È stato un fine settimana piovoso a Roma, non solo a livello metereologico. Piove fittamente sulle istituzioni italiane, con rovesci temporaleschi che arrivano ripetutamente, da Nord e da Sud, senza tregua. Qualcuno la definisce “guerra tra apparati” e, se non è così, poco ci manca. Ma in un contesto in cui un finto Ministro della Difesa racimola un bel gruzzoletto da facoltose personalità molto in vista, non possiamo certo aspettarci che il tessuto sociale e politico sia molto diverso. Per cui è forse normale che faccia notizia il sofisticato software spia israeliano (forse) utilizzato per spiare giornalisti e attivisti, ma non il fatto che Whatsapp e la stessa azienda produttrice siano in grado di valutare se l’utilizzo di quel segretissimo software creato per spiare vittime ignare, sia più o meno etico.
Il cittadino medio, forse, non avrebbe neanche avuto modo di capire se, come sembrerebbe, un’importante procura – di certo più solerte oggi che quarant’anni fa – abbia davvero incautamente consegnato ai giornali un’informativa riservata dei Servizi. E non parlando l’inglese, è quasi certo che avrebbe avuto poche opportunità di capire quali soggetti, soprattutto tra i giornalisti, siano stati spinti, con i soldi dei contribuenti americani, a promuovere disinformazione e instabilità nel belpaese e nel mondo. In questo mondo senza eroi e di guerra fra bande – Jonathan Heidt le chiamerebbe “menti tribali” – qualche giorno fa Piero Marrazzo ha presentato il suo ultimo libro – Storia senza eroi (Marsilio, 2024).
Ritrovato l’abbraccio caloroso di molti compagni, pochi dei quali furono in verità altrettanto calorosi e solidali all’epoca, il giornalista ha ripercorso alcune tappe della sua personale vicenda, invocandone la derubricazione da “caso Marrazzo” a “caso dei carabinieri infedeli”. Precisazione opportuna, viste le pesanti condanne con sentenza definitiva inflitte ai tre rappresentanti delle istituzioni che tentarono di ricattarlo. Non è chiaro se Marrazzo indugi nel libro su quanto ha lasciato trasparire nel corso dell’incontro, interamente registrato da Radio Radicale: ovvero che si trattò di una trama ordita a suo danno in ragione dei provvedimenti politici – adottati o in via di adozione – su tematiche delicate come la sanità e lo smaltimento dei rifiuti. Lo scandalo sessuale sarebbe stato semplicemente l’artifizio più efficace per garantire gli ingranaggi del sistema, divergendo l’attenzione dei benpensanti borghesi e dell’opinione pubblica. Seppur priva di elementi fattuali concreti, la maliziosa lettura non si può escludere a priori: a giudicare quantomeno dal fatto che la politica, dalla prima repubblica a Berlusconi, ha spesso agito sotto il fuoco costante della minaccia e del ricatto, anche di altri poteri democratici.
Marrazzo, è doveroso precisarlo, non fa mistero dei suoi errori e delle sue debolezze, tollerabili all’uomo e imperdonabili all’esponente istituzionale. Così come individua delle curiose analogie tra le sue vicende personali e le complesse dinamiche familiari del suo albero genealogico, ampiamente descritte nel libro e che lasciamo alla curiosità del lettore. Ciò che invece è mancato completamente nell’interessante analisi personale e generazionale, vista la calorosa accoglienza e gli applausi convinti della sala, è l’evidente nemesi storica di una sinistra italiana, incapace di resistere alle sue stesse evocazioni, moderna Cassandra, o più propriamente, implacabile Crono che divora tutti i figli, anche i migliori, della Patria.
Sarebbe dunque interessante, come ha fatto Marrazzo pro domo sua, iniziare a riscrivere la storia d’Italia a partire dalle verità accertate dalle sentenze di Cassazione. Al contrario, oggi come allora, i mezzi di informazione e l’opinione pubblica, in particolare quella vicina alle idee politiche dell’ex governatore del Lazio, fanno dell’anticipazione della colpevolezza e della gogna mediatica il principale strumento dell’azione politica, creando i presupposti per quel ludibrio e quell’oblio che l’uomo Piero Marrazzo descrive dolorosamente nelle sue pagine. Ci vorrebbe probabilmente una rivoluzione, prima del pensiero e poi della società. Anche se non può che venire in mente una frase di Leo Longanesi: «In Italia la rivoluzione non si può fare, perché ci conosciamo tutti».