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La sorpresa più singolare della lettura consecutiva dei romanzi di un autore molto amato è che si crede di leggere dei libri e invece si chiacchiera con un uomo. Un uomo che spesso non c’è più. Ho amato molto Tolstoj nell’epoca della mia meglio gioventù di lettore appassionato e un po’ rétro. Credo di averlo letto tutto ‒ quello edito e in circolazione nella metà degli anni ’70 – eccetto I cosacchi e Chadzi-Murat e gli scritti saggistici e religiosi dell’ultimo periodo della sua vita. In cima alla mia predilezione ci sono La morte di Ivan Il’ič, La sonata a Kreutzer e gli immensi Anna Karenina e Guerra e pace. Ho letto la Karenina due volte e Guerra e pace una: per leggerlo due volte occorrerebbero due vite. Ho letto questo lunghissimo romanzo (oltre 2000 pagine nella mia edizione Garzanti Grandi Libri, trad. P. Zveteremich) in marce forzate, è il caso di dire vista la materia bellica, in una calda estate siciliana, nel cortile di casa, con il conforto di un pacchetto di sigarette “MS” a notte, e boccali di una bevanda al limone ghiacciata che mi preparavo da me. Praticamente la felicità.
Devo dirlo: non avevo altri diversivi, distrazioni o divertimenti. Mentre i miei amici si avventuravano nei primi interrail, io che ero abbastanza malestante e lavoravo da imbianchino per mantenermi agli studi, chiedevo alla letteratura di espletare il suo ufficio di narcotico per poveri, di proiezione a poco prezzo in mondi fantastici: il raddoppio delle sensazioni nientemeno. Quelle mediate dalla letteratura avrebbero dovuto affiancarsi, nelle mie intenzioni, a quelle immediate provenienti dalla vita, ma nei fatti le sostituivano. Chiedevo alla letteratura di salvarmi la vita. E ci sono riuscito. O c’è riuscita la letteratura, nel senso che ha agito con una forza tutta propria su di me. Mi sono distratto, e distraendomi dalla vita vera, proiettandomi in quella fantastica, prendevo le misure di quella reale. Chiedevo all’homo fictus, al lettore qual ero, di dare una mano all’homo naturalis, di dargli la mappa della vita – i fondamentali – tale che al momento di vivere più che conoscerle le emozioni, le esperienze, le situazioni, io potessi riconoscerle. La lettura era insomma una anticipazione della vita, una gigantesca simulazione, come quella che fanno i piloti prima di saliere sui jet, un vivere preavvisato, fuori dai condizionamenti della vita vissuta. Una specie di libertà assoluta quella del lettore dunque, se quella del vivente è una libertà vigilata.
Sia come sia, Tolstoj (insieme a Stendhal, Rousseau, Brancati, Pavese, Verga, Moravia, Flaubert, Hemingway e tanti altri) accompagnò gli anni belli e afflitti della giovinezza. Ero angosciato – dal bisogno materiale soprattutto – ma avevo questi beni spirituali in eccesso. Rischiavo: leggevo più di quanto mi necessitasse per vivere. Una situazione di squilibrio pericolosissima, di accumulo di eccitazioni mentali, di exacerbatio cerebri, che in genere conduce gli individui senza pesi a librarsi nel vuoto della nevrosi, della più grande e irrimediabile infelicità, oppure andare incontro al destino tipico dell’intellettuale spiantato: trovare impiego con artifici e raggiri a Mediaset o vagheggiare inacidito il sovvertimento violento dell’ordine esistente.
Forse vivere significa garantire un’accettabile integrità all’io, ovvero impedirne letteralmente la disintegrazione, porre solide basi all’arco dell’esistenza tra progetto ed esecuzione, giovinezza e maturità, speranza e ricordo. C’era dalla mia parte tuttavia anche la nascita plebea e l’ironia popolaresca che mi impedivano di “prendere la tangente” come avvenne a tanti viziati borghesi della mia città. Nel dialetto del mio popolo dopotutto la parola “pensiero” coincide con il campo semantico di “preoccupazione” e suggerisce vivamente di non averne troppi di questi “pensieri” in testa. Mi “salvai”, se mi salvai (« Non dire che un uomo è felice se non hai visto l’ultimo dei suoi giorni», ultima battuta di Edipo re di Sofocle), soprattutto grazie a Tolstoj.
