In un libro scritto ormai qualche anno fa, la filosofa francese Chantal Delsol diagnosticava con una certa perentorietà la Fin de la Chrétienté (La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo, Cantagalli 2022). Sempre in Francia, la recente riapertura della cattedrale parigina di Notre Dame ha catturato l’attenzione dei media di tutto il mondo. Al di là degli ovvi motivi storico-artistici, un elemento risulta particolarmente caratteristico: un evento a tutti gli effetti religioso ritorna a riunire non soltanto una parte della popolazione francese, ma anche Capi di Stato, celebrità ed autorità di ogni genere. Il Presidente della Repubblica Macron ha parlato di “restituzione al mondo” di una cattedrale che è prima di tutto un patrimonio artistico, storico e culturale; ma l’ambizione di fare della riapertura di Notre Dame un importante simbolo della propria agenda c’è stata e c’è tuttora. Tuttavia, che il discorso di Macron sia stato tenuto fuori dalla cattedrale non è un caso, così come è sembrato pressante il tentativo di trovare un equilibrio tra il vessillo della laicità e la necessità di rinforzare un’immagine personale sempre più discussa. Sembra permanere, almeno in forma minimale, una dialettica chiara e definita tra il secolare e il religioso, come se questi due poli non soltanto esistessero ancora, ma traessero reciproca affermazione da divisioni e avvicinamenti. È la recente attualità a rappresentare un ulteriore motivo per ritornare sulla diagnosi di Delsol.
In Fine della cristianità, come si diceva, Delsol giunge in certo modo alla conclusione della traiettoria di pensiero iniziata già con L’âge du renoncement (Cerf 2011): la crisi della “cristianità”, intesa come categoria assiologica e storica, non lascia soltanto macerie alle sue spalle. Al contrario, di fronte all’uomo moderno e scristianizzato si apre un’età a tutti gli effetti neopagana, con la propria morale e le proprie abitudini rituali. La cristianità, per Delsol, ha dei confini cronologici ben determinati (dalla battaglia del Frigido alle rivendicazioni novecentesche sull’aborto) e non ha cessato di esistere senza lottare: al contrario, quella della cristianità è stata una ‘lunga battaglia persa in partenza’. Conclusasi in un’agonia di più di due secoli, la battaglia “persa in anticipo” ha avuto le caratteristiche di uno scontro in cui “tutto è stato aspramente conteso, ma dove nulla è stato salvato”. Compromesso dopo compromesso, quando ognuno di essi doveva essere l’ultimo (La fine della cristianità, p. 12). Qui, l’analisi di Delsol è lucidissima: la dialettica evangelica tra la Chiesa e il mundus si è progressivamente tradotta in una ritirata non sempre ordinata della prima rispetto al secondo. Un adeguamento lento ma costante, la cui prova più evidente è forse il ruolo di retroguardia (o, nei casi migliori, seconda linea) culturale al quale il mondo intellettuale cattolico è stato relegato negli ultimi due secoli. A conferma dell’analisi di Delsol va anche l’andamento delle politiche sociali cristiane in Europa: particolarmente significativo il caso italiano, dove le opposizioni da parte cristiana rispetto alle riforme sociali in materia di divorzio, aborto, unioni civili e DAT hanno via via conosciuto una progressiva sfumatura. Per il venir meno dell’appoggio della società civile o per l’ammorbidirsi delle convinzioni in materia, l’opinione della Chiesa cattolica in Italia è risultata perlopiù irrilevante all’interno del dibattito pubblico degli ultimi decenni.
