“Non più nemici, non più frontiere: Sono i confini rosse bandiere.”
Dal canto Bandiera rossa
“Imagine there’s no countries/It isn’t hard to do/Nothing to kill or die for/And no religion too/Imagine all the people/Living life in peace…”
Imagine di John Lennon
La più grande costruzione umana mai edificata sul pianeta terra sembra essere la Muraglia cinese che, secondo una leggenda metropolitana, è visibile anche a occhio nudo dalle navicelle spaziali. Il Vallum di Adriano, le mura serviane e aureliane sono invece testimonianza che, per quanto forte fosse il potere espansivo di Roma in punta di gladio e inclusivo in punta di diritto (vedi la politica, dettata perlopiù da ragioni tributarie, della concessione della cittadinanza ai popoli dell’Impero), altrettanto forte fu in diverse epoche della sua storia la necessità di difendersi dai nemici o di separarsi dai vicini. Col termine hostis peraltro si indicava sia il nemico quanto il forestiero. (v. Cicerone, De officiis, 1,37: “Hostis enim apud maiorem nostros isdicebatur, quem nunc peregrinum dicimus”. “Presso i nostri antenati veniva detto nemico colui che oggi chiamiamo forestiero”).
“Ogni comunità, anche la più pacifica se è vera comunità è anche vera ostilità. Nulla unisce un gruppo più della celebrazione dei propri caduti, a nessun dolore ogni comunità è attaccata che a quello procurato dal comune nemico. Noi veniamo unificati dai martiri noti e dai militi ignoti”.
Franco Cassano
Il muro più scandaloso e contraddittorio costruito in Europa, quello di Berlino caduto nell’89, fu edificato in una notte dal regime comunista, che aveva fatto dell’internazionalismo e della pace tra i popoli fratelli la propria ideologia ufficiale, ma che non esitò a separare i propri proletari dagli altri pur ripetendo “proletari di tutto il mondo unitevi” o cantando, nella Bandiera rossa dei comunisti italiani, “Non più nemici, non più frontiere: Sono i confini rosse bandiere”. Ma qui un sorprendente Cassano, a dispetto della sua tradizione culturale internazionalista, annota:
“Si è proletari per disgrazia e mai per scelta e appena si può la condizione di proletario la si abbandona per salvarsi da soli. Non si cerca di unificare i popoli ma di organizzare il proprio”.
In tutt’altro versante, dopo aver con fervore preconizzato che “prima o poi tutti i muri crollano” il Papa attuale andrà a rinchiudersi, verosimilmente controvoglia essendo uomo ispirato, tra le solide e antichissime mura della città del Vaticano, dette Leonine, costruite in un’epoca in cui c’era ragione di innalzarle visto che quand’era priva di esse Roma fu devastata, ma che non ci si sogna di abbattere o di aprire dei varchi in esse oggi che si predica tutt’altro. Mura, quelle vaticane, presidiate quindi con solido realismo, come tutti quei muri che sono anche frontiere, da variopinte sì, ma guardie svizzere.
C’è da supporre infine che anche i sostenitori più accorati del pensiero no border (v. su Internazionale l’articolo “Senza frontiere” in cui Giovanni De Mauro perora “l’apertura di tutte le frontiere e la libertà di movimento per ogni abitante della Terra”), una volta ritiratisi a casa la sera dopo le dure battaglie internazionaliste e mondialiste, provvederanno a chiudersi a chiave tra le propria mura domestiche: ponendo un’invalicabile frontiera tra il dentro e il fuori.
“Il diritto di proprietà (iusexcludendi omnes), annota Cassano ragionando per conto suo, non è anch’esso un insieme di frontiere tanto meglio protette quanto più grandi sono le ricchezze a cui interdicono l’accesso?”.
