La mente è sempre stata una cosa complicata. Fin dall’antichità, sondarla si è rivelato un compito decisamente arduo (interiora hominis et cor eius abyssus, scandiva il salmista), ma al tempo stesso non è mai stato un mistero il fatto che riuscire in qualche modo a controllarla conferisca un potere non indifferente. Ad oggi, le cose non stanno in modo molto diverso. Sappiamo qualcosa di più sulla mente? È probabile di sì, anche se forse non così tanto. Desideriamo trarre vantaggi da quello che sappiamo? È certo. I motivi di interesse delle scienze della mente sono molti: dalla ricerca nel campo delle humanities alle possibili ricadute in campo militare, politico e sociologico, la gamma delle applicazioni pensabili include praticamente tutto.
Quando si parla di neuroscienze, bisogna evitare due errori piuttosto comuni. In primo luogo, le neuroscienze non sono un programma di ricerca unitario, ma un insieme di indirizzi in certi casi molto diversi tra loro per metodi e scopi. Secondo, le neuroscienze – come tutte le scienze – non nascono prive di fondamenti. Proprio sui fondamenti, cioè sui presupposti concettuali che permettono il venire alla luce di un insieme ben strutturato di programmi di ricerca, si è concentrata per decenni una delle discussioni più interessanti della filosofia del Novecento. Detto ciò, non va perso di vista che la relazione tra filosofia (specialmente quella di tradizione anglosassone) e neuroscienze costituisce senza dubbio un rapporto sui generis. Cerchiamo allora di tracciare per ampi cenni un quadro il più possibile chiaro di come stanno le cose all’interno di questa strana coppia.
Una distinzione che si è soliti fare in principio di discorso è quella tra filosofia delle neuroscienze e neurofilosofia. Per dirla con semplicità: il filosofo delle neuroscienze è quella persona che deve riflettere sui fondamenti delle neuroscienze e discuterne presupposti e condizioni di possibilità, puntando ad elaborare teorie che siano il più convincenti possibile nel giustificare perché dovremmo credere e investire su un determinato progetto di ricerca. I ‘neurofilosofi’, invece, rappresentano in qualche modo i beneficiari di questo esame metodologico preliminare: il loro compito è quello di reinterpretare e rileggere i problemi che l’ambito del mentale pone da sempre alla riflessione utilizzando gli strumenti che provengono dalle neuroscienze e che di volta in volta vengono considerati idonei allo scopo.
Al contrario di quanto si possa pensare, il rapporto tra la teoria filosofica e l’indagine neuroscientifica non è sempre stato idilliaco. Probabilmente, l’ascesa delle concezioni funzionalistiche della mente negli anni Settanta ha segnato il momento di massima lontananza tra i dati offerti dalle neuroscienze e l’elaborazione di una o più teorie davvero convincenti sul funzionamento della mente. La teoria della realizzabilità multipla, su cui tanto si è scritto e che rappresenta tutt’ora un elemento non secondario di molte concezioni olistiche del mentale, esclude la possibilità che le informazioni fornite dagli stati cerebrali siano in se stesse particolarmente significative. Anche se ad oggi è soggetta ad ampia revisione rispetto alla formulazione classica datane da Putnam e dal suo allievo Fodor, la realizzabilità multipla ha determinato un certo scetticismo verso i dati ‘bruti’ delle neuroscienze, favorendo piuttosto l’apertura al confronto con la psicologia cognitiva e la ricerca sul comportamento dell’Intelligenza Artificiale.
Come ha osservato John Bickle, il «turning point» nella storia del rapporto tra neuroscienze e filosofia ha coinciso con lo sviluppo delle teorie materialiste ed eliminativiste della mente (Bickle et al. 2019). Nel 1986, Patricia Churchland pubblica Neurophilosophy, un lungo e denso volume in cui, confrontando le più recenti acquisizioni sul funzionamento del cervello e le evidenze a sostegno della propria teoria eliminativista (peraltro formulata e condivisa con il marito Paul), critica la distinzione tra filosofia e neuroscienze, argomentando in favore della vaghezza dei confini che le separerebbero. In effetti, la teoria dei Churchland poggia fin da principio sulla convinzione che il discorso sulla mente sia in qualche modo ridondante: di per sé, per parlare adeguatamente delle dinamiche mentali sarebbe sufficiente rifarsi a una corretta interpretazione di quelle cerebrali, eliminando ogni contaminazione proveniente dalla cosiddetta ‘folk psychology’ e dal linguaggio ad essa associato. Di qui, l’etichetta di materialismo eliminativista (EM).
