OGGETTO: L'exit strategy passa dalla Sublime Porta
DATA: 24 Marzo 2022
SEZIONE: Sicurezza
AREA: Europa
Il Sultano non è meno pragmatico di Emmanuel Macron e Naftali Bennett, ma ha qualcosa che loro non hanno e che non possono dare allo Zar: le famigerate garanzie di sicurezza
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Emmanuel Macron è l’interlocutore in Europa di Vladimir Putin, più di dieci chiamate da inizio gennaio a metà marzo, mentre Naftali Bennett è il pragmatico re di Gerusalemme che ha violato il santo shabbat per dare compimento alle Sacre Scritture, al Pikuach Nefesh: la tutela della vita prima di ogni altra cosa. Né Macron né Bennett, però, nonostante gli ottimi propositi e il rapporto cordiale con Putin e la Russia, non sono riusciti ad ottenere nulla di concreto. O forse sì, anzi probabilmente sì, ma solo per le loro nazioni e non per l’Europa e né, tantomeno, per l’Ucraina. Volodymyr Zelenskij, similmente, non è nelle condizioni di promettere e negoziare: l’Ucraina è un satellite ruotante attorno al pianeta Stati Uniti e questa non è che l’ultima trincea della terza guerra mondiale a pezzi, l’ultimo campo di battaglia nel quale si stanno combattendo il declinante ma ostinato unipolarismo e l’albeggiante multipolarismo. L’Ucraina è il dito, la transizione multipolare è la Luna. Si scrive garanzie di sicurezza, si legge riscrittura della geografia del potere globale e ritorno all’epoca delle sfere di influenza.

Recep Tayyip Erdoğan, che non è un doppiogiochista ma è un Sultano, e come tale non ha che un alleato, se stesso, è entrato a gamba tesa nel conflitto, intuendone la dimensione e le implicazioni globali, nella speranza-aspettativa di capitalizzare il vuoto lasciato dall’Unione Europea e di persuadere l’aminemico Putin ad allargare all’Ucraina il modello già collaudato della spartizione concordata. La mediazione turca, che ambisce a fare della Sublime Porta la sede di un accordo di pace tra Zelenskij e Putin, potrebbe funzionare. Il condizionale è doveroso: Erdoğan ha più possibilità di riuscita rispetto ad altri potenziali e aspiranti mediatori, per alcune ragioni che verranno spiegate più avanti, ma ciò non è garanzia di successo automatico. Erdoğan e il suo Richelieu, Mevlut Çavuşoğlu, possono riuscire come fallire, ma, rispetto agli omologhi europei e israeliani, hanno un mazzo di carte più corposo e qualcosa da offrire effettivamente.

La prima ragione è che Turchia e Russia, anzitutto, possono attingere ad un passato recente di profittevoli intese amichevoli, mutualmente vantaggiose, sulla delimitazione delle loro sfere di influenza tra area MENA e Caucaso meridionale. Si pensi alla Libia, alla Siria, al Karabakh. Il loro è un formato di spartizione equa e concordata già collaudato con successo in più teatri e che potrebbe funzionare anche in Ucraina perché basato su una logica di dividendi imperiale e pragmatica. La seconda ragione è che i russi, e ciò è molto importante, devono un (grande) favore ai turchi, i quali hanno accettato con riluttanza il processo di normalizzazione diplomatica (e non solo) con l’Armenia, avente Mosca come sede dei negoziati, e potrebbero ibernarlo a tempo indefinito come ritorsione, o minacciare di farlo – han vissuto un secolo senza parlarsi con gli armeni, del resto, perciò non è un problema –, utilizzando il semi-satellite Azerbaigian per esercitare pressioni in quella parte di Karabakh ancora sotto il controllo dei separatisti dell’Artsakh. Una cosa che il Cremlino non può permettersi: dall’esito dei negoziati turco-armeni e dalla tregua del novembre 2020 dipende il futuro del Karabakh, dunque della Transcaucasia, che i russi vorrebbero in pace, stabile e preferibilmente sotto un regime egemonico a loro favorevole.

