OGGETTO: Il Regno del possibile
DATA: 19 Agosto 2021
Il libero arbitrio è una mera illusione dell’essere umano?
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“Alla vista di una cascata noi crediamo di vedere negli innumerevoli incurvamenti, serpeggiamenti e spezzettamenti delle onde, la libertà della volontà e l’arbitrio; invece tutto è necessario, ogni movimento è matematicamente calcolabile. Così è anche delle azioni umane; si dovrebbe poter calcolare prima ogni singola azione, se si fosse onniscienti, come pure ogni progresso della conoscenza, ogni errore, ogni cattiveria.”  

F. Nietzsche, Umano troppo umano, 1878. 

Ananke per gli antichi greci è la dea del destino, inteso come necessità inarrestabile. È la dea senza volto perché entità misteriosa le cui ragioni sfuggono alla logica umana, a guardia di un equilibrio ineluttabile. Ananke è al vertice del regno della necessità mentre l’attualità si presenta come il trionfo del possibilismo. La necessità sopravvive solo in quanto alternativa al libero arbitrio perché l’uomo, sospinto dall’orgoglio, afferma la propria indipendenza rispetto alla realtà. L’imposizione costante della propria volontà rappresenta l’ancora di salvezza dall’incertezza dell’esistenza. L’individualismo pretende l’isolamento della volontà. Da qui l’illusione per eccellenza. Se si ipotizza l’esistenza del libero arbitrio, si deve ammettere allo stesso tempo un alveo di non necessità all’interno del meccanismo causale dell’universo che intere tradizioni culturali e filosofiche hanno colmato con la libera volontà. Il libero arbitrio presuppone una sospensione della necessità, un intervento esterno alle leggi di natura capace momentaneamente di sospendere la combinazione causa-effetto. La libertà di scelta implica una responsabilità che l’uomo avverte su di sé ogni attimo della propria esistenza. Perché se si è liberi, ci si chiede cosa sia meritevole fare e cosa non lo sia. I sostenitori del libero arbitrio celano istanze non solo religiose ma sociali. La loro è una necessità e non certo un’evidenza. Se l’uomo non fosse libero sarebbe intollerabile deresponsabilizzarlo al punto da renderlo esente da qualsiasi colpa. Solo teorizzando la colpa, è prospettabile una punizione. Sulla necessità della responsabilità morale non si sono edificate soltanto religioni o dottrine filosofiche ma qualsiasi ordinamento che prospetti delle sanzioni per l’inosservanza delle proprie regole. Se si prospetta il caso come elemento regolatore dell’esistenza, da quelle condizioni di incertezza prolifera l’illusione di poter decidere. Agostino d’Ippona riteneva che la Grazia divina giocasse un ruolo decisivo nella salvezza o nella dannazione delle anime, senza per questo spingersi a negare l’esistenza della volontà libera. L’uomo è libero ma la Grazia divina era ritenuta un presupposto della libertà umana, concessa da un Dio onnisciente capace di prevedere il futuro e capire chi fosse in grado di meritarsela. Un Dio che osserva la sfera di cristallo del possibile per premiare le coscienze meritevoli. Tommaso d’Aquino, riprendendo la visione aristotelica, riaffermò il ruolo preponderante della libertà umana nel creato, proprio in virtù di quella responsabilità morale che altrimenti non sarebbe configurabile nei confronti di alcuno. Sempre nel contesto delle dottrine religiose le tesi riformiste di Lutero e Calvino, facendo leva sulla predestinazione, ripresero la questione per negare apertamente il libero arbitrio asserendo che non la buona volontà ma soltantola fede, infusa dalla Grazia divina, consente all’uomo di salvarsi. 

