OGGETTO: L’assoluto reazionario
DATA: 11 Dicembre 2020
SEZIONE: inEvidenza
Gettati nell’era del transumanesimo, oltre ogni tramonto, leggere Nicolás Gómez Dávila è un’ancora di salvezza per coltivare la nobiltà della reazione. I suoi “Escolios”, per fortuna, continuano a tormentarci
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“Nulla di più deprimente che appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante che appartenere a una moltitudine nel tempo”. Nicolás Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito II.

L’epoca del tramonto dei valori è finita, e il tempo che stiamo vivendo si configura come uno scenario inedito che sta forgiando una “nuova normalità” per le moltitudini umane, così plasmabili da decisioni politiche, tendenze economiche, mode sociali e soprattutto paure ancestrali. Un’umanità nuova per un nuovo mondo.

I sacerdoti del transumanesimo – dottrina imperniata sull’idea di una necessaria evoluzione dell’uomo parallelamente alla sua fusione tecnologica con la macchina – nella loro teorizzazione vanno oltre un mero relativismo di tutti i valori; ciò che essi auspicano è quasi una transustanziazione invertita, pagana e mefitica dell’essere umano come unico portale d’ingresso in questo mondo nuovo. Il cavallo di battaglia di questa tendenza sembra essere l’identificazione di un “bene collettivo” transnazionale e transculturale, un bene che però si avvicina sempre più alla “nuda sopravvivenza”, altare su cui qualunque altro attributo della vita dovrebbe essere sacrificato. Ma siamo sicuri che questa nuda sopravvivenza sia qualcosa di diverso da una “nichilistica mera vita fisiologica”, cioè la vita spogliata di qualsiasi ragione che la renda tale?

Nel XX secolo, in piena epoca nichilistica e convalescente, c’è stato chi ha saputo contrapporre ad una nuova normalità una rinnovata oggettività.

Nicolás Gómez Dávila è morto nel 1994: nel tempo trascorso dalla sua scomparsa il mondo ha subìto una fortissima accelerazione nella direzione della massificazione e del globalismo. Forse in questi ultimi due decenni il mondo è cambiato più che in qualunque altro ventennio della storia conosciuta: la rivoluzione informatica si configura come uno spartiacque epocale nella storia degli ultimi secoli. Sebbene Gómez Dávila non abbia potuto vedere i risvolti più recenti e inquietanti dell’età moderna, le critiche che il pensatore andava forgiando attraverso i suoi aforismi valgono appieno, quasi a biasimare ante litteram certe derive che una mente lucida e acuta poteva prevedere.

Per un pensatore che si definisce apertamente reazionario è naturale criticare la tecnica come simbolo del progresso e della mentalità progressista, la quale è intimamente convinta di essere migliore di qualsiasi passato solo per il fatto di essere cronologicamente più vicina al futuro. «La tecnica», infatti, «non realizza i vecchi sogni dell’uomo bensì li scimmiotta con sarcasmo» (E I, 33), dice il bogotano, secondo il quale «l’impatto della scienza sulla religione ha avuto luogo il secolo scorso», mentre «ciò che sta avendo luogo in questo secolo [il XX, n.d.r.] è l’impatto della tecnica sull’immaginazione degli imbecilli» (E I, 74). Uno stato di cose che l’autore riassume in questi termini: «al fine di non pensare al mondo che la scienza descrive, l’uomo si ubriaca di tecnica» (E I, 244). Ma questa serrata critica alla contemporaneità non è meramente il frutto di una volontà cocciuta che rifiuta il nuovo aprioristicamente per evitare di scomodarsi di fronte alle nuove scoperte, ma una critica basata su ragioni tanto storiche quanto addirittura metafisiche. Per esempio ciò è visibile in primis nella differenza tra l’architettura antica e quella moderna che il filosofo puntualizza come segue:

