«Il giorno peggiore nella storia d’Israele». Perfino il portavoce delle Israel Defence Forces, un ufficiale di marina tutto d’un pezzo, fatica a nascondere lo sgomento di fronte al massacro che si sta consumando nel Paese. Preceduti da un impressionante sbarramento di circa cinquemila missili — il più intenso mai messo in atto — alle prime luci del 7 settembre centinaia di infiltratori palestinesi appartenenti ad Hamas hanno valicato le mura fortificate della Striscia di Gaza per dirigersi verso le cittadine e le installazioni militari limitrofe, sparando su chiunque si parasse loro davanti: al momento della stesura il bilancio è di milleduecento morti e tremila feriti, per la larghissima parte civili, mentre sarebbero almeno centocinquanta le persone prese in ostaggio dai terroristi. Isolate Sderot, tra i primi centri presi d’assalto e dove adesso si combatte in quella che si preannuncia una sanguinosa battaglia casa per casa, e Ashkelon, bersagliata a più riprese da lanci di razzi nel sostanziale silenzio della difesa aerea locale.
Intanto, da Tel Aviv il governo di Benjamin Netanyahu giura vendetta. È guerra aperta: ammontano a trecentomila i riservisti mobilitati, e i cacciabombardieri dello Stato ebraico proseguono le sortite su Gaza assediata, costate finora la vita ad oltre mille abitanti. Per gli altri, in totale due milioni di persone lasciati senza acqua, cibo, medicine ed elettricità, la fuga risulta impossibile. Lunghe colonne di mezzi corazzati muovono verso l’epicentro degli scontri, a Sud; resta comunque altissima l’allerta per una possibile offensiva da Nord ad opera di Hezbollah, coinvolta in una serie di piccole schermaglie lungo il confine libanese in risposta alle quali si segnalano raid di elicotteri. Sullo sfondo il timore di un intervento dell’Iran, noto sostenitore ideologico e finanziario di entrambe le organizzazioni paramilitari: è allo scopo di sventare questo scenario apocalittico che il gruppo portaerei USA Gerald R. Ford sta facendo rotta per il Mediterraneo orientale, seguito a breve distanza da velivoli cargo carichi di armi e munizioni.
Si ripete l’incubo di mezzo secolo fa, quando le forze congiunte di Egitto e Siria riuscirono a cogliere di sorpresa gli ignari israeliani, raccolti in preghiera per lo Yom Kippur. E come allora, assorbito lo choc iniziale è già partita la caccia al colpevole del disastro. È Netanyahu il principale indiziato: dal progressista Haaretz al conservatore Jerusalem Post, la stampa accusa a gran voce il Primo Ministro di aver sottovalutato, se non scientemente ignorato, le conseguenze della politica di espansione territoriale promossa dalla maggioranza a guida Likud. Lui glissa e tira dritto; con il collasso del suo esecutivo scongiurato dalla formazione di un gabinetto d’emergenza, le sorti del vecchio falco sionista sono legate a doppio filo all’andamento del conflitto. È soltanto questione di tempo perché le truppe di Tsahal facciano ingresso a Gaza: una vittoria entro tempi brevi, pur assai improbabile, potrebbe salvare in extremis la carriera di Bibi, ma combattimenti protratti ne segnerebbero la fine ingloriosa.
Israele si prepara dunque ad un’operazione terrestre di ampia portata: è la prima volta dall’incursione in Libano del 2006. Sebbene siano trascorsi diciassette anni, presso l’opinione pubblica il ricordo delle perdite (relativamente) pesanti subite dalle IDF si è mantenuto vivido; abbastanza, in effetti, da far sì che le successive campagne contro le milizie filopalestinesi, in particolare quelle del 2009 e del 2014, siano state affidate quasi per intero all’aviazione, forte dell’assoluta supremazia dei cieli. L’esercito si è visto relegato a compiti di guarnigione e sicurezza intorno alla Striscia, dove alla vigilia dell’attacco si trovava il grosso dei suoi reparti regolari; cronicizzatosi, questo stato di cose ha finito per blandire la prontezza individuale dei singoli soldati, nella stragrande maggioranza dei casi coscritti per i quali il servizio di leva rappresenta al più una sgradevole imposizione. Il risultato sono le cruente immagini che ritraggono diversi di questi giovani uccisi, sovente in maniera brutale, o prigionieri del nemico.
