Scena 1. Stimulus
Vedremo mai contemporaneamente il passato e il futuro, l’inizio e la fine, l’intero universo in un singolo istante? Troveremmo finalmente le risposte ai quesiti più profondi: che cos’è l’uomo, da dove proviene, che cosa lo muove, qual è il suo scopo.
Dark, s. 1, ep. 9
L’esperienza umana è percorsa da profonde nervature che ne segnano il cammino con un’incisività straordinaria. La morte di un amico, la fine di un amore, un errore di valutazione: il rimpianto, il rimorso, ma anche la speranza, il distendersi della previsione, l’amarezza dolce del ricordo. Allo stesso modo, c’è qualcosa d’altro tra le caratteristiche intrinseche dell’esistenza che impedisce l’appagamento. Datus est mihi stimulus carni (σκόλοψ τῇ σαρκί), angelus Satanae (2 Cor. XII.7): quando l’Apostolo scrive, ha sperimentato l’estasi, ha visto e conosce, ma questo non deve portarlo a insuperbire. È quindi ricacciato nella condizione umana, in cui l’anima per conoscere «diventa in certo modo tutte le cose» (ὁ μὲν τοιοῦτος νοῦς τῷ πάντα γίνεσθαι), e si costringe a inseguire oggetti sempre più sottili ed evanescenti, fino a quelli che si rivelano inafferrabili. Sapere che si potrebbe e non potere, desiderare lucidamente ciò che non si può possedere: questo è il punto davvero doloroso e che se non si fa attenzione – dicono i moralisti di ogni tempo – genera una concupiscientia infinita, una tensione che brucia ogni forza.
Tra le interpretazioni della spina nella carne che la tradizione esegetica ha elaborato, la più interessante è sicuramente una: Paolo è ossessionato dai peccati del passato. In estasi, cos’ha visto? Colui nel quale vivimus et movemur et sumus: Paolo ha visto Dio, l’ἄγνωστος θεὸς, il non-noto che è senso di tutto. Fuori dall’estasi, non può più coglierlo istantaneamente, facie ad faciem, ma solo per speculum. Ritorna a immergersi, a vivere e ad essere altrove: non più direttamente in Dio, ma nelle spire del tempo; non più nel senso eterno, ma nell’attesa e nel rimorso. Leibniz vedeva come fine ultimo della conoscenza il calculemus universale, la possibilità di estrarre da una proposizione logica ogni possibile conseguenza e contraddizione futura. La via mistica evita la discorsività dei processi razionali, ma termina allo stesso punto: diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum (Rm. VIII, 28). Il salto della fede («sufficit tibi gratia mea») è l’unico rimedio proposto a Paolo e da Paolo per porre fine all’unico vero patimento del vivere in via: il pesce non ha presa sull’acqua che lo contiene, l’uomo il tempo non lo può proprio possedere.
Scena 2. Cronoteologia
Io ti ho visto crescere, diventare un uomo. Conosco l’intero ciclo della tua vita. Sei il prescelto del tempo, sei il prescelto da Dio.
Dark, s. 2, ep. 3
L’inizio ideale della nostra storia è una sera – probabilmente primaverile – dell’anno 1067. Cosa piuttosto insolita per l’epoca, l’ormai cardinale Pier Damiani discute a tavola durante la cena con l’abate di Montecassino, Desiderio. L’oggetto del contendere è un passo della Lettera XXII di san Girolamo, nella quale si afferma che nemmeno Dio, l’Onnipotente, può cambiare il passato: una vergine corrotta può essere ristabilita nella virtù, giungere a livelli altissimi di santità, ma nessuno può far sì che non sia accaduto ciò che, semplicemente, è accaduto. Già molto prima e in un contesto molto differente Aristotele aveva espresso lo stesso parere (Etica Nicomachea VI, 1139b) e in ambito stoico l’immutabilità del passato veniva utilizzata per formulare argomenti in favore della necessità del destino in generale, com’è ad esempio il caso di Diodoro Crono. Quel che è davvero interessante è che, ritornando alla mensa di Montecassino, Pier Damiani contraddice Girolamo: Dio, essendo onnipotente, deve poter modificare anche il passato. Del resto, Dio è al di fuori del tempo: non c’è davanti a lui reale differenza tra passato, presente e futuro (De divina omnipotentia, II). I secoli successivi hanno visto un emergere prepotente delle teorie filosofiche e fisiche legate al tempo. Se l’età moderna ha voluto farne una caratteristica stabile ed eterna dell’universo (Newton, Laplace), gli idealismi e l’entusiasmo positivistico hanno attribuito al tempo tutte le proprietà che classicamente venivano attribuite a Dio: progressivamente, il tempo diventa così padre della verità (Lessing) e creatore delle specie (Darwin).