Siccome l’architetto moderno confida nelle possibilità infinite del progresso tecnico, l’edificio che costruisce porta implicita nel suo midollo architettonico la convinzione della sua pronta caducità. L’architetto di ieri, al contrario, non sentiva che la sua abilità tecnica fosse uno stadio transitorio, bensì maestria insostituibile. L’architetto attuale non impartisce serenità e grandezza alle sue immense costruzioni, mentre palazzi e templi metricamente modesti dispiegano una vastità solenne e maestosa davanti allo spettatore attonito. (E II, 306)

Del resto, scrive Gómez Dávila, «tutto è voluminoso in questo secolo», ma «niente è monumentale» (E II, 557), già paventando, a suo tempo, che la “prassi della tecnica” si fosse trasformata in “canone della ragione”: «la tecnica induce insidiosamente a trasformare le sue categorie regolatrici dell’azione in categorie costitutive della realtà» (NE I, 100); e non senza giungere alla sublimazione dell’intento dell’uomo attuale in una sorta di segreto anelito:

L’impulso segreto della tecnica sembra essere l’intenzione di rendere insipide tutte le cose. Il fiore senza profumo ne è l’emblema. (NE II, 84)

Ma il concetto di “tecnica” non va quasi mai disgiunto da quello di “progresso”, anche se già di per sé il termine “progresso” non implica affatto quello di “miglioramento”. Convinto prima di tutto che «gli infatuati propugnatori del progresso contribuiscono più ad affrettare la caducità, la fugacità e la mutabilità delle cose piuttosto che a migliorare il mondo» (E I, 144), il colombiano aspira alla «cattedra di regresso metodico» (E I, 148) perché ritiene che denigrare il progresso sia comunque troppo facile. Dice Gómez Dávila:

I nuovi catechisti proclamano che il Progresso è l’incarnazione moderna della speranza. Però il Progresso non è una speranza emergente, ma l’eco agonizzante della speranza scomparsa. (E I, 213)

Pur trovando uno spiraglio, in questo quadro di disperazione, di una sua ipotetica utilità: «avrà il Progresso la mera funzione di far rilucere ciò che distrugge?» (E II, 406). Tutte queste sentenze brevi e perentorie, tuttavia, non devono far pensare che non ci sia una giustificazione sottesa ad esse, poiché l’autore ne dà contezza come segue:

La nozione di progresso scientifico è chiara e indiscutibile. La nozione di progresso tecnico, al contrario, è confusa e discutibile. La nozione di progresso scientifico è chiara e indiscutibile perché l’impulso stesso del progresso scientifico è il criterio del suo progresso. La nozione di progresso, detto altrimenti, fa parte in maniera univoca della definizione stessa della scienza. Il processo scientifico consta in effetti di una falsificazione successiva di ipotesi, e il progresso scientifico consta ugualmente della stessa attività di falsificazione. La nozione di progresso tecnico, al contrario, è confusa e discutibile, poiché la finalità del processo tecnico è esterna allo stesso processo. In effetti, solo la norma estrinseca che avvalora i fini realizzati dal processo può decidere che il processo tecnico sia progresso. Per asserire che oggi esiste un progresso tecnico si richiede di provare previamente che gli aneliti, le avidità e gli appetiti colmati dalla tecnica moderna siano valori giustificati da un’indagine assiologica autonoma. (E I, 239-240)

E come si vede è una giustificazione teoreticamente meditata, che sfocia in un terreno che va al di là dell’ambito meramente tecnico o scientifico, sconfinando nell’assiologia. Infatti il concetto di “scienza”, secondo Gómez Dávila, non è assolutamente sinonimo di progresso tecnico o viceversa, anche se la scienza stessa, entro la visione gomezdaviliana del mondo, è un’attività che si svolge in una sorta di gabbia deterministica e che quindi «non può fare altro che l’inventario della nostra prigione» (E II, 367). Specificamente, a proposito della relazione tra scienza e filosofia, l’aforista di Bogotà afferma: “Quando la scienza ostenta pretensioni filosofiche, l’epistemologia le ricorda i suoi postulati. Contro le sue pretensioni di impero, l’epistemologia le esibisce la sua origine servile. Extra epistemologiam nulla salus” (E I, 29).