Per quanto l’amicizia tra i popoli sia particolarmente sostenuta dalle migliori coscienze e per quanto forte sia l’impulso a incrociarsi tra la gente comune di buona volontà, altrettanto forte, e fino ad ora più forte, si è manifestata la pulsione a separarsi. I muri eretti da ogni ideologia, sia politica che religiosa e non solo, stanno lì a dimostrarlo. Sembrerebbe prevalere fra gli uomini la persistenza degli aggregati sull’istinto delle combinazioni, per dirla con le formule di Vilfredo Pareto.
Ma bisogna fare attenzione e saper distinguere. I muri, argomenta in tema Debray, non sono le frontiere, non lo sono ancora o non lo sono più, o lo sono solo talvolta e non lo sono tutti e sempre. I muri perlopiù sono eretti, sia negli intervalli lunghi della storia, sia nella fretta di una notte, per separarsi nettamente. Molti muri sono dei bastioni fortificati; e se c’erano bastioni, seppur al largo di Orione, perfino nello spazio ucronico e utopico di Blade runner figurarsi nel nostro prosaico mondo terreno. I muri sono eretti contro l’hostis di Cicerone; essi dicono solidamente e arcignamente un non prevalebunt netto e ostile come quello dei cattolici romani contro le forze degli Inferi. Le frontiere invece sono “un affare intellettuale e morale” (Debray), spesso un segno invisibile (soprattutto sulle nevi delle Alpi), neanche olfattivo come quello degli animali, i quali separano il proprio territorio da quello degli altri spargendo liquidi corporei. Le frontiere sono segni demarcatori nell’indistinto geografico. Ma là dove è possibile, in fondo alle strade o nei valichi, la frontiera, questo muro ideale, si apre o si chiude. Le frontiere hanno l’entrata e/o l’uscita nella medesima porta avendo la doppia funzione, come la faccia bifronte di Giano, e non dicono un no a tutti come i muri. Dicono: questi sì e questi no. Il muro interdice il passaggio, la frontiera lo regola. È un filtro: il regno dei passaporti, dei visti, dei bolli, in cui è la statualità, prima che il popolo-nazione, a celebrare i suoi trionfi. Era d’altronde compito dei re che ne hanno preso il nome quello, propriamente sacerdotale, di regere fines, donde rex, mantenere i confini. (Debray).
Le notizie recenti di cronaca ci narrano dell’erezione dei muri per il mondo, ed è la storia che ci informa che sono le frontiere che si sono moltiplicate a dismisura negli ultimi 50 anni. Ben ventisettemila chilometri di nuove frontiere, dice Debray, sono stati tracciati solo dopo il 1991 specialmente in Europa e in Eurasia. E nuove frontiere, a volte con muri, a volte no, si alzano in ogni dove. Solo tra il 2009 e il 2010 lo studioso di geopolitica Michel Foucher ha calcolato ventisei casi di conflitti transfrontalieri gravi.
“Per quanto fossile osceno, la frontiera si agita come un diavoletto. Fa la linguaccia a Google Earth e appicca il fuoco alle pianure – Balcani, Asia Centrale, Corno d’Africa fino al pacifico Belgio. […] Lo spirito del “mio cantone” ha rimpiazzato “viva la città-mondo”.
Debray
Le frontiere, oltre che stati o nazioni, recintano identità. Ma Hume, nel suo saggio sull’intelletto umano, a luogo di identità, che sa di rigida logica aristotelica (A=A), adottava il termine psicologico di sameness, che potremmo tradurre “sestessità”. Oggi ogni riflesso identitario (o sameness) appare braccato, snidato e giustiziato sul posto dai pensatori radicali. E tuttavia, benché gli antropologi avanzati si affannino a negare, perfino ontologicamente, ogni identità; benché i cooperanti di buona volontà e in favore di telecamera, attrici di successo e il dolce cantante utopista John Lennon, nonché tanti bravi ragazzi in riva al mare cantino Imagine there’s no countries; benché, infine, gli agenti dell’inflessibile pensiero internazionale accorrano a biasimare o scoraggiare intellettualmente ogni distinguo, ogni remora, ogni dubbio, ebbene, ciononostante, i popoli continuano a voler andare ostinatamente per conto proprio. Pretendono le frontiere.