Ma l’idea di essere animati da una volontà libera, è un’evidenza innegabile, qualcosa che appare chiaramente, o è piuttosto una convinzione che si fa strada nell’esperienza di sentirci liberi? Quando si opera una scelta si ha la convinzione che si sarebbe potuto fare altrimenti e questa lacuna fra il processo di deliberazione e la scelta finale, si chiama libertà. La capacità di reagire come si crede alle varie pulsioni che pervadono l’animo ispira sentimenti di libertà. Tuttavia è necessaria una riflessione sul significato della libertà. Se si vuol parlare di libertà, si deve poterlo fare in relazione a qualcuno o qualcosa. Se quel qualcosa è la necessità del destino, si cede alla bramosia di indipendenza dai vincoli materiali della realtà. Quell’orgoglio di cui si accennava inizialmente. Raggiunta l’indipendenza dalla realtà si consente all’agente di “operare” in quella lacuna fra il processo di deliberazione e l’azione. Quel desiderio malcelato di elevarsi rispetto alla natura come essere superiore, affinché all’essere umano sia concesso il dominio “sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. L’illusione della libertà non è dunque assimilabile alla fede? Perché l’uomo, per il solo fatto di essere (in parte) cosciente, dovrebbe assegnarsi il ruolo primigenio di creatura capace di eludere il decorso causale necessario? Se si abbracciano le teorie indeterministiche per cui l’intenzione alla base dell’azione umana non ha a sua volta una causa, si ammette l’intervento di un elemento, l’intenzionalità, a rompere la catena della necessità. Un intervento che interrompe la catena dei rapporti causa-effetto. Le conseguenze sono rilevanti. Steiner si convinse che la coscienza non deriva da processi cerebrali ma può essere considerata come un’entità in sé compiuta, «che si sorregge da sé». Se la volontà è al di fuori dei processi causali, il libero arbitrio è, come già si accennava, un’eccezione alla necessità. Ed in quanto evento incausato è un evento che scaturisce dal nulla. Questa convinzione determina quel sentirsi liberi di poter volgere il decorso causale in un modo piuttosto che in un altro. Di contro i neuroscienziati sembrano dimostrare che l’attività neuronale alla base di qualsiasi agire abbia origine ben prima del compimento dell’azione stessa, dimostrando che quella che si definisce impropriamente una scelta cosciente è, in realtà, il risultato di processi celebrali che sfuggono alla coscienza. Solo perché l’inconscio resta inesplorato, non per questo ci si può spingere a ritenere che non influenzi il processo decisionale. Se si affermasse che una decisione non è il frutto di processi cerebrali, dunque fisici, si ammetterebbe che gli stati mentali, quali appunto una decisione, non abbiano cause fisiche ma siano, sostanzialmente, prive di causa indagabile. Questo significherebbe negare la chiusura causale del mondo fisico. Una conclusione intollerabile, frutto soltanto dell’impossibilità attuale di individuare il nesso causale in grado di collegare il processo cerebrale all’evento decisionale. Se il libero arbitrio non può inserirsi a spiegare quella lacuna di cui si accennava prima, cosa residua della libertà? È il libero arbitrio l’illusione necessaria per evitare che l’esistenza diventi insopportabile? Il libero arbitrio è incompatibile con un’impostazione deterministica dell’esistenza in cui qualsiasi causa può originare soltanto un solo effetto. Credere nel determinismo, in quello che spesso si chiama destino, significa in un certo senso spersonalizzare l’esperienza della propria vita. Significa prescindere dai contorni dell’individuo. Rinunciare all’individualismo è quella base da cui non hanno saputo prescindere quei sistemi di pensiero per cui la libera volontà è un caposaldo. Il peccato principe è che si affronta la questione giudicando noi stessi. E di fronte a questa aporia, quella lacuna fra processo mentale e decisione di cui non si riesce a render conto, la si identifica con il libero arbitrio. Se le neuroscienze possono aiutare a comprendere il decorso causale celato dietro le azioni umane, la filosofia tramite la ricerca metafisica, per definizione aliena dall’esperienza sensoriale, restituisce all’uomo il ruolo di essente fra gli essenti. Animale che impara finalmente cosa fare della propria coscienza. 

