della morte di Brasillach. Sono spenti, disillusi, amareggiati. Non hanno la consapevolezza della propria opera, né un opera di fama durevole. Non hanno rinnegato il proprio passato, ma non si ergono a simboli.
Rebatet è uno di loro, infatuato di fede politica e odio, che ne Les decombres, ha creato un cimitero di previsioni sbagliate, di odi gratuiti, che si è accorto della fine di un’epoca e vuole solo continuare la sua opera finale, per avere un riscatto postumo. Del suo processo diranno che si era difeso “come un coglione”. Verrà graziato dopo un calvario giudiziario lunghissimo dal presidente Auriol. Difeso dagli stessi Mauriac e Malraux, che non avevano potuto salvare Brasillach. Commentando la sua grazia come condannato a morte, De Gaulle disse: “non meritava questo onore”. Rebatet riflettendo su quale esecuzione simbolica fosse stata quella di Brasillach sentenziò
Mi pareva sempre più chiaro che Robert Brasillach, ahimè, ci aveva salvato tutti.
Una sicurezza ancora non maturata da Rebatet nei giorni passati in attesa di una fucilazione che non avvenne mai. Ore infinite, trascorse come in un incubo febbrile, dedicate alla stesura insonne delle ultime pagine dei due stendardi, alle lettere per i parenti e gli amici. Smorzate solo dalla parentesi di una radio goliardica da lui diretta (Radio Q), in cui divenne idolo comico di Fresnes, attraverso un programma profondamente demenziale. Poi la grazia, i preparativi, i bagni di folla insieme agli altri collaborazionisti salvati. Il Rebatet futuro vivrà un isolamento inconsolabile nonostante la stesura de “I due stendardi”, capolavoro patrocinato da Gallimard, nonostante altre opere fondamentali, soprattutto di critica cinematografica e musicale. Venerato dal regista Francois Truffault, che lo considererà suo maestro e nume. A distanza di anni è superfluo un giudizio etico sul pensiero politico di Rebatet. Un pensiero condannabile che però non deve far dimenticare la grandezza stilistica e concettuale della sua opera. Un’opera che, come disse Arbasino, “si scrive da sé” e va giudicata solo dalla lente estetica. In questa luce possiamo definire sia i due stendardi che non si fucila la domenica, dei documenti eccezionali di uno tra i più grandi artisti francesi. Opere che in poche pagine creano mondi, scenari, sensazioni. Affreschi per comprendere il secolo, con noie e paranoie. Per mostrare uno scrittore che non va né dimenticato, né censurato, ricorderemo sempre che non si censura la domenica.