La storia recente indubitabilmente ci dice questo, e forse c’è da supporre, ce lo continuerà a dire in futuro. All’atto della dissoluzione dell’impero sovietico i cechi non vollero stare con gli slovacchi, i croati con i serbi, gli ucraini coi russi, e oggi il popolo dei curdi non vuole abolire le frontiere come invece molti suoi simpatizzanti europei vorrebbero per le proprie, ma lotta piuttosto per ritagliare tra quelle degli altri Paesi circonvicini, le proprie. Chiosa Cassano:
“Dalle frontiere è difficile liberarsi […] Il sogno dell’abolizione delle frontiere è molto lontano da qualcosa che rassomigli ad una sua realizzazione: i giovani curdi perseguitati da tre stati non sognano di superare ogni frontiera ma di aggiungere a quelle esistenti quella del loro stato nazionale.”
Di contro, c’è un pensiero internazionale espresso da minoranze intellettuali fortissime che non solo dà per scontata o inevitabile la società multiculturale, multireligiosa, multietnica: la preconizza, la perora, la invoca, la impone. Domani, oggi, adesso. A quale modello storico funzionante e soddisfacente si ispirano questi ottimisti “senza frontiere”? Forse a quello irlandese? dove, pur essendo bianchi di carnagione, con le efelidi e rossicci di capelli sia gli irlandesi che gli inglesi, per quattrocento anni si sono dati botte da orbi sul filo dei sacramenti? O forse a quello della ex Jugoslavia che pure già l’aveva ma l’ha nettamente rifiutata la sua società multiculturale, multireligiosa, multietnica? Già, perché quand’essa venne pensata da bravi poeti e pensatori idealisti e panslavisti sul filo dell’idea sublime e commuovente di riunire tutti gli slavi del Sud dentro un’unica frontiera e venne poi nei fatti aggregata prima dalla monarchia e poi con la forza bruta del socialismo quasi-reale di Tito, ebbene, fu poi la storia a preoccuparsi decenni dopo, previo immane spargimento di sangue di innocenti, a decretare che il progetto era tanto bello quanto sballato. Non funzionante. E i popoli ex-jugoslavi misero subito delle frontiere tra di loro, tuttora traballanti e guardate a vista da forze militari ONU.
“Diventa allora naturale chiedersi: la possibilità di indebolire i confini esiste anche fuori del sogno e della poesia?”
Cassano
Se e quando cambierà questo orientamento divisivo e con quali rischi o opportunità per l’umanità avverrà l’auspicata caduta di ogni muro e di ogni frontiera nel mondo irenistico di domani, è argomento che ci passa davanti agli occhi tutti i giorni in questi anni di rimescolamento delle genti soprattutto in Europa, ponendoci interrogativi cui nessuno per adesso sa rispondere.
Ho condotto fin qui queste riflessioni già in buona parte sul filo di due saggi, di cui adesso dirò qualcosa di più nel dettaglio. Il primo, Pensare la frontiera, contenuto nel libro di Franco Cassano Il pensiero meridiano (1996) m’è giunto per caso. Cercavo questo volume del pensatore barese credendo di trovarvi ragionamenti sul Mezzogiorno, e mi sono trovato davanti a una raccolta di saggi, non del tutto omogenei dal punto di vista tematico, su Camus, Pasolini e sul pensiero meridiano, ovvero:
“Una riformulazione dell’immagine che il Sud ha di sé: non più periferia degradata dell’impero, copia sbiadita o deforme della modernizzazione delle metropoli settentrionali, ma nuovo centro di una identità ricca e molteplice”.
