La crisi occupazionale in Italia ha raggiunto picchi inimmaginabili, rendendo lo slogan entusiastico di Romano Prodi – lavoreremo un giorno in meno – una ottimistica profezia. A fare i conti con la mancanza di impiego sono soprattutto i giovani, i quali oscillano, a seconda della fascia anagrafica di riferimento, tra l’essere il 9 e il 12 % della popolazione. Fra di loro, circa il 23% è disoccupato. Certo, non siamo ai livelli del Sudafrica, che nel 2021 ha fatto registrare uno strabiliante 64%, ma è comunque un numero importante se si considera il trend in costante aumento. La mancanza di occupazione dei giovani porta fatalmente ad una reazione a catena che ha importanti ricadute, ovviamente, anche alcuni dei principali indici di problematicità dell’Europa contemporanea: il crollo dell’indice di natalità, (che nel nostro Paese ha raggiunto l’invidiabile tasso di 1,25 per donna); ma anche l’incremento dei disturbi depressivi (un dato ISTAT, sicuramente, per sua stessa ammissione, sottostimato, parla di un 5.4% della popolazione italiana dai 15 anni in su).
Tralasciando le situazioni in cui non vi sia effettivamente la possibilità di lavorare, ed è purtroppo una casistica non così rara, e senza entrare nel merito di fattori esterni che possono aver concorso a creare una situazione così preoccupante, si può osservare la concomitanza di diverse spinte che fanno prendere ai giovani la scelta di ritardare l’entrata nel mondo del lavoro. C’è ovviamente la questione dell’incertezza. Secondo un report dell’INPS, il 23% dei lavoratori guadagna meno di 780 euro al mese, con un’inflazione galoppante e i prezzi che andranno ad alzarsi sempre di più, almeno nel prossimo anno. Un dato che fa il paio con quelli dell’Osservatorio Diritti, che a Ottobre 2022 ha evidenziato come in Italia sia aumentata l’occupazione totale (che resta comunque la più bassa nell’UE) ma che questo incremento riguardava principalmente gli Over 65. L’età media del lavoratore italiano, sempre secondo i dati di questo studio, sarebbe aumentata vertiginosamente, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui il 40% della forza lavoro italiana è over 50. Si può considerare inoltre significativo l’incremento dei contratti part-time involontari, ovvero quelli non esplicitamente cercati dal lavoratore, come un dato indice della scarsa qualità (in termini di soddisfazione economica dei bisogni) della posizione lavorativa occupata. Una situazione per niente allettante che va in concomitanza con situazioni contrattuali ai limiti del paranormale, con la meccanizzazione della catena produttiva e con il ben noto problema della concorrenza al ribasso della forza lavoro. Tutti fattori, questi, che contribuiscono a creare un’immagine non particolarmente idilliaca della situazione lavorativa.
Ma soprattutto è il costo della vita il nodo principale: secondo un’indagine a cura dell’associazione Consumerismo No Profit, i prezzi di beni e servizi si sono gonfiati, arrivando addirittura a triplicare, dal 2001 ad oggi, mentre gli stipendi sono rimasti indietro. Questo porta ovviamente a una cesura importante tra ciò che il mercato promette e ciò che è la realtà, con moltissimi giovani che si trovano spaesati per il fatto che il mondo del lavoro non sia affatto come lo avevano immaginato, ovvero l’inizio della loro indipendenza economica. L’immagine principe dell’etica del capitalismo ha sempre evidenziato come l’indipendenza nel senso di realizzazione dell’individuo, uomo-lavoratore, fosse una conseguenza naturale del suo inserimento nel mondo del lavoro. Qualunque fosse la condizione di partenza e, soprattutto, qualunque fosse il lavoro, la laboriosità e l’intraprendenza erano qualità assolutamente ben riguardate, con una paradossale consequienzialità tra ingresso nel mondo del lavoro e libertà. D’altronde, l’individuo capitalista impara a fare economia lavorando quando i soldi sono i suoi ed impara a scegliere oculatamente tra necessità e consumo ostensivo. Se questo modello è stato, in linea generale, vero nelle generazioni post-boom economico, già i nati a metà degli anni ’80 si trovarono davanti a un profondo stravolgimento del mercato del lavoro e del sistema economico-finanziario in generale, che ha causato, nel caso specifico del nostro Paese, più danni che benefici. L’ascesa del modello neoliberista di mercato e le nuove forme di smart economy, e questo è evidente, non sono stati recepiti in maniera ottimale nel nostro Paese.
