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Il crepuscolo della filosofia

Ne "La morte del sole" Manlio Sgalambro osserva, dal punto di vista di una società in piena "crisi dei valori", la storia filosofica occidentale, alla ricerca della verità.
Ne "La morte del sole" Manlio Sgalambro osserva, dal punto di vista di una società in piena "crisi dei valori", la storia filosofica occidentale, alla ricerca della verità.
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La storia dell’umano è la storia del