Nicolás Gómez Dávila

Secondo il colombiano, quindi, la scienza, e a maggior ragione la tecnica, sono discipline del sapere che non possono rivendicare un’eccessiva autonomia, e men che mai un’aprioristica assolutezza. Oggigiorno è necessario guardare in un certo modo alle pretese, o pretenziosità, umane: la scienza, con tutte le sue branche, che si atteggia ad unico campo in cui la verità può manifestarsi – fino al consunto e deleterio slogan dello “scientificamente dimostrato” con cui un po’ tutti gli affabulatori retorici si riempiono la bocca per impaurire i profani – e la tecnica, che dal canto suo si erge a supremo artefice del malleabile materiale umano.

Il motivo di tutta questa reticenza di fronte al nuovo e al progresso è che per Gómez Dávila non esiste niente di più importante dei valori, l’unica cosa che può nobilitare l’uomo. Addirittura, secondo il filosofo, «l’assiologia è l’unica scienza puramente empirica» perché «il valore è l’unica presenza totalmente autonoma» (NE II, 39), quindi invertendo la direzione presa dalla deriva contemporanea, dove il valore tende ad essere sistematicamente soppresso perché risulterebbe inutile in un mondo di processi efficienti e scientificamente dimostrati. Questa tendenza del mondo a divenire un gelido marchingegno ad orologeria ha, secondo il bogotano, le conseguenze più nefaste proprio per il fatto di non opporre più nessun freno alla mercificazione della carne e all’estinzione dell’anima. Una mercificazione ben condensata nell’aforisma seguente: “L’uomo ha tanta anima quanta crede di averne. Quando quella credenza muore, l’uomo diventa oggetto”. (E II, 469)

Incrollabilmente convinto che «i valori, come l’anima, nascono nel tempo, però non gli appartengono» (E II, 360) e che «solo al contemplativo non muore l’anima prima del corpo» (E II, 435), secondo Gómez Dávila quando menzioniamo l’anima «non pretendiamo di risolvere un problema, bensì cerchiamo di non nascondere disonestamente un mistero» (E II, 465). Nella triste constatazione che «per la mentalità moderna nelle scienze umane è “scientifico” solo quello che permette di eludere la considerazione dell’anima» (E II, 513) si è costretti ad ammettere, per forza di cose, che «l’anima moderna è un paesaggio lunare» (E II, 513). Ma quale sarebbe, in definitiva, la causa di questa siccità prolungata che ha rinsecchito l’umanità sempre più prosaica nel suo monotono sopravvivere senza valori e senza scopo? Ecco la risposta: “Ormai nell’anima moderna non scorrono ruscelli. L’industrialismo ne ha canalizzato le fonti” (E II, 523).

Accanto all’importanza dei valori e alla preminenza dell’anima, il colombiano nella sua filosofia ha sempre mirato all’identificazione di una dimensione eterna – anche se proiettata a partire dal tempo e dalla storicità – nella quale l’anima avesse la possibilità di lasciarsi alle spalle la dimensione transeunte della quotidianità volgare per rivolgersi a ciò che è incorruttibile e facente parte di un livello sovrumano: “Il tempo erode presto ciò che dell’anima si dice, però non graffia neppure quello che l’anima dice” (E II, 527).

Con dei risvolti anche pessimistici, vista la stolidità con la quale l’umanità si dirige con fretta industriale verso il baratro: “La nostra anima ha un avvenire. L’umanità non ne ha nessuno” (E II, 528). Sempre conscio, del resto, che industrializzazione e globalizzazione non possono che portare a questa conseguenza deleteria: «quando smettiamo di credere nell’anima finiamo per trattarci reciprocamente come beni deperibili» (E II, 542).