Cosa ho trovato in Tolstoj di tanto salutare e salvifico? Semplice: la vita. Boom! Sì la vita etica. Non che Tolstoj mi abbia dato chissà quale formula, che mondi potesse aprirmi, forse soltanto indicato una tana (la letteratura, la lettura in sé) da dove scrutare la lotta per la vita (degli altri), o forse qualche indicazione generica sui salvacondotti per superare alcune frontiere dell’essere, allo scopo di affrontare, anche schivandola forse, quella res severa che è la vita stessa. Che, come è noto, tanto fu seria con lui da farlo deragliare in età tardissima poco prima della morte (a comprova che di formule facili non ce n’è proprio per nessuno). Ma solo dopo molti anni ho compreso che Tolstoj mi aveva indicato la vita etica, ovvero la vita matrimoniale. Una cosa dopotutto non scontata in un’epoca (fine anni Settanta) di attacchi all’istituzione matrimoniale, di «familles, je vous haie!», di coppie aperte, di nomadismo sessuale, di “comuni “ e di Macondi.
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Quando si legge un’opera non abbiamo mai contezza dell’azione che essa esercita su di noi. Spesso non sappiamo neanche condurre una ricognizione ragionata della trama, figurarsi capire il centro profondo che l’opera ha in sé e per sé o solo per noi (non sempre i due piani infatti coincidono). Dell’opera perdiamo la visione nel corso del tempo, ci sfugge non solo la trama, ma anche l’impressione complessiva, restando nella nostra memoria soltanto alcuni punti luminosi, i “fosfeni” di quell’opera, come quando chiudiamo gli occhi e li strizziamo a palpebre chiuse. «Un nugolo di impressioni, alcuni punti chiari che emergono da un’incertezza fumosa: è tutto questo che in genere possiamo sperare di possedere di un libro» e «un libro non è una catena di fatti, è una singola immagine». (cit. P.Lubbock – Il mestiere della narrativa, Sansoni 1984”).
E ciò accade per i dettagli del libro e a volte del suo insieme, si tratti del viso di Natasha, della morte di Bolkonskij, del peregrinare cogitativo di Bezukov, del saggio Kutuzov o dell’epilogo stesso della vicenda, che tuttavia ricordiamo benissimo: finisce in un tranquillo tinello familiare. Relativamente alla “forma” per esempio ancora il nostro critico inglese Percy Lubbock dice che Guerra e pace non ne ha, come struttura forte egli intende dire, ma è piuttosto un “flusso” inarrestabile di eventi, lungo come un grande fiume o come un inverno russo: «Lo scorrere del tempo, l’effetto del tempo appartiene al cuore del soggetto» di questo romanzo .
Probabilmente quel tipo di narrazione “fluviale” oggi non avrebbe corso, è fuori dalla nostra stessa percezione del tempo, la quale è accelerata e sincopata ormai come un videogioco. Alcuni critici (Italo Calvino, non ricordo più dove, forse in Perché leggere i classici che non ho sottomano) dicono che è cambiata la nostra stessa percezione del tempo: nell’Ottocento la visione della realtà era come quella osservata da un tranquillo signore sul parapetto di una nave, oggi è quella, accelerata e vorticosa, di chi cade nella tromba delle scale. E qui forse ha ragione Alfred Polgar (Piccole storie senza morale, Adelphi 1994) quando dice:
La vita è troppo breve per la forma letteraria lunga, è troppo fuggevole perché lo scrittore possa indugiare in descrizioni e commenti, è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo; la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in libri ampi e lunghi.
Alfred Polgar
Nel vortice della nostra vita sociale suggerire la lettura di Guerra e pace a soggetti debilitati dagli scossoni di un assetto sociale che ruba vita alla vita potrebbe perciò sembrare un azzardo quando vorrebbe essere solo una proposta aristocratica e insieme terapeutica. Se oggi infatti si moltiplicano gli inviti a consumare cibo, musica, televisione lentamente, perché non anche la narrativa lenta di Tolstoj?