Spesso ci si chiede come sarebbe l’esistenza personale ed il mondo circostante se le scelte proprie o altrui fossero state diverse. Dunque si ammette di vivere nel regno del possibile in cui qualsiasi cosa accada sarebbe potuta, allo stesso tempo, non accadere. Mauro Dorato definisce l’indeterminismo la condizione per cui “a un medesimo stato presente completamente definito possono corrispondere molti stati futuri possibili, uno solo dei quali si realizzerà.” L’imprevedibilità di qualsiasi futuro è il corollario del principio di indeterminazione di Heisenberg. Nonostante il futuro sia imprevedibile, qual è l’elemento che induce la verificazione di un determinato evento piuttosto che di un altro? Secondo il principio di indeterminazione le proprietà fisiche di un sistema, non essendo esattamente quantificabili data l’influenza degli strumenti di misurazione sul sistema stesso, non sono indipendenti dall’osservatore. L’osservatore influenza il sistema. Ne consegue che non sia (sempre) possibile prevederne il momento successivo e le evoluzioni future. A questo punto si deve chiarire una cosa. Solo perché una realtà non è misurabile nella sua totalità, non per questo alcune sue proprietà, per quanto sconosciute, cessano di esistere. E farle dipendere dal “caso” ci permettere di fornire una spiegazione semplicistica per eludere la verità, cioè che non avremo mai quell’onniscienza per poter conoscere determinati stati della realtà.  Ma quella deduzione è astrattamente possibile. Nietzsche, in Umano troppo umano, sosteneva:

“Chi agisce è veramente egli stesso nell’illusione della libertà; se in un momento la ruota del mondo si fermasse, e ci fosse un intelletto calcolatore e onnisciente per utilizzare questa pausa, esso potrebbe predire l’avvenire di ogni essere fin nei tempi più lontani, e indicare ogni traccia su cui quella ruota girerà ancora. L’illusione di chi agisce su sé stesso, l’ammissione della volontà libera, fanno parte anch’esse di questo calcolabile meccanismo.”

Ercole al bivio di Annibale Carracci (1596). L’indecisione dell’eroe fra la virtù e il vizio.

La lacuna nella prevedibilità degli eventi ha indotto il senso comune a ritenere che la decisione sia affidata al caso. Il caso come elemento regolatore e discriminante fra le possibilità in gioco. Ma cosa si intende comunemente con il caso? Non si intende forse, come suggerisce Severino, il nulla? Quel nulla da cui gli enti provengono e in cui ritornano, in quella trasformazione incessante che è il divenire. È al nulla che è affidato il verificarsi di ogni cosa che sarebbe potuta essere così come non essere. Il regno del possibile è fondato sull’assunto secondo cui il mondo così come è adesso sarebbe potuto essere diversamente. Se esiste la possibilità che l’essente accada e parimenti la possibilità che l’essente non accada, allora la realtà stessa è contingente. Nel nulla confluiscono le possibilità mancate, ma di esse non si ha l’evidenza. Quando un evento accade, la sua negazione, ovvero la sua possibilità non accaduta, non continua a sussistere a meno che non si ammetta l’esistenza di dimensioni parallele. Secondo Severino il libero arbitrio è un’illusione perché se la volontà umana si esprime in un certo modo, non può esistere la controprova che si sarebbe potuta esprimere in un modo diverso. L’evento si manifesta nel suo carattere necessario e la volontà è, al pari di ogni ente, e non può non essere, ovvero essere altro da sé. L’estrema conclusione della fede nel divenire è la necessaria inesistenza di ogni immutabile poiché nessun ente può sottrarsi alla trasformazione incessante. Da qui l’eterna contraddizione che attanaglia l’Occidente sino alla follia, ovvero la ricerca dell’episteme, l’incontrovertibile verità, nonostante l’evidenza del divenire. L’irrisolvibilità del conflitto ha comportato quale via di fuga l’abbandono della ricerca della verità. Residuando la sola fede nel divenire, l’unico vero substrato della coscienza moderna, per sopravvivere all’angoscia si è diffusa la pretesa di controllarne lo sviluppo tramite la tecnica quale forma di affermazione del proprio io. Lo sviluppo recente della tecnica risponde proprio a questa necessità, ora che la verità non è più un ostacolo all’evidenza del divenire. La volontà come “fede di poter fermare il flusso assoluto”, come unica condizione per vivere nonostante il continuo ripetersi della sofferenza e del dolore. L’illusione di essere liberi come illusione necessaria per potersi liberare, almeno per un istante, della paura di ritornare nel nulla dal quale si è convinti di provenire. Solo quando si dissolverà l’illusione del possibilismo l’Occidente potrà accorgersi che il sentiero della notte sul quale crede di procedere, per riprendere una metafora cara a Severino, è in verità l’errata percezione del Sentiero del giorno. 

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