Quando, nel 1966, Alberto Asor Rosa diede alle stampe il suo più importante saggio di critica letteraria, Scrittori e popolo, decise di apporvi in esèrgo un aforisma tratto da un testo di Umberto Saba che riportava queste parole:
“Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha mai avuta, in tutta la sua storia – da Roma a oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi […]. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo con il parricidio (uccisione del vecchio) che inizia una rivoluzione… “
– A. Asor Rosa, Scrittori e Popolo, Torino, Einaudi, 1988, p. 17
In quel saggio, l’intellettuale romano si sforzava di creare un compendio, o meglio una rassegna ragionata, di quegli scrittori che sentirono l’esigenza di connettersi col popolo e con gli umili, come conseguenza di una precisa scelta ideologica. Di fronte alla volontà di seguire tale impegno sociale, questi autori fecero della letteratura il mezzo «progressista» per farsi «intellettuali organici», ossia in stretta relazione con i ceti meno abbienti e ai margini. Asor Rosa sentì il bisogno di scrivere un testo di questo tipo – peraltro alla vigilia dell’«Autunno caldo» – poiché la comunicazione, squisitamente gramsciana, fra intellettuali e popolo, mai era stata così intima come in quella fine degli anni Sessanta: essa poteva tradursi in una rivoluzione delle forze operaie. Il fatto che alcuna rivolta si sia poi innescata non stupisce, e in fondo Asor Rosa se lo aspettava. Più concretamente, forse, l’obbiettivo ultimo del saggio era segnalare che, nel contesto della storia d’Italia, gli intellettuali e le classi dirigenti che cercavano un sincero e non retorico legame con i ceti popolari, rappresentavano più l’eccezione che la regola. L’Italia è stata ed è, per antonomasia, il luogo delle rivoluzioni mancate, essa è terra di genti dalla genetica conservatrice, impermeabili all’attività sediziosa.
Siffatta peculiarità ontologica si è manifestata spesso lungo il corso della storia. Se la rivolta dei Ciompi – scoppiata in Firenze nell’estate del 1378 – fu senz’altro una sommossa partita dal “basso”, questa non fu vera rivoluzione. Non lo fu, non tanto e non solamente, perché essa venne arginata, quanto perché i Ciompi innescarono la rivolta all’interno del quadro sociale costituto, volevano un sovvertimento delle forze all’interno di un sistema che non veniva sfidato con il fine di romperlo. Specularmente, la controrivoluzione italiana per antonomasia – o, se vogliamo, una rivolta delle élites – fu la Controriforma cattolica (1545-63). La Riforma protestante aveva utilizzato l’ultimo ritrovato tecnico dell’epoca, la stampa – che oltre a diffondere la denuncia della corruzione della romana Chiesa -, fu utilizzata per dare valore concreto al postulato del «sacerdozio universale»: la Bibbia, o parti di essa, potevano essere stampati e letti da chiunque, senza la mediazione, prima imprescindibile del sacerdote. Il clero cattolico, non potendo accettare un allargamento così pronunciato del libero arbitrio, con i decreti tridentini impose l’obbligo di maggiori controlli di vescovi e curati e nelle proprie diocesi; e utilizzò le immense risorse custodite sotto il soglio di Pietro per diffondere una nuova forma d’arte, il Barocco. Il bellissimo affresco del Baciccio, conservato nella Chiesa del Gesù, così come l’architettura della stessa facciata – progettata dal Vignola -, furono i modelli artistici che la Chiesa controriformata irradiò nell’Europa rimasta cattolica: la suggestione generata da quelle immagini era una forma di controllo delle coscienze: il povero contadino analfabeta non poteva far altro che inchinarsi di fronte alla potenza di Cristo, al culto dei santi, così come alle verità impartite dal clero romano.
Tuttavia, premesse storiche a parte, nel corso del tempo, il dispositivo che meglio di altri ha dato ai posteri, in modo “indirettamente” chiaro, evidenze sulla genetica incompatibilità dell’Italia con la rivoluzione, è stato quello della letteratura. Le letture e le esperienze di vita non sono due universi ma uno. Il romanzo porta in dote a chi lo legge una verità obliqua, sfumata, afferrabile solo da chi indossa le giuste lenti interpretative. Il rapporto del testo con il tempo, lo fa documento dell’epoca storica nel quale è stato scritto. Così alcuni romanzi, che sono grandi per innumerevoli motivi, lo sono anche perché spiegano il rapporto, mai esausto, degli italiani con le rivoluzioni mancate.