Quello sulle frontiere è un saggetto piuttosto spurio, in detto contesto, di una quindicina dipagine. Cassano, recentemente scomparso, proveniva dalla sinistra comunista. Era uno dei fondatori dell’école barisienne e s’era posto in finale di partita, dopo una lunga militanza nel PCI, a ragionare su Leopardi, su Camus, sul Sud.
Nel suo saggetto, dopo aver rammemorato la nozione importante di”«sradicamento” mutuata da Simone Weil e pagato il tributo alla propria tradizione culturale con una frase come questa:
“Il diritto alla mobilità intellettuale e territoriale, la possibilità di entrare ed uscire da qualsiasi legame che ci vorrebbe trattenere come se gli appartenessimo, questo dare ospitalità e rispetto a chiunque senza guardare ad un’appartenenza diversa da quella del genere umano, questa santità-trascendenza dell’individuo è qualcosa di grande e importante che l’Occidente che le ha dato vita fatica a vederne l’altra faccia”,
Cassano precisa come meglio non si può:
“Sul confine, sul limite ognuno di noi termina e viene determinato, acquista la sua forma, accetta il suo essere limitato da qualcosa d’altro che ovviamente è anch’esso limitato da noi. Il termine de-termina e il con-fine de-finisce. Questa reciprocità del finire, questo terminarsi addosso è inevitabile e incurabile. Il sospetto che il limite sia ingiusto o che tale venga ritenuto dall’altro è inseparabile da questo determinarsi a vicenda, da questo nostro finire dove l’altro comincia”.
(corsivi dell’autore dell’opera, grassetto mio).
E più avanti si stenta a riconoscere l’intellettuale internazionalista quando si legge:
“La strategia più efficace per indebolire la divisione che viene dai confini non è certo quella della loro abolizione per decreto. L’universalismo sogna un mondo senza confini, ma spesso la sua fiducia nelle proprie buone ragioni lo conduce a creare nuovi confini, diversi e più forti di quelli aboliti. Il sogno comunista pensava ad un mondo senza frontiere, ma questo mondo si doveva corazzare a Berlino con un muro alto sei metri e all’interno con il ferro spinato dei gulag.”
È vero, aggiunge Cassano: le frontiere oggi vengono scavalcate sia dai mercati che dai media. I mercanti furono i primi a infrangere le frontiere; c’è nello spirito del mercante e nella logica dei mercati la spinta universalistica e globalista, che possiamo riscontrare facilmente oggi ma che c’era già ai tempi del consumista voluttuario Mondain (1736) di Voltaire, gaudente delle merci che gli provenivano a Parigi dai quattro angoli del mondo. Ma paradossalmente sia il capitalismo neoliberista che il pacifismo internazionalista, in perenne conflitto sullo scacchiere economico, sembrano giocare qui e oggi la stessa partita: scavalcare le frontiere, infrangerle.
C’è poi, nel testo di Cassano, una nota che tornerà in Debray: l’allusione ai cosmopoliti che in Debray è anche “l’Internationale universitaire des penseurs euro-américains, maigre substitut des Internationales ouvrières disparues”. “Nello stesso tempo, scrive Cassano, diventiamo vicini a persone ed eventi molto lontani e lontani da persone ed eventi molto vicini”. In questo contesto si collocano i globetrotter, coloro che parlano globish. “La libertà e lo sradicamento si scoprono fratelli, nati dall’unica spinta che ha separato l’uomo dai suoi legami”. Ma non tutti reggono bene allo sradicamento. Ci sono infatti i cosmopoliti ovvero coloro che sono meno attaccati ad una comunità perché “sono consapevoli di poter fare carriera in altre comunità”. Ma dall’altra ci sono i born to lose “per costoro lo sradicamento prevale sulla libertà in quanto quest’ultima si traduce in un’esposizione dura e feroce alla contingenza del mondo”. La libertà produce lo sradicamento che, a sua volta, genera la richiesta di protezione. Una volta era lo Stato sociale a offrire questa protezione, oggi sembra “che quella strada non possa più essere battuta e si ritorna a sentire il fascino delle vecchie protezioni, quelle fondate sull’appartenenza etnica o religiosa”.