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Nel corso di una di quelle scorribande da lettore onnivoro e disordinato quale sono, mi imbattei in un illuminante passo di Remo Cantoni (La coscienza inquieta, Il Saggiatore, Milano 1976) che improvvisamente mi delineò il rapporto tra me e Tolstoj e mi mise sulle tracce di un’interpretazione pungente dell’arte tolstojana, sul solco delle “filosofia dell’esistenza”. Interpretazione che da allora mi accompagna. Il libro di Cantoni è una delle più belle e penetranti disamine del pensatore danese Kierkegaard ancora circolante in lingua italiana. Riassumiamo a grandissime linee (e con qualche mio tradimento) questa dialettica esistenziale. Don Giovanni, l’Assessore Guglielmo e Abramo sono nel pensiero di Kierkegaard le figure-emblema dell’itinerario fenomenologico dell’esistenza. Vita estetica, morale e religiosa sono i tre “stadi” possibili della vita. Sono essi coincidenti con in tre stadi della vita biologica: giovinezza, maturità e vecchiaia? No, certamente (a me è capitato il contrario: una infanzia e giovinezza religiose, una maturità etica, un inizio di terza età estetica, speriamo!), anche se i tre stadi in genere si attraversano secondo questa sequenza e i tre personaggi portatori delle istanze sembrano ricalcare le tre età della vita.
Il giovane don Giovanni, il maturo Guglielmo, il vecchio Abramo. Diciamo subito che chiunque abbia superato le rapide dello stato nascente dell’innamoramento ed è entrato nel placido stadio istituzionale del matrimonio (o della diade stabile) sa che la nascita di un figlio immette la coppia in un universo di valori in cui l’eticità è la “dominante”. Anche se si troverà la propria personale vibrazione estetica nel cambio dei pannolini, nei fatti, i figli, che pur «sono una nostra vena che batte fuori di noi» come avvertiva Brancati, non sono noi, sono altro da noi e chiedono cure indifferibili, impegno diuturno, fatica e apprensione infinite. Oltre che serietà coscienziosa. Se la giovinezza è uno stato “estetico” per definizione (da aisthesis, esperire con i sensi) visto che si hanno addosso troppo pochi giri d’esistenza per avere una dimensione più sedimentata e ragionata della vita, la nascita di un figlio pone il soggetto immediatamente nella dimensione etica. Il marito è l’eroe coniugale se, di contro, i grandi amanti sono eroi pre-coniugali, post-coniugali o meta-coniugali.
Ora, i tre stadi vivono in maniera autonoma nelle scelte di vita di ciascuno di noi, ma c’è da aggiungere che non sono “isolati”, allo stato puro, sono misti dialetticamente e si contaminano a vicenda, nel senso che c’è nella vita estetica una piega a volte religiosa. Don Giovanni ha il culto della donna si potrebbe dire, ma, oltre ai genitali di lei, da acquisire in maniera compulsiva e seriale in una “cattiva infinità” nel tentativo, sempre fallito, di possederli per sempre, c’è la ricerca inesausta delle infinite modalità estetiche in cui si manifesta l’inebriante “femminile” nelle donne. Un fatto che di per sé vale la coazione a ripetere. Ma anche nella vita religiosa vi sono componenti estetiche. Non occorre aver letto Freud per intero per capire che in alcune esperienze religiose estreme, nei cilici e nelle autofustigazioni o addirittura nella scelta finale della morte autoinflitta come quella dei martiri qualcuno ha visto una sorta di piacere, voluptas dolendi estrema fino all’amor mortis. Clemente Alessandrino lo vide negli occhi dei martiri cristiani e se ne spaventò a tal punto da sospettare che fossero dei voluttuosi aspiranti suicidi infiltrati tra le fila dei “veri” cristiani.
Noi per parte nostra biasimiamo coloro che si sono gettati in braccio alla morte: giacché esistono alcuni che non sono realmente dei nostri, ma hanno in comune con noi soltanto il nome, e che ardono dal desiderio di consegnarsi, poveri miserabili innamorati della morte (grassetto mio) in odio al Creatore. Noi affermiamo che questi uomini commettono suicidio e non sono martiri, anche se vengono ufficialmente giustiziati. (citato da Arthur D. Nock. La conversione”, Bari, Laterza 1985, p.155).
