Conseguenza terribile del conformismo algoritmico e pervasivo di nuovo conio è la banalità del tempo corrente. Intorno a noi pare non esserci nulla di autentico e, allo stesso tempo, nella ridotta di qualche angolo dimenticato riposa la speranza, quasi la certezza, di un destino del tutto diverso.
È rinfrancante abbandonarsi così alle pagine di All’antica di Duccio Demetrio (Raffaello Cortina Editore, 2021) Nel sottotitolo vi è già il senso ultimo del testo: “Una maniera di esistere”. Il concetto cui si richiama è all’apparenza sfuggente, indistinto, ambiguo; ma nella trattazione dell’autore, “all’antica” non è una categoria strettamente temporale, tutt’altro che il richiamo ideologico ad un passato mitico, nulla di più distante dall’esausto tradizionalismo. Piuttosto è l’ardire di fare le cose per bene, di essere persone integre, leali, sensibili, di riconoscere un debito nei confronti di coloro che qualcosa ci hanno pur lasciato, nella speranza che non andasse perduto dopo la loro scomparsa.
All’antica è il punto di vista morale di un individuo vigile, che alla realtà senza alternative si concede il lusso di immaginare da sé un destino ulteriore e differente; lo stesso che esige il rispetto della singolarità indissolubile di ciascuno.
Se dapprincipio la nozione rimanda a quanto potremmo definire inattuale, antiquato, sepolto, Demetrio non esita a interrogare filosofi e poeti che hanno vissuto fuori dal già determinato.
Tanto che, con Mario Luzi, l’autore scomoda una presunta “intemporalità” come condizione precipua dell’essere “all’antica”, appunto, alludendo «a un tempo lontanissimo, tale da rendersi necessariamente indefinibile, leggendario e già presente agli albori dell’umanità quando si tentò di narrarne il sentire».
Una temperie, un tempo magico, un “prima” che non ha nulla delle fattezze cui in genere il concetto di tempo farebbe pensare ma che agisce dentro di noi nel labirinto dei ricordi.
La memoria (questo sì, un luogo che fa al caso nostro) è l’insieme dei racconti mitici che ognuno di noi edifica a propria immagine, una grande narrazione che «non teme il passato in quanto controfigura del presente».
Uno spazio fatato della mente, totalmente soggettivo e intimo «dove si sono rifugiate le cose, si sono nascoste le immagini, si sono annidate le esperienze divenute storie nostre e d’altri: accadute o apparse prima di noi e che continueranno ad accadere; che abbiamo ereditato nelle forme del mito, degli archetipi, delle favolose memorie delle origini del mondo e delle esistenze».
Il romanzo della propria intimità ognuno se lo crea a partire dalle ombre, oggetti, contorni di figure che sfumano o, al contrario, si fanno nitide secondo fortuna o audacia. Nel caso dell’autore si staglia il corridoio (come nel caso del suo maestro Emanuele Severino) quale luogo iniziatico e fecondo di molteplici esperienze. Un posto nel mondo in cui continuare a tornare cambiati e sempre nuovi, in cui «il tempo fugge via e torna diverso, ma ricompare in mille mutate forme», con la certezza che esse non saranno «mai uguali a quelle che furono».
Se essere schiacciati sul solo presente è una insopportabile costrizione che relega i nostri destini a insignificanti approdi determinati già in partenza, il tempo della memoria può rappresentare un grimaldello affinché da quella nebulosa si prenda ciò di cui si ha bisogno. Non per farne un oggetto nostalgico da contemplare ma per scardinare l’ovvio delle nostre biografie, ormai indistinguibili le une dalle altre.
Indaffarati, colti dall’ansia inevitabile di chi tende all’adeguamento macchinico della propria imperfezione, ecco che nel rovesciamento dell’oraziano carpe diem risiede una colpa grave di cui l’umano è artefice e vittima.
Più che affannarsi nella ricerca subitanea di un bisogno da soddisfare (come vuole la retorica dominante), il poeta latino del primo secolo A.C. invitava piuttosto a cogliere quell’unico e irripetibile momento (un istante fugace capace di manifestarsi solo in quei termini), a non voltarsi indietro mai e, infine, accontentarsi «di guardare, toccare, gustare le cose più piacevoli mentre, secondo dopo secondo, trascorrono».
Sensibile ai richiami della poesia, specie quella dei crepuscolari, Demetrio oppone a questa modernità cui siamo condannati il lirismo di quella lontana corrente d’inizio Novecento, già quasi dimenticata se non fosse per la tenacia di alcuni professori di liceo che ancora la tirano fuori dalle pagine di qualche manuale.
Insieme agli amati Attilio Bertolucci e Lalla Romano (ma se ne potrebbero citare altri) le pagine dedicate al malinconico Guido Gozzano sono tra le più felici di tutto il libro, dove i versi del più antico della nostra tradizione letteraria recente si combinano con l’educazione dello stesso autore, impegnato nella messa a punto di quelle suggestioni e a decifrarne il senso ultimo.
Se è vero che anche la scoperta di un poeta è un attimo da cogliere, quando Demetrio sostiene che l’antico è «sinonimo di eternità e di continuità che riappaiono imprevedibili nell’istante intensamente vissuto», pensiamo di nuovo ad Orazio, e al fatto che neanche lui avrebbe saputo dire meglio.