La filosofia non è statistica. Come non lo è la religione. La verità non si cerca (o si rivela) in base alla quantità di dati che si hanno a favore di una delle alternative. Così gli studi che correlano discorsi violenti e violenza reale contano, ma solo fino a un certo punto. Alla morale non bastano i fatti. È il cosiddetto Is-ought problem, famoso grazie a Hume e, poi, a George Edward Moore, la cui opera in Italia è – inspiegabilmente – difficilissima da trovare. Sta facendo discutere il sondaggio lanciato da Elon Musk sulla riammissione o meno di Donald Trump su Twitter. La vera proposta si legge tra le righe: dare spazio a chiunque, compreso chi propina alla luce del sole menzogne? Un altro filosofo, Harry G. Frankfurt, autore del paper Bullshit (tradotto in italiano da Rizzoli con il titolo Stronzate nel 2005), avrebbe messo in guardia dal tollerare in ambito politico chiunque propini menzogne. E in termini assoluti avrebbe ragione. Ma, ci ricorda John Mearsheimer nel suo Verità e bugie nella politica internazionale (Luiss University Press, 2018), le menzogne sono necessarie in ambito politico affinché si mantengano certe condizioni di equilibrio esterne; ma con Machiavelli diremmo anche interne. Così la menzogna diventa onnipresente. Di contro, gli studi che mirerebbero a dimostrare la correlazione tra discorsi d’odio e aumento dei crimini violenti, non possono essere l’unico argomento considerato per imporre delle regole.
Ci troviamo schiacciati tra due fatti che non sono sufficienti ma tirano ognuno verso un estremo: da un lato il fatto incontestabile dell’onnipresenza della stronzata che porta a domandarsi se sia sensato impedire a un solo soggetto (o a un gruppo ristretto di soggetti) di diffondere bugie nei social network, pur sapendo che tollerarlo potrebbe non essere la strada moralmente più giusta da intraprendere; dall’altro una statistica che, seppur influente, non crediamo possa da sola determinare il corso delle scelte morali di una società. Il primo è da accettare, il secondo ci si presenta davanti con una forza apparentemente incontrovertibile, soprattutto se vista con gli occhi tecnicisti dell’Occidente politico, ma sappiamo (sentiamo) che non basta a farci prendere posizione. Nel solco vuoto creato dallo strappo tra queste due considerazioni, è presente la soluzione proprio al quesito di Musk: riammettere o no Donald Trump?
Nel frattempo oltre 7,5milioni di voti hanno decretato la vittoria di Trump su Twitter, facendo sì che venisse riammesso. Lui per ora non tornerà, sedotto da (o nel disperato tentativo di promuovere) Truth, il suo social network, ora distribuito anche su Google Play. «Vox Populi, Vox Dei» ha scritto Musk. Prima di lui sono state riammesse altre figure cosiddette controverse, tra cui Jordan Peterson, l’elegante docente di Harvard, fino al 1998, e dell’Università di Toronto, dove ora è professore emerito. Era stato bannato per aver paragonato l’essere transgender a un abuso rituale satanico. È importante notare che se una società teme queste affermazioni al punto da bloccarle, il problema non può che essere la società stessa. Nel libro La nuova intolleranza (uscito quest’anno per Linkiesta), Helen Pluckrose e James Lindsay mettono in guardia da un atteggiamento mitomaniaco sia della destra che si affida a politici autoritari, gli uomini forti, sia della una sinistra woke, determinata a diffondere il panico nei luoghi della cultura, dall’accademia alle grande fabbrica cinematografica. Ma, si deve sottolineare, nessuno esce dal paradigma occidentale delle ritorsioni, della minaccia, dell’inquisizione e dall’oderint dum metuant di Caligola.
L’odio scaccia l’odio, secondo il binomio politico sotto il quale l’Occidente sta fingendo buona salute. È uno dei motivi per cui la stessa figura di Putin assume la duplice immagine dell’uomo da combattere e del tiranno da imitare. Egli è sia l’uomo bianco, omofobo, di potere che la sinistra vorrebbe distruggere, sia il politico potente, vigoroso, dotato di una virilità che l’Occidente non ha più. Ma, al contempo, è anche l’uomo che la destra non può tollerare, perché nemico dell’Occidente, della tradizione che questa fazione politica vuole difendere; e il politico che la sinistra non può condannare fino in fondo, pena l’essere a propria volta etnocentrici, filoccidentali e, in altre parole, il nemico che si vorrebbe combattere. Destra e sinistra hanno motivi per preservare e annientare Vladimir Putin e la Russia che egli rappresenta.
Nella stessa morsa letale rientra il dilemma del dire. Da un lato la sinistra woke pretende sempre più spazio laddove non lo vede concesso: nelle conferenze dei linguisti, nei dizionari, nel linguaggio ordinario, nei programmi scolastici. Questo mentre la destra si oppone alle acrobazie retoriche e alla “neolingua” dalle suggestioni orwelliane dei Social Justice Warrior. Dall’altro la destra lamenta sempre meno spazi per il dissenso, per il presunto pensiero divergente da quello imposto dall’egemonia culturale di sinistra; e quest’ultima chiede sempre più limitazioni per le parole d’odio, pur non chiari i limiti di questa categoria semantica. Le parole, così come il leader del Cremlino, risultano essere il campo in cui si manifesta pienamente l’aporia che ha infestato la cultura politica dei nostri tempi. Per questo si deve intervenire criticamente nell’intercapedine morale lasciata libera dalle smanie inquisitorie. È in queste che si sviluppano vicende come quella della riammissione o meno di Trump su Twitter o del linciaggio pubblico contro J. K. Rowling, che si è vista voltare le spalle persino dagli attori che devono a lei la loro fama. Nei luoghi della controversia ancora aperta si può mostrare perché si dovrebbe provare imbarazzo di fronte a una situazione in cui ci si esprime sulla libertà di parola altrui. Se vi è imbarazzo, allora ci sarà l’occasione di redimersi. Ne va della nostra salvezza morale.
Tollerare l’intollerabile, dire tutto. Questo accanto alla convinzione che dire non sia come agire. Che dalla parola non passi la prassi. Che si possa predicare bene e razzolare male; e predicare male ma razzolare bene. E che solo chi razzola male possa scontrarsi con la società civile. Tana libera tutti. La cultura giustizialista di sinistra non ha ancora ripagato il debito con quei padroni del pensiero di cui hanno parlato André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy nel loro capolavoro del 1977, appunto Les Maîtres penseurs. Ma non è da meno la destra che recupera il mottetto sbandierato anche dalla sinistra woke e con cui si apre la critica dei due nouveaux philosophes francesi: «Siete liberi». I primi liberi di dissentire dalla libertà proclamata dei secondi. Una libertà contraddittoria perché assoluta solo rispetto al nemico, annientato in ogni modo (ridicolizzato, stigmatizzato, censurato), mentre si pretende di poter dire tutto.