Il secondo saggio sotto esame è l’Éloge des frontières di Régis Debray (2013, ed. digitale). I lettori giovanissimi non sapranno probabilmente chi è Debray (n. nel 1940). Ma un giro in rete li ragguaglierà sullo statuto di “intellettuale rivoluzionario” che egli ebbe da ventenne. Fu sodale di Fidel Castro, Salvador Allende, Che Guevara, nella cui morte fu implicato secondo alcuni in una maniera torbida che qui non è il caso di esaminare. Basta solo ricordare ai fini del nostro discorso che La frontière è la sua prima opera (1967). Fedeltà sicuramente a un termine, non so se a una tematica (non ho potuto leggere quella prima prova).
In questo Èloge Debray si muove controcorrente rispetto al pensiero dominante della sinistra a cui francamente non so se appartenga più. (Avrà forse oltrepassato anche lui la sua frontiera intellettuale?). Debray scrive questo libro à rebrousse-poil secondo le sue stesse parole, a contropelo, cercando di “celebrare ciò che gli altri deplorano”: la frontiera. Vorrei solo sottolineare che il suo discorrere trova spesso punti consonanti e talvolta coincidenti in maniera speculare con quello di Cassano, che lo precedono di un quindicennio circa. Mentre quello dell’italiano si avvale dello stile retorico, acuto e finemente argomentato del saggista alto di gamma, Debray ha l’andamento della forte tradizione pamphletaire tipica della Francia di Voltaire, dove il libello (pamphlet) come strumento di attacco e di stile ha trovato la sua patria di nascita e di elezione e il suo preciso codice retorico, talvolta impareggiabile e sconosciuto da noi, quanto a eleganza della parola e snellezza nervosa del periodare.
Il suo riferimento polemico sono i “senza frontiere”, gli agenti del pensiero internazionale, quelli che parlano globish, una lingua che dell’inglese non ha che il nome. Sono i cosmopoliti, dicevamo, cui alludeva Cassano che, secondo Debray:
“Accarezzano un pianeta liscio, sbarazzatosi dell’altro, senza scontri, restituito alla sua innocenza, alla sua pace del primo mattino, simile alla tunica senza cuciture di Cristo. Una terra liftata, senza cicatrici, da dove il male è miracolosamente scomparso». Ci sono degli stolti che fanno la previsione di un pianeta hub, vasto aeroporto senza popoli da interconnettere (…) con dei bipedi plananti che non avrebbero più bisogno di poggiare i piedi da qualche parte. Un consumatore teletrasportato, un’aereo-città delle dimensioni del globo”.
La stessa creazione, argomenta Debray, è iniziata con un atto di separazione. Dio come un diavoletto (diabolon, il contrario di symbolon in greco, significa il divisore, colui che separa) disgiunge ciò che era congiunto “stacca una forma dal fondo per dare figura all’indifferenziato”. Stabilisce dei confini. Peraltro in tema di religione “sono sempre i preti che fissano le frontiere”. Il papa stesso nel 1494 con il trattato di Tordesillas divise le colonie spagnole da quelle portoghesi. Delimitare i confini è un atto prima che politico, religioso. Romolo prende un aratro e traccia il pomerium, il confine sacro del Palatino. Il termine stesso sacro deriva dal latino «sancire», delimitare, contornare, interdire. E il termine templum tempio deriva dal greco temnein, ossia tagliare. Ciò che sta davanti alla cinta sacra è pro-fanum, uno stigma spaziale prima che morale o religioso.