Il punto della tesi di Delsol che solleva più domande è quindi un altro e coincide con la parte più originale del suo lavoro. Di fronte allo stato attuale delle cose, che fare? Qui, la diagnosi si fonde con una proposta. Il paganesimo di ritorno non sarà nichilistico: porterà una nuova cultura, una nuova morale e tenterà senz’altro di forgiare un nuovo concetto di uomo. Per molti versi, le sollecitazioni della ‘svolta neopagana’ andranno a soddisfare bisogni che l’uomo contemporaneo avverte e per i quali le religioni tradizionali non sembrano essere attrezzate. Facendo riferimento ancora una volta al caso italiano, le recenti ricerche in campo sociologico confortano questa tesi. In una rilevazione del 2016, il tasso dei giovani (dai 18 ai 29 anni) ‘credenti’ in senso vago in qualche entità ma posizionati su un netto rifiuto della religiosità tradizionale e istituzionalizzata (quella cattolica in particolare) era cresciuto del 40% rispetto a otto anni prima (Garelli, Piccoli atei crescono?, Il Mulino 2016). Ad attirare è un senso indeterminato di ‘spiritualità’, spesso declinato in forme panteistiche o, appunto, neopagane a tutti gli effetti. Il venir meno della cristianità e l’allontanamento dalla religiosità tradizionale non sono nemmeno processi neutri dal punto di vista emotivo. Come nota Delsol (p. 104), il caso del Québec è emblematico: il rifiuto della Chiesa risponde a un diffuso senso di frustrazione rispetto al potere che l’istituzione ha esercitato in modi spesso arbitrari e prevaricatori. Di qui, due conseguenze principali: l’assunzione di un atteggiamento aggressivo e spesso persino violento nei confronti del cristianesimo a livello sia culturale che sociale e la diffusione di un profondo senso di colpa all’interno delle dinamiche e degli ambienti ecclesiastici. Già vent’anni fa, in un clima totalmente diverso da oggi per quel che riguarda il rispetto delle minoranze, veniva osservato come nessuno trattasse le minoranze etniche, culturali e religiose con un disprezzo pari a quello riservato al cattolicesimo, che pure poteva ancora ambire a rappresentare una maggioranza (Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito, Il Mulino 2003, p. 6).
Delsol critica l’atteggiamento remissivo delle ‘voci cristiane’, ma al tempo stesso riserva aspre sottolineature anche a posture che possono ricordare nostalgia o mancata accettazione della fine della cristianità. Come seguendo un’ideale pendolo, la missione del cristiano contemporaneo deve, secondo Delsol, evitare oscillazioni estreme. La cristianità come “civiltà” guidata dai principi della Chiesa è terminata. Ciò che non può conoscere fine, invece, è la missione del cristiano nel mondo, una missione che Delsol consegna alla “clandestinità”:
Non ci sono altri eroi se non quelli di forza? Eroi della pazienza e dell’attenzione, e dell’amore umile? Della quotidianità, dell’indulgenza, dell’equanimità? Eroi proprio perché non si vantano ma portano tutto dentro, suscitando, così e solo così, il desiderio di somigliare? In altre parole, non possiamo inventare un altro modo di essere se non quello dell’egemonia? La missione deve essere necessariamente sinonimo di conquista? Si può pensare il cristianesimo sul modello dei monaci di Tibhirine piuttosto che su quello di Sepúlveda. Probabilmente sarebbe meglio se rimanessimo solamente dei testimoni silenziosi e, in fondo, degli agenti segreti di Dio (La fine della cristianità, p. 119).
Questa posizione ha destato alcune perplessità e animato il dibattito pubblico dopo l’uscita del libro. Mi limiterò a sollevare soltanto due questioni, peraltro in forma di semplici domande. È un fatto acquisito che il dominio temporale della Chiesa abbia prodotto nei secoli frutti controversi. Ma di fronte all’obiezione classica per cui le società precristiane – spesso peraltro idealizzate – non fossero sotto alcun aspetto migliori (o semplicemente più vivibili e tollerabili) della societas christiana è difficile non acconsentire. Questo per il semplice fatto che ogni assetto sociale presenta delle inevitabili mancanze, mentre non tutti offrono le stesse opportunità. In termini di innalzamento morale e attenzione alle vulnerabilità, il cristianesimo ha garantito un progresso sociale difficilmente discutibile. Se le cose stanno così, perché ridurre la “cristianità” soltanto a ciò che di (oggettivamente) negativo essa ha rappresentato? È questa, ad esempio, la posizione di Daniel J. Mahoney (Assumption University, Worchester, MA).
La seconda domanda sorge direttamente dal tipo di risposta che si è disposti ad accordare a questa prima questione. Se si riconosce che il cristianesimo è portatore di valori rilevanti a livello sociale, il cristiano non può che essere in difficoltà rispetto alla qualifica di “agente segreto di Dio”. La “testimonianza silenziosa” auspicata da Delsol può sembrare una novità positiva soltanto perché troppe volte nel corso della storia è stata disattesa; tuttavia, è il minimo che il Vangelo richiede a chiunque scelga di seguirne i principi. Rimane così del tutto aperto il tema della testimonianza sociale. L’argomento che sembra essere più interessante in questo senso suona più o meno così: come può ritenersi moralmente innocente il cristiano che, sapendo di poter rappresentare un fattore di accrescimento del bene comune, delega la totalità della responsabilità politica e istituzionale ad altri?