Fino a che punto delle unità così costituite — e soprattutto le loro famiglie — siano davvero in grado di sostenere i costi della feroce battaglia urbana in divenire o, se la situazione dovesse precipitare, di una guerra su vasta scala, è incerto; pesa anche la carenza di materiale, da ascrivere alla drastica riduzione delle scorte seguita all’invasione russa dell’Ucraina. Beninteso, nel complesso la macchina bellica israeliana rimane estremamente efficiente, come dimostra il fulmineo e massiccio schieramento di personale aggiuntivo. Lo stesso non si può invece dire dei servizi segreti: celebrati come i migliori al mondo, gli 007 del Mossad, dello Shin Bet e dell’Aman non sono riusciti ad anticipare un’azione dietro la quale, è evidente, ci sono mesi di meticolosa pianificazione. Perché? Tralasciando le immancabili teorie del complotto, secondo cui l’intera faccenda non sarebbe che un tentativo del governo di procurarsi un casus belli contro Teheran, la spiegazione di questo madornale fallimento è forse più semplice di quanto si possa pensare.
Quella dell’intelligence è anzitutto un’attività di raccolta e vaglio di informazioni; dove e in che modotali informazioni vengono prodotte e comunicate ha un’influenza determinante sulle priorità istituzionali delle agenzie. In passato, il recupero di dati riservati si caratterizzava per il suo spiccato elemento umano: i limiti della tecnologia analogica imponevano un certo livello di contatto tra le persone, che rappresentavano quindi i bersagli ultimi dello spionaggio. Per contro la rivoluzione digitale, con il conseguente abbandono dei supporti fisici in favore di alternative immateriali, ha dato luogo ad una sempre più massiccia migrazione degli apparati di sorveglianza verso lo spazio virtuale di Internet e dei social media. Poco alla volta, la signals intelligence (SIGINT) 2.0 ha pressoché interamente soppiantato le accennate iniziative di human intelligence (HUMINT), generando un paradossale ma prevedibile ritorno dei bad actors alla realtà tangibile rimasta sguarnita: se tutti osservano uno schermo, nessuno osserva le strade.
Mentre le spie israeliane erano impegnate a sondare l’oceano torbido del web alla ricerca di qualche sparuto indizio di pericolo, nella penombra delle strette vie di Gaza Hamas si accingeva a colpire per primo. I trionfatori della Guerra dei Sei Giorni dovrebbero sapere meglio di chiunque altro che può bastare questo a garantire la vittoria; e quella di Hamas, non ci si illuda del contrario, è una vittoria. Nel giro di poche ore gli islamisti hanno confutato qualsiasi assunto strategico dei loro avversari, li hanno messi in ginocchio e, più di ogni altra cosa, ne hanno mandato in frantumi la cinquantennale percezione d’invulnerabilità. Davide ha fatto sanguinare Golia, e se anche dovesse venirne schiacciato la ferita che gli ha inflitto resterà aperta, forse per sempre. Poco male se a scontare la furia del gigante saranno, al solito, degli innocenti: un morto oggi è uno, due, dieci miliziani domani, e l’impressione è che nel prossimo futuro la jihad avrà costante bisogno di carne fresca in tutto il Medio Oriente.
Il faticoso processo di normalizzazione regionale avviato da Donald Trump si è arenato sul dietrofront dell’Arabia Saudita, ultimo e fondamentale paletto dello steccato che Tel Aviv e Washington stavano cercando di costruire attorno agli Ayatollah; anzi, di fronte alla crisi gli ormai ex arcinemici dialogano apertamente. Dopo un periodo di spettacolari equilibrismi geopolitici, il principe-re Mohammed Bin Salman pare deciso a giocare a carte scoperte. Insieme alla Russia, di concerto con la quale continua a manipolare il mercato energetico globale; insieme alla Cina, fautrice di uno storico cessate il fuoco tra il Regno e i ribelli Houthi dello Yemen; insieme a tutto il blocco BRICS, cui il Paese sta per aderire. E contro gli Stati Uniti, d’improvviso costretti a guardare in faccia la possibilità di perdere uno dei loro alleati chiave nel bel mezzo di una congiuntura storica a dir poco complessa, ove il prevedibile ripiego sul Qatar potrebbe non bastare a colmare il vuoto lasciato da Casa Saud nella strategia americana.
I venti di guerra si portano via le illusioni coltivate da partecipanti e spettatori dell’ennesima carneficina arabo-israeliana. Non ci sarà nessuna pace, né le grandi patrie che sono il pilastro retorico degli opposti estremismi: difficilmente i coloni ebrei scacciati col terrore dalle terre che si erano presi vorranno rientrarvi, e altrettanto difficilmente potranno farlo i legittimi proprietari, liberi magari dai soprusi dei loro vicini ma non dall’oppressione delle loro leadership. Nel concludere questo articolo, ci giunge notizia che piovono bombe anche su Damasco: è la conferma che questa non è l’ennesima scaramuccia tra vicini bellicosi. Il bagno di sangue rischia allargarsi alla martoriata Siria e da lì all’Iran, che di martirio parla da fin troppo tempo. Allora la sabbia del deserto potrebbe farsi vetro.