In fondo, la scelta della vita etica è di tipo mediano, fuori dai, e forse contro i, grandi turbamenti e le sfide estreme della vita estetica e religiosa. L’istanza della vita etica può imporsi in due modi secondo ciò che ho compreso provvisoriamente. A) sorgere dalla malinconia, dallo squallore, dall’autodistruzione insita nella vita estetica stessa. C’è un momento in cui la vita estetica appare all’esteta come insensato scialo che brucia solo nell’attimo; la propria genitalità sensibile e sensualità demoniaca gli appaiono senza scopo se non se stesso. Oppure B) come strategia di ritiro calcolato della “cattiva coscienza”, la quale “spontaneamente” tenderebbe sempre e comunque alla vita estetica, approvandola nell’intimo, ma quasi sempre negli individui medi non ha i mezzi per metterla in atto. Accade così che non potendo vivere una vita di piaceri ce ne inventiamo una di doveri. È, infine, anche vero che nella vita etica si assaporano le dolcezze dell’uno e dell’altro stadio sia estetico che religioso (per chi ha fede). Com’è vero che nell’amore coniugale si trova sia quella Venerem facilem parabilemque – il sesso facile e abbordabile di cui parlava Orazio ‒, sia il culto dell’unione familiare, che era già “sacra”, signori, prima del cristianesimo. Proprio in ultimo mi occorre aggiungere che se il seduttore estetico non ama una donna, ma la donna, l’uomo etico è tentato di amare la donna in una donna.
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Ed eccoci al dunque. Analogamente, nei personaggi di Tolstoj gli stadi dell’esistenza kierkegaardiana appaiono misti, mai allo stato puro. Se Pierre Bezukov e Konstantin Dmitric Levin (veri e propri alter ego di Tolstoj) sembrano scolpiti nella pietra viva della vita etica (anche se bellamente “estetica” è la scena “etica” della falciatura del grano in Anna Karenina, perché è il padrone Levin che sceglie di mischiarsi a torso nudo in uno slancio etico-estetico con i propri contadini), se Nechljudov di Resurrezione e Ivan Il’ič sembrano smarriti nella dimensione religiosa della vita, Anna Karenina (una crasi narrativa di Madame de Rênal ed Emma Bovary) è una bella che sbanda tragicamente dallo stadio etico matrimoniale a quello estetico, presa al laccio dei frutti sublimi e amari dell’adulterio. Immensi sommovimenti psichici e sessuali sembrerebbe destare l’amore extraconiugale che oggi “aggredisce” (o felix culpa!) le coppie perlopiù intorno ai quarant’anni e ai tempi di Anna ai trenta; una forza estetica inebriante non solo per i graditi e liberatori sensi di colpa che esso genera, per quel lato avventuroso e teatrale di sdoppiamento della personalità di chi giocoforza deve recitare due parti in commedia, ma soprattutto per la “riscoperta” e la reviviscenza del sesso infeltrito dalle ambagi del coniugio e dai gravosi impegni etici dell’allevamento della prole che procurano ottundimento dei sensi e la fatale clorosi della vita estetica dei primi anni matrimoniali quando i sensi scattavano come levrieri all’apertura dei cancelli.
L’io tolstojano come l’io di ogni grande artista è ovviamente frantumato in tutti i suoi personaggi e in tutt’e tre gli stadi dell’esistenza. Tolstoj è Anna Karenina, è Pierre Bezukov, Levin, Ivan Il’ič, Nechliudov e anche Vronskij (l’avete visto nelle foto giovanili quant’era bello?). Ma ciò accade solo a Tolstoj e i grandi artisti, o anche a noi, si parva licet? Non accade anche a noi, in fondo, di attraversare per avventura romanzesca della nostra esistenza o per adesione cosciente i tre stadi dell’esistenza? Com’è anche vero che ci può toccare di essere classici alle nove del mattino, romantici a mezzogiorno e barocchi o decadenti alle ventuno, o se volete da giovani, nella maturità e nella vecchiaia, ad libitum. «Un io è come un club dove vecchi soci si dimettono e nuovi si iscrivono» avvertiva Gadda.