Ma allora, che compito rimane per un filosofo che dichiara di essere reazionario? Anche questo è presto detto: «il reazionario non argomenta contro il mondo moderno sperando di vincerlo, ma perché i diritti dell’anima non si estinguano» (E II, 544). Siccome «l’anima civilizzata è quella a cui interessano le verità inutilizzabili» (NE II, 33), di conseguenza il reazionario si trova ad essere inevitabilmente il sostenitore di una causa persa, ma per questo fatto c’è una motivazione piuttosto sottile, proprio perché «l’uomo moderno non disattende il reazionario perché le sue osservazioni gli sembrino improprie, bensì perché non gli risultano intelligibili» (E I, 107). Ecco quindi perché, secondo il bogotano, tra l’uomo moderno abitatore del presente e il reazionario immerso nel passato si apre uno squarcio, quasi un abisso, incolmabile – ricordando anche che «non leggere per un certo tempo altro che latino e greco è l’unico modo per disinfettarsi un poco l’anima» (NE II, 52) – tale per cui le parole sagge provenienti da storia e tradizione non giungono obsolete alle orecchie moderne, ma praticamente sconosciute.

Anche se «la provvidenza decise di consegnare al democratico la vittoria e al reazionario la verità» (E I, 106) ciò non vuol dire che quest’ultimo abbia solo il ruolo di un cane che abbaia innocuamente al mondo moderno stando relegato dietro un cancello, perché, dice Gómez Dávila, «il reazionario è il fomentatore di quella radicale insurrezione contro la società moderna che la sinistra predica ma che meticolosamente elude nelle sue farse rivoluzionarie» (E I, 102).

Il pensatore colombiano risponde poi anche alla potenziale critica che gli potrebbe muovere il democratico contemporaneo, il quale vedrebbe in un reazionario un pensiero retrogrado portatore di disuguaglianze:

Il reazionario, nell’osservare la dissomiglianza degli uomini e la varietà dei loro propositi, ha inventato il dialogo. Il democratico pratica il monologo poiché l’umanità si esprime per bocca sua. (E I, 243)

E ancora, sottolineando come una certa indole antidemocratica possa essere l’unica áncora di salvezza contro la normalizzazione e l’omogeneità della formula “siamo tutti uguali”:

Il fervore del culto che il democratico rende all’umanità è comparabile solo alla freddezza con cui manca di rispetto all’individuo. Il reazionario sdegna l’uomo, senza disprezzare nessun individuo. (E II, 302)

Ma questo presente che guarda al reazionario come ad un corpo estraneo, quasi immorale e osceno nel suo rifiuto di marciare gioiosamente tra le fila delle tesi progressiste, non è, in fondo, fonte di timore per il reazionario stesso, ma praticamente il suo sostentamento: «l’entusiasmo del progressista, gli argomenti del democratico, le dimostrazioni del materialista sono l’alimento delizioso e succulento del reazionario» (E II, 511).

E da buon reazionario, Gómez Dávila non può rinunciare ai valori tradizionali, quelli che continuano imperterriti ad esistere – perché la gente continua a riferirvisi – mentre Nietzsche è morto e sepolto: «così ripetutamente hanno seppellito la metafisica che bisogna giudicarla immortale» (E I, 52). Primo fra tutti i valori e chiave di volta di tutta l’architettura assiologica gomezdaviliana è Dio: dopo la moderna “morte di Dio” ci troviamo di fronte ad un pensatore contemporaneo che fa della divinità personale del cristianesimo il punto di appoggio da cui scardinare l’ideologia materialista soddisfatta dall’opprimente finitezza del mondo. “Dio” è un concetto che ricorre spesso nell’opera di Gómez Dávila e che varie volte si riallaccia al tema del senso del mondo. Al “senso di liberazione” che l’uomo moderno proverebbe davanti alla morte di Dio, il filosofo colombiano oppone una conclusione che, al contrario, getta l’uomo moderno in uno sconforto ancora più grande di quello da cui credeva di essersi liberato: “Se Dio non esiste non dobbiamo concludere che tutto è permesso, bensì che niente ha importanza. Quando i significati si annullano, i permessi diventano irrisori” (E I, 77).

Ma perché, in fondo, se Dio non esiste dobbiamo concludere che niente ha importanza? Se il prezzo dell’emancipazione dell’uomo – un’emancipazione costantemente condannata da Gómez Dávila – è quello di rinunciare alla trascendenza per rimanere rinchiuso nella gabbia meccanicistica, allora è chiaro che non si tratta di emancipazione, ma dell’illusione di poter fare le veci dell’Infinito per mezzo di tristi surrogati immanenti. Dio e il senso ultimo si intrecciano anche in questi tre aforismi molto significativi posti in successione in Notas:

Che cosa chiamiamo Dio? Il fatto fondamentale che, se anche il mondo non ha senso, io possa dire questo: che non ce l’ha.