In qualche modo – solo apparentemente sorprendente – è la fisica del Novecento a rinormalizzare la nozione di tempo, seppur in senso paradossale. Mentre il tempo dei filosofi diviene sempre di più il tempo della fenomenologia e dell’esperienza interiore, la t dei fisici è ormai, insieme allo spazio, uno dei due fili che intrecciandosi formano la trama sottile della realtà, lo spaziotempo. Se la teoria della relatività generale prevede espressamente la possibilità di percorrere il tempo in avanti (è il caso del paradosso dei gemelli) la soluzione dell’equazione di campo di Einstein proposta da Flamm nel 1916 apre a quella che diventerà la congettura di Einstein e Rosen dei wormholes, cunicoli spaziotemporali (solo matematicamente possibili) capaci di mettere in comunicazione diverse regioni di spaziotempo. Tuttavia, pur essendo in alcuni casi aggirabili (Smeenk 2000; N.J. Smith 2013) i paradossi generati dalla possibilità di muoversi nel tempo sembrano essere decisivi: il passato non può essere modificato. In questo senso va la congettura di protezione cronologica di Hawking, che nega tout court la possibilità di viaggiare nel tempo, ma anche la proposta recentemente formulata da Nikk Effingham riguardo alla riduzione di supposti viaggiatori temporali all’impossiblità di agire (Effingham 2020). In ogni caso, che sia possibile per l’uomo, o soltanto per Dio, o del tutto impossibile, fin qui arriva l’estensione di ciò che definiremmo l’accezione hard di modificazione del passato: il progetto di cambiare o prevenire letteralmente eventi già accaduti.
Scena 3. Potere
Se sapessimo come andrà a finire, […] prenderemmo le stesse decisioni? Oppure imboccheremmo strade diverse? Saremmo comunque in grado di sfuggire al nostro destino, o ciò che è dentro di noi, nel nostro profondo, ci condurrebbe alla stessa meta, come una mano invisibile?
Dark, s. 3, ep. 1
È il febbraio del 2021 quando si fa strada su alcuni canali di comunicazione una notizia decisamente insolita. Sulla base di quanto rivelato da una fuga di documenti, l’Istituto di Fisica delle Alte Energie dell’Accademia Cinese delle Scienze (finanziato direttamente dallo Stato) avrebbe avviato una collaborazione con la compagnia di tecnologie aerospaziali Shanxi Ruitai Technology Development Technology per l’attivazione di un progetto (dal valore di 200 milioni di yuan) di costruzione di una macchina del tempo. La notizia in breve viene smontata (anche se soltanto dopo aver obbligato un istituto prestigioso come l’Accademia delle Scienze cinese a emanare un imbarazzato comunicato ufficiale di smentita), ma un punto balza sicuramente all’occhio: emerge in chiave (geo)politica un tema come la manipolazione del tempo nel suo senso forte. Che non è però l’unico senso rilevante della questione. Il 7 agosto di quest’anno è stata presentata in Russia la revisione e riscrittura della storiografia ufficiale dal 1945 ad oggi. Pu rappresentando un’operazione dal sapore vagamente retrò, ampiamente (e a buon diritto) criticata dai media occidentali, non va dimenticato che la riduzione della storia a retorica è un prodotto esclusivamente occidentale (Derrida, 1967) e che in Occidente, soprattutto oltreoceano, opera tuttora pressoché indisturbata. Ritorna così ad esser messo a tema il secondo grande senso della manipolazione del tempo. Manipolazione soft, cambiando il racconto copre, modifica e tradisce ciò che è stato. Quale il significato? Spendersi per tentare di crescere generazioni (ammesso che al giorno d’oggi sia realmente possibile) ‘nuove’, che conoscono un passato differente, significa investire nella speranza di plasmare un futuro alternativo rispetto a quanto il presente lascia intravedere.
Nella repulsione istintiva che si prova all’idea della menzogna storica si scopre, ancor meglio che attraverso la lente dell’utopia fantascientifica, il potere del tempo. Il passato cattura forze, il futuro attenzioni. Il Novecento ha impresso il trauma del passato-che-non-passa, ha mostrato come il passato possa paralizzare il tempo di intere nazioni, renderlo fragile, assorbire in sé epoche destinate a non avere mai una consistenza propria. La manipolazione, seppur ex negativo, continua invece a mostrare che il passato non è solo questo. Evidentemente, può essere anche eredità, orgoglio, fattore propulsivo. Il passato ci interessa così tanto – e ci deve interessare così tanto – perché rappresenta un capitale spesso molto più concreto di quello economico, o demografico, o sociale. Il passato è un capitale multiforme: è una ricchezza, è una risorsa, è un peso; spinge o immobilizza, degrada o risolleva, in ogni caso cambia gli equilibri. La comprensione della dimensione capitalistica del passato è una delle acquisizioni fondamentali dell’umanità. Il passato è potere, con il passato si può investire, avere un passato significa possedere qualcosa. Un impero si giustifica solo a partire dall’eredità di una gens, un atto pubblico solo a partire da una cittadinanza. Senza passato si è nudi, apolidi, destinati all’irrilevanza. Chi ha il passato migliore assicura a se stesso una mano decisamente più promettente nella partita che si gioca per il presente: da Paolo di Tarso ad Einstein, accettare il tempo diventa la sfida per poterlo proteggere. E forse impegnarsi a proteggerlo può essere il primo passo per imparare ad accettarlo.