Una delle risposte più semplici che ci si è provati a dare è quella dell’educazione: i giovani a scuola imparano cose che non servono. Il modello neoliberista non può che andare ad allargare lo iato tra formazione scolastica e preparazione skill-oriented. Tale risposta dovrebbe favorire le soluzioni ibride, già spinte all’inverosimile dal rifiuto della scuola tradizionale e dalla sua colpevolizzazione. Sono tutti d’accordo nel riferire come studiare Cicerone o Poliziano non sia una skill immediatamente spendibile nel mondo del lavoro, ma è altrettanto vero che l’Alternanza Scuola-Lavoro non ha portato risultati migliori, anzi. In 20 anni, dal 2001, il MIUR ha varato ben 4 riforme della scuola, tutte estremamente criticate, con il risultato di saccheggiare i fondi delle scuole pubbliche e di saturare completamente le vie d’accesso all’insegnamento per i laureati. La stessa Alternanza non ha fatto nulla di concreto – anche se forse è presto per valutarne l’impatto – se non evidenziare le condizioni critiche della sicurezza sul posto di lavoro e il problema delle manutenzioni infrastrutturali.
Ma forse la ragione per cui nel nostro Paese il modello della nuova smart economy non attecchisce ha radici più profonde. L’assioma del modello neoliberista sul mercato del lavoro è più sottile del suo antenato e si fonda su una presunta necessità di correlazione fra le offerte occupazionali e la libertà di scelta, imperniata su criteri di razionalità, del singolo individuo. L’esercizio di tale scelta è necessario, ma ogni individuo va invogliato a scegliere una posizione piuttosto che un’altra. In una tale versione della realtà, i lavoratori sarebbero innanzitutto consumatori di pubblicità, vittime inconsapevoli degli artisti della comunicazione. Le moderne campagne di recruitment delle aziende, con richiami continui alla costruzione di team, alla formazione di rapporti umani e alla volontarietà di sottoporsi all’iter selettivo, hanno tutta un’altra forma rispetto all’idea di lavoro tradizionale. Guardando uno di questi annunci, un lavoratore può avere l’impressione di stare per accettare una nuova filosofia di vita, più che scegliere il proprio posto di lavoro. Il giovane, o anche – purtroppo – il meno giovane che si approccia oggi al mercato del lavoro mette in mostra le sue skills, recita la parte del proattivo, diventa pubblicitario di sé stesso rendendosi più appetibile possibile, in una ripetizione parodica del mercato stesso. I recruiter, spesso criticamente iperspecializzati per il tipo di lavoro che sono chiamati a fare, controllano i CV e le lettere di presentazione come si controllano le etichette di diversi shampoo.
Ovviamente ciò resta relegato all’ambito dell’iniziativa privata: nella pervasiva filosofia neo-liberista lo spazio pubblico è un framework di reti che si intersecano, è il punto di contatto degli stakeholders delle diverse varietà lavorative, è un rama appaduriano – in linguaggio meno antropologico e più politico – è una convention (che vale sia per convenzione che per convegno), è la piazza del mercato. Una visione dello spazio pubblico – dello Stato – come la mera somma degli interessi di diversi privati lo rende infinitamente più flessibile, ma lo depaupera della sua agentività intrinseca, accordandogli un’esistenza subordinata agli interessi delle sue parti. In una realtà statale che prende la forma di un’azienda – o di una zaibatsu, o di un conglomerato – il cittadino è tale in quanto lavoratore. E lo Stato funziona solo come “arbitro” di questi incontri in cui, con un inversione che Bataille definirebbe feticistica, il lavoratore è – esso stesso – merce da mettere in mostra e lo Stato fa da banditore d’asta.
Ovviamente ad ogni lavoratore ideale, indipendentemente dalla sua età, è richiesta la completa elasticità: la disponibilità a cambiare “padrone”, la possibilità di mettersi in gioco in altre mansioni, l’imparare nuovi modelli di interazione sociale a seconda della turnazione lavorativa, la reattività al cambiamento. Forse la resistenza a questo tipo di modello può essere letta, romanticamente, come gli ultimi fiati del Volksgeist italiano – se ha ancora senso parlare di Volk ma soprattutto di Geist nel 2023 -. Uno spirito “popolare” nella sua vera e profonda accezione: campanilista, localista e diffidente, pigramente gattopardesco come solo il nostro Paese sa essere. O forse le precondizioni strutturali di questo modello di mercato non si amalgamano bene con la realtà italiana, forse da qualche parte, nei quadri decisionali dell’Unione Europea, si preferisce mantenere i Paesi come Italia e Grecia in uno stato di crisi governabile continua, in modo da poter costituire un bacino pressochè infinito di forza lavoro a basso costo per gli altri Paesi dell’Unione.