Se il mondo non ha senso, è sufficiente che io possa dire che non ce l’ha affinché la mia protesta, sola nel mondo, annulli la proposizione ipotetica dalla quale parto.

La personalità di Dio non è altro che l’impossibilità di concepire il senso del mondo come inferiore alla miserevole personalità dell’uomo. (N, 388-389)

Questa intima connessione tra l’idea di Dio e il senso del mondo si deduce proprio dall’importanza dei temi di riflessione a cui ci si dispone, perché «il pensiero può eludere l’idea di Dio finché si limita a meditare su problemi subalterni» (SE, 25). E subalterno è, in fin dei conti, tutto ciò che si esaurisce nella mera immanenza, nella finitezza, in tutto ciò che è destinato a rimanere entro la “gabbia del tempo”. Gómez Dávila percepì chiaramente anche questa inquietudine fondamentale della vita che parrebbe non aver bisogno della trascendenza per portare a termine “fisiologicamente” il proprio compito elementare di perpetuazione, senza chiedersene il perché. Infatti il pensatore, in un altro passaggio di Notas, confessa il proprio smarrimento di fronte a ciò: “Forse nulla mi ha inquietato ed esasperato tanto quanto il fatto che la vita sembra non avere altro oggetto che la vita” (N, 391).

Nell’opera gomezdaviliana ciò che rappresenta il senso, in ultima analisi, è proprio quell’eccedenza della vita che, opportunamente coltivata e sviluppata, consente uno sguardo, seppur fugace, verso una dimensione trascendente la vita stessa. Se alla fine abbiamo tanta anima quanta crediamo di averne è perché ciò dipende in buona misura da quello che scegliamo di coltivare nella nostra interiorità istante per istante, e quindi dalla maggiore o minore nobiltà dell’oggetto che ci ritroviamo tra le mani. Dice infatti il bogotano:

L’uomo soddisfatto è mediocre quando la sua soddisfazione nasce da atti o da oggetti effimeri, quando si accontenta di tutto quanto passa e muore, di tutto quanto non aspira a non passare, a non morire. Quando non cerca nulla che sia simbolo dell’eternità, desiderio di essa, suo riflesso o immagine. (N, 56)

E quale “oggetto” sarebbe più nobile di Dio? Infatti, «se non è di Dio che parliamo, non è sensato parlare di alcunché seriamente» (SE, 33). Ma se parliamo seriamente, finiamo immancabilmente per parlare di eternità e di infinito, cioè della dimensione che esula dalla temporalità e dalla finitezza. L’infinito e l’eternità però non sono propriamente dei contenuti specifici o dei “valori” che possano cadere nietzscheanamente, quanto una forma mentis: quando ad essere oggetto del pensiero è “Dio” (ovvero l’infinito e l’eternità) ciò che succede è alquanto singolare, perché forma e contenuto coincidono, dato che nessun contenente può arginare un contenuto infinito ed eterno, se non quel contenuto stesso.

Il pensiero, quindi, che parte dall’apparente finitezza di questo mondo, si ritrova presto a fare i conti dapprima con dei simboli che rimandano a dimensioni ulteriori, e poi con veri e propri contenuti dai quali la dimensione dell’eternità riecheggia e infine deborda, come è il caso della grande arte, tanto amata da Gómez Dávila.

Nel corso di tutta l’opera del pensatore colombiano questi richiami all’eccedenza trascendente sono una costante, come costante è stato il suo sforzo nel forgiare frammenti di pensiero in forma letteraria volti a tenere alto lo sguardo verso le cose più nobili. E noi, come suoi lettori, ci dobbiamo mostrare all’altezza di questo.

*In copertina: Francisco Goya, “Saturno divora i suoi figli”, 1821-23

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