La distanza, o mancata alleanza, fra intellettuali e strati popolari è argomento che, senza scomodare il concetto di «egemonia e subalternità» descritto da Gramsci nei suoi Quaderni, certo risulta evidente dall’arcinoto Sabato del villaggio di Leopardi. L’intellettuale di Recanati osserva dalla sua turris eburnea, con distacco, la genuina vita dei paesani che a lui è preclusa. E se è certo che Leopardi è in grado di imprimere su carta quel sentimento di disagio – la gioia per la festa domenicale frustrata dal pensiero già rivolto al successivo lunedì lavorativo -, che il popolo del villaggio non è in grado di esprimere, lui, tuttavia, di quel mondo non fa parte: il rapporto che si instaura fra l’uno e gli altri è verticale, è quello asettico dello scienziato con il suo oggetto di studio. Niente di tutto di questo avviene nelle letterature dei paesi tradizionalmente rivoluzionari. La condizione ab origine, preliminare alla sommossa rivoluzionaria, ossia l’alleanza fra intellettuali e massa c’è sempre. In Guerra e Pace Tolstoj – nel quadro caotico dell’invasione napoleonica della Russia -, non solo fa dialogare il ricco intellettuale Pierre Bezuchov con il contadino Platòn Karatàjev, ma qui il primo addirittura apprende dal secondo:
Platòn Karatàjev era per tutti gli altri il più comune dei soldati […]. Ma per Pierre rimase sempre, come gli era apparso la prima notte, l’incomprensibile, rotonda ed esterna personificazione dello spirito, di semplicità e di verità. […] Quando Pierre, colpito dal senso di un suo discorso, lo pregava di ripetere quel che aveva detto, Platòn non poteva ricordarsi quel che aveva detto un momento prima […]. Ogni parola, ogni atto era per lui una manifestazione di quell’attività a lui ignota che era la sua vita. Ma la sua vita, com’egli stesso la riguardava, non aveva senso in quanto vita isolata. Aveva senso soltanto come particella di un tutto, che egli sentiva di continuo. Le sue parole e i suoi atti sgorgavano da lui con la stessa regolarità, necessità e immediatezza con cui il profumo emana dal fiore.
– L. Tolstoj, Guerra e Pace, Libro Quarto, Torino, Einaudi, 2014, pp. 1138-9
Allo stesso modo quando Goethe apre il suo Faust, ci fa trovare il protagonista, disperato, nell’imminenza del suicidio; in quel momento tragico le campane suonano a festa, è il giorno di Pasqua, e il popolo scende per le strade cantando. Questo evento innesca in Faust i ricordi di bambino quando il padre – come lui medico ed intellettuale -, lo portava alle feste del paese. Faust rinuncia momentaneamente ai suoi propositi, scende in piazza e si mischia alla folla, dalla quale, diversamente da Leopardi, è accettato: egli è parte di quella comunità.
Il rapporto intellettuale-popolo nel contesto italiano assume un significato completo quando associato al concetto di «Rivoluzione passiva», elaborato da un protagonista della rivoluzione napoletana del 1799, Vincenzo Cuoco. Per quest’ultimo il concetto ha il significato, sostanzialmente, di «Rivoluzione importata» e non nazionale. Non si tratta di una rivoluzione che scoppia per l’alleanza fra la classe degli intellettuali organici con la massa, piuttosto essa si diffonde in quanto importata “coattamente” dall’esterno, quindi tendenzialmente inadatta allo stato di preparazione, teorica, sociale ed economica, della maggior parte della popolazione nella quale dovrebbe attecchire; ed è per queste “carenze” che spesso fallisce o si sviluppa in modo imperfetto. In Italia, nei secoli preunitari e non, si è avuta quasi sempre la condizione del Sabato leopardiano. Da una parte una classe di intellettuali che si forma e studia, fra gli altri, sui modelli stranieri, dimostrandosi di fatto un gruppo sociale “internazionale”, aperto agli influssi delle novità d’oltreconfine, di mentalità duttile e cosmopolita; dall’altra una grande massa di sfruttati, di umili che vivono di stenti, e lottano per ottenere il pane quotidiano. Diversamente da altre nazioni europee in cui la rivoluzione si è avuta, in Italia mancarono le condizioni di sviluppo socioeconomico indispensabili allo sviluppo di una borghesia rampante, liberale e diffusa – come nei casi inglese e francese -, oppure di una classe operaia matura, consapevole della sua condizione di vita in rapporto al capitale e pronta a rovesciarlo – come nel caso russo. A pensarci bene la grande assente nella biografia della nazione fu financo la lingua: classi dirigenti e popolo parlavano lingue diverse, innalzando così al parossismo l’impossibilità di una loro alleanza.