Il limen romano da dove il nostro “limite”, “liminare” e “preliminare” è “ad un tempo sia il suolo che la barriera, come limes è sia il cammino che il limite. Giano, il dio del passaggio ha due facce”. Oggi “sacralizzare” un luogo in cui tutto sembra sconsacrato significa “mettere uno stock di memorie al riparo. Salvaguardare l’eccezione di un luogo, e attraverso esso, la singolarità di un popolo. Rinchiudere in un angolo di non scambiabilità, nella società dell’interscambiabile, una forma atemporale in un tempo volatile, un “senza prezzo” nella società del “tutto-merce” ”. Come si fa con il nostro corpo, chiuso in quel confine naturale che è la pelle, che separa l’interno dall’esterno, “la sacralità accordata al nostro corpo gli impedisce di diventare una cosa, un prodotto come un altro. E di mettere all’asta, reni e fegato su un biomercato speculativo, per il trapianto d’organi al miglior offerente”.
Ci sono quelli che magnificano la forza delle reti. Certo: “che sia utile mettere il mondo in rete non significa che io possa abitare questa rete come un mondo”. La connessione non fa convivenza; il connettivo non è il collettivo. “Una persona morale ha un perimetro o non è”.
“Il cybercittadino non ritroverà la sua fecondità, senza ritrovare, in qualche modo, l’immaginazione, l’impazienza, l’emozione della frontiera. Quella che fa venire i brividi il levare delle tende al teatro, che non si attraversa se non con una leggera strizza al cuore, sotto lo sguardo falsamente distratto del doganiere. Quella che deve attraversare ogni ricerca spirituale, senza la quale non c’è educazione sentimentale. Quella che autorizza una giusta (dunque) limitata stima di sé”.
Ma c’è un contraccolpo all’accelerazione dei processi di uniformità prodotti dalla rete. Il desiderio, l’ansia della diversità. “Non si è mai parlato tanto di biodiversità che dopo il trionfo dell’uniforme”. “Quando non si sa più chi si è si sta male con il mondo e soprattutto con se stessi”. Quanto all’identità culturale Debray trova queste parole: “Il tratto culturale (…) attraversa il tempo. Quando ha eletto il domicilio da qualche parte, che si tratti di una scrittura, di un sistema di parentela, di un modo di vita o di una maniera di stare a tavola, lì resta”.
Mentre l’economia si globalizza e la politica si provincializza, le connessioni tra gli individui diventano planetarie. “Con il GPS e Internet, gli antipodi diventano il mio vicinato, ma i vicini della township tirano fuori i coltelli e si sbudellano alla meglio maniera”. “È il grande scarto. Raramente s’è visto nella storia lunga della credulità occidentale, un simile iato tra il nostro stato d’animo e lo stato delle cose. Tra ciò che riteniamo auspicabile e ciò che è. Tra ciò che si dice nell’Internazionale universitaria dei pensatori euro-americani, flebile sostituto delle Internazionali operaie sparite, e ciò che si abbatte sulla scena planetaria”. Contro questo pensiero dominante ed egemone nella coscienza dei dotti che molto condiziona quella degli indotti Debray propone con Verdi “Tornate all’antico, sarà un progresso!”. Tornare “a un’assurdità molto necessaria e insormontabile che ha nome frontiera”.
Chiudo questa rassegna di appunti con la frase iniziale messa in esergo da Debray al suo saggio. È un passo di Ludwig Feurbach preso dal Contributo alla critica della filosofia di Hegel.
“Il Dio Termine si erge all’entrata del mondo. Autolimitazione: tale è la condizione di entrata. Niente si realizza senza realizzarsi come un essere determinato. La specie nella sua pienezza incarnandosi in una individualità unica sarà un miracolo assoluto, una soppressione arbitraria di tutte le leggi, di tutti i principi della realtà. Sarà in effetti la fine del mondo”.
Franco Cassano, Pensare la frontiera, in Id. Il pensiero meridiano, Laterza Bari 2003. pp.53-66. (Prima ed. 1996 stesso editore).
Régis Debray, Éloge des frontières, Folio, Gallimard, Paris, Ebook 2013.