Per ovvie ragioni, non si può fare qui la storia di tutto ciò che è accaduto in seguito, né valutare nel dettaglio un insieme di teorie che, all’insegna del materialismo, hanno impresso una svolta profondissima nel dibattito multidisciplinare sulla mente. Tuttavia, vi sono alcuni aspetti su cui è utile soffermarsi. Benché oggi tanto il problema dell’origine e del funzionamento di quella ‘pratica adattativa’ che chiamiamo mente si discostino per molti versi da un’impostazione riduzionistica e materialistica tout court (anche in seguito alla crescente importanza che è stata riconosciuta all’ambiente evolutivo in cui i cervelli umani hanno conosciuto il proprio sviluppo storico e specifico) va senz’altro riconosciuto che dall’interesse manifestato da parte delle teorie materialistiche per le scoperte delle neuroscienze sono scaturiti ulteriori campi di indagine di importanza spesso strategica.
A ormai vent’anni dal convegno di san Francisco organizzato dalla Dana Foundation nel 2002 e coordinato da William Safire, possiamo dire che una delle conseguenze più feconde di questa sorta di ‘abbraccio interdisciplinare’ tra filosofia e neuroscienze è la nascita della cosiddetta neuroetica. Lo stesso dibattito divenuto ormai celebre anche in Europa tra transhumanists e bioconservatives prende vita da qui (Roskies 2021). Che cosa si può fare con l’essere umano, nella misura in cui il cervello stesso è manipolabile? Ad oggi, anche al grande pubblico sono noti gli effetti benefici (non solo dal punto di vista diagnostico) dell’applicazione di varie neurotecnologie al trattamento di patologie nervose come Alzheimer e morbo di Parkinson; tuttavia, non soltanto i problemi teorici non vengono del tutto dissolti da un’indiscutibile utilità pratica, ma nemmeno il campo delle possibili applicazioni terapeutiche esaurisce quello – infinitamente più vasto – dei metodi di enhancement mentale. Stabilizzare le condizioni mentali di un paziente affetto da una malattia neurodegenerativa, anche quando possibile, non è un compito privo di imprevisti. Nel caso studiato da Albert Leentjens (Leentjens et al. 2003) un paziente affetto dal Parkinson e trattato attraverso la stimolazione cerebrale profonda (Deep Brain Stimulation, DBS) manifestava una sintomatologia alquanto problematica: quando non stimolato, era costretto a letto dalla propria disfunzionalità motoria; quando al contrario veniva stimolato, insieme ai benefici sviluppava anche una grave forma di comportamento maniacale. Di fronte alla scelta fra la catatonia e la mania, la sua decisione (presa a partire da uno stato di non-stimolazione) ha optato per la seconda. In che modo è lecito tuttavia dare priorità alle esigenze che quella che si ritiene essere la stessa persona ha in uno stato e non in un altro, soprattutto quando questi due stati sono opposti?
Un altro problema interessante, col quale chiudiamo questa breve ricognizione, è dato dalle sorprendenti capacità predittive manifestate dalle tecnologie neurologiche. Come ha mostrato l’equipe di Greene (Greene e Paxton 2009) si danno delle differenze, a parità di condizioni, tra i modelli di attivazione cerebrale di soggetti che imbrogliano in un gioco e soggetti che partecipano correttamente. Queste variazioni, osservate tramite le immagini prodotte da risonanza magnetica funzionale (fMRI), risultano coerenti con i modelli statistici che mostrano come i soggetti che imbrogliano, al pari di alcune altre categorie, tendono ad essere recidivi. È chiaro che queste evidenze, che rappresentano solo una piccola fetta della casistica complessiva, pongono delle questioni notevoli a livello personale, ma anche sociale e giuridico: fino a che punto è lecito ‘monitorare’ soggetti a rischio senza lederne la privacy mentale? Che peso attribuire a nozioni come ‘propensione’ o ‘tendenza’ ad agire in un certo modo? Come si vede, l’indagine sulla mente spalanca un numero spropositato di problemi, molti dei quali sono di difficile comprensione: di sicuro, gran parte del nostro futuro dipenderà da come decideremo di passarci attraverso.