Tornando al concetto elaborato da Cuoco, in un capitolo de «Le confessioni di un italiano», Ippolito Nievo ci dà una descrizione pratica di una rivoluzione passiva che tuttavia non attecchisce. Durante l’occupazione napoleonica del Veneto, a Portogruaro, il protagonista Carlino, si pone, in quanto letterato, alla testa della locale rivolta filo-giacobina. Quando Carlino chiede al popolo che cosa vuole dalla rivoluzione, questo risponde gridando «libertà, pane e polenta»; queste richieste hanno la forza di coalizzare tutta la massa dei contadini delle campagne con gli artigiani della città, in una miscela potenzialmente rivoltosa. Quando però, mosso finalmente l’attacco ai forni, si scopre che i francesi li hanno già spogliati, la folla si disperde tornando al proprio lavoro: la rivoluzione era stata un carnevale; per il popolo la conquista della libertà senza il pane e la polenta era troppo poco.
Un esempio invece, che la letteratura italiana offre di una rivoluzione passiva – in quanto esportata da garibaldini e piemontesi – che attecchisce sì, ma in modo imperfetto, è il Gattopardo. Nonostante l’apologia del “sempre uguale” espressa da Tancredi nella frase più celebre del libro, il punto di vista che ci interessa è quello del Principe Fabrizio – che è pure il punto di vista dell’autore stesso. La sua postura intellettuale gode di ambivalenza. Se è vero che le rivoluzioni liberal-borghesi rappresentarono un indubbio progresso storico rispetto all’immobilismo passato, è pur vero che esse comportarono la fine di alcuni privilegi, usi e buone maniere proprie del feudalesimo, che rivestivano ancora una certa importanza per le famiglie nobili del passato. Il Principe di Salina vive all’interno di questa contraddizione. Egli rimpiange il mondo passato, se ne sente ancora parte indissolubile, e per questo rifiuta l’offerta di un seggio al Senato del nuovo Regno; allo stesso tempo però, osservando l’evolversi degli eventi, accetta il mutamento della struttura politica ma contesta il fatto che tale cambiamento non sia stato condotto fino in fondo. La rivoluzione è avvenuta ma nel peggiore dei modi, in quanto l’uomo dei tempi nuovi, il nuovo potente, il sindaco di Donnafugata, è un uomo da nulla come Don Calogero Sedàra. L’astio per questa situazione si comprende da un passaggio del libro in cui il Principe è costretto ad incontrare Sedàra per combinare il matrimonio fra suo nipote e la figlia di lui:
Davanti alla memoria gli passò l’immagine di uno di quei quadri storici francesi nei quali marescialli e generali austriaci, carichi di pennacchi e gale, sfilano, arrendendosi, dinanzi a un ironico Napoleone; loro sono più eleganti, è indubbio, ma il vincitore è l’omiciattolo in cappottino grigio; e così, oltraggiato da questi inopportuni ricordi di Mantova e di Ulma, fu invece un Gattopardo irritato a entrare nello studio [n.b. di Sedàra].
– T. Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 84
L’ambivalenza del Principe Fabrizio – come quella di Lampedusa – è sublimata nella nostalgia di un passato che non ritornerà più, come, allo stesso tempo, nella nostalgia per quel futuro che avrebbe potuto essere e non è stato.
In conclusione si può scrivere che, con non poco fiuto per il passato, un vecchio Presidente della Repubblica osservò che:
L’Italia è sempre stato un paese “incompiuto”: il Risorgimento incompleto, la Vittoria “mutilata”, la Resistenza tradita, la Costituzione inattuata, la Democrazia incompiuta. Il paradigma culturale dell’imperfezione genetica lega con un filo forte lo sviluppo politico dell’Italia unita.