Il giovane Petja Rostov vive nello stadio estetico ed estatico della vita militare, dimensione in cui perlopiù si racchiude la vita estetica di Tolstoj in quanto uomo e narratore, si vedano i Racconti di Sebastopoli. A noi potrà sfuggire questa dimensione estetica della vita militare. Cosa può avere di estetico l’occupazione di dare morte agli altri a colpi di cannone? Nulla, ma la vita estetica cui qui si allude è quella dell’esuberanza dei corpi, quella dei giovani conviventi nelle caserme che hanno consuetudine con le altrui nudità nelle camerate, quella dei giovani soldati alle prese con bevute colossali (com’è normale esperienza dello zapoj, le inenarrabili ciucche russe), che scommettono sulla propria resistenza sui davanzali delle finestre della camerate con sotto l’abisso in cui rischiano di schiantarsi, nel gioco ferale della roulette russa, che frequentano i bordelli, esperienza quest’ultima che segnerà di interrogativi angosciosi il Tolstoj di Sonata a Kreutzer quando ci si chiede dubbiosi se quelle stesse mani che hanno toccato le carni guaste e viziose delle prostitute siano le stesse che dovranno sfiorare i visi angelici di fanciulle educate tra i merletti e spinette, intente a singhiozzare davanti ad abissali e ridicoli amori romantici e che nulla sanno degli sperdimenti della carne, della sua fosca, sporca, inebriante fisicità estetica. È bene ricordare che educazione sessuale ed educazione sentimentale divergevano per tutto l’Ottocento. Che i giovani maschi apprendevano l’Ars amandi e venivano iniziati sessualmente nei bordelli. Che questo tipo di iniziazione sessuale si è protratta almeno fino agli anni ’50 del ‘900 e che forse la generazione dei nati attorno agli anni ’40-50 del secolo scorso (quella del ’68 per intenderci) è stata la prima in assoluto in Occidente in cui educazione sentimentale ed educazione sessuale coincidono e sono avvenute contestualmente con coetanei. Ma prima di allora la vita sessuale dei giovani fino al matrimonio, e per molti anche dopo, si svolgeva principalmente nei postriboli.
Tolstoj è il cantore dei tre stadi dell’esistenza così bene “isolati” e descritti da Kierkegaard in tutta la sua opera. Enten Eller, aut aut o piuttosto et et? E benché lo stadio etico-matrimoniale sembra essere il proprium di questo grande artista che secondo Isaiah Berlin era una volpe che si credeva un istrice (ne sapeva tante di cose della vita e non una sola, e inoltre era una cosa e si credeva un’altra), si falserebbe la prospettiva nel comprenderlo appieno se ci si fermasse solo a questo stadio come abbiamo visto. Ma la vita matrimoniale, quella che Kierkegaard ha intravisto con la sua Regina Olsen, è in Tolstoj materia perenne di canto. Tutti ricordano l’incipit di Anna Karenina. «Tutte le famiglie sono felici allo stesso modo ogni famiglia è infelice a modo proprio». Ma che dire de La felicità domestica, che proprio l’elemento etico ed estetico sembra già coniugare nel titolo?
E la vita coniugale nella sua forma ossessiva è al centro della indimenticabile Sonata a Kreutzer e in Resurrezione. E se si pone mente alla trama di Guerra e pace si ricorderà che sono scoppiate mille granate, sono state attraversate decine di fiumi, combattute battaglie eroiche senza fine, è morto Bolkonskij in quel modo sublime che tutti abbiamo letto, ma sembrerebbe che le monde existe pour aboutir une … famille. Tutta la storia e tutto il mondo esistono perché la tenera Natasha e il pacioso, pacifico e meditabondo Bezukov possano sposarsi. La pace, dopo la guerra, l’idillio domestico di questa coppia dopo lo scoppio delle granate, sembra che l’epos di tutto il romanzo si incanali e si acquieti in questo tranquillo tinello borghese. Sembra dire Tolstoj «I drammi ci capitano, ma le tragedie dobbiamo meritarcele, come tutto ciò che è grande». Ma in mezzo o dopo eventi così perigliosi occupiamoci delle tartine e dei bambini, alla vita etico-estetica domestica, perché alla quiete della casa e ai bambini si deve tornare dopo i grandi “cannoneggiamenti” della vita.