La terza ragione, altrettanto sottovalutata dai più, è che Erdoğan è il faccendiere degli Stati Uniti nello spazio postsovietico e centroasiatico, oggi come in passato, perciò è altamente probabile che stia agendo (anche) su delega di Biden. La quarta ragione è che la Turchia ha effettivamente voglia di pace, una voglia irrefrenabile, perché non può permettersi di perdere l’Ucraina, avendoci investito pesantemente in ognuna delle sue industrie e in ogni suo mercato sin dal dopo-Euromaidan, ed essendole prossima per questioni di identità – i tatari – dalle quali dipende l’immagine del Sultano nell’opinione pubblica islamica (mondiale) e vedendo in essa, quelli che gli antenati ottomani avrebbero chiamato la Mela d’oro, un appoggio fondamentale nella (ri)trasformazione del Mar Nero nel “Lago ottomano”.

La Turchia non è un attore esterno, come Israele o Francia, ma uno di primo piano: è coinvolta nella guerra da prima che iniziasse. In effetti, la Turchia ha persino qualche responsabilità nello scoppio di questo conflitto, visto che armando l’esercito ucraino coi droni Bayraktar TB2, i temibili “giannizzeri dei cieli”, ne ha permesso l’avanzata nel Donbass l’anno scorso sino a far temere il Cremlino che le due repubbliche separatiste, oggi legalmente riconosciute, fossero prossime a cadere. La mediazione potrebbe funzionare perché questo conflitto, in fondo, non è che un nuovo capitolo delle nuove guerre russo-turche, come dimostrato dai moniti a colpi di cannone inviati a largo di Odessa e dalla chiamata alle armi rivolta ai ceceni di Ramzan Kadyrov – inviati in terra ucraina a dare la caccia a islamisti e jihadisti che per otto anni hanno supportato Kiev nel Donbass (e non solo lì), tra i quali i militanti della filoturca Hizb-ut Tahrir – e ai siriani assadisti – altri nemici giurati di Ankara e del suo Sultano.

La Turchia non è una nazione neutrale, perché membro dell’Alleanza Atlantica, e neanche è priva di responsabilità, essendo un partner militare dell’Ucraina, ma non ha aderito al duro regime sanzionatorio euroamericano e resta legata alla Russia da un matrimonio di convenienza fragile come il vetro ma tagliente come un diamante – S400 docet. La Turchia è una potenza imperiale e pragmatica, proprio come la Russia, perciò un eventuale accordo di pace, o di tregua, negoziato tra il Sultano e lo Zar infonderebbe nel Cremlino una certa fiducia, fino a oggi mancata, circa la futura collocazione geopolitica dell’Ucraina (ponte anziché ariete), sull’equilibrio di potere nel Caucaso meridionale e sul livello di conflittualità nel Mar Nero.

Il potenziale per un accordo a tre c’è, ma resta da vedere se i russi lo riterranno abbastanza, se pensano sia già il momento di fare pace, se gli ucraini acconsentiranno – mai sottovalutare la caparbietà di piccole potenze e satelliti, che più volte nella storia hanno ostacolato le agende degli adulti – e, soprattutto, resta da vedere cosa accadrà sul campo, perché sviluppi imprevedibili potrebbero minare il già difficile processo negoziale. Non resta che sperare nell’intermediazione del re di Gerusalemme al Sultano della Sublime Porta.

Che sia chiaro, però, che chi si propone paciere non lo fa perché gandhiano amante della pace universale ma perché machiavellico stratega che ha intravisto nel fuoco della trincea l’opportunità di accrescere il potere proprio e della nazione che rappresenta. E oggi come ieri, dove per ieri si intende Iugoslavia, potremmo scoprire che la pace fatta dagli altri per noi non sempre risponde al nostro interesse. Ma se l’alternativa alla mediazione pragmatica, e forse antieuropea, di Erdoğan è un’ulteriore internazionalizzazione del conflitto – con tutti i rischi che ciò comporta –, è la distruzione dell’Ucraina, ben venga la “pace interessata” dell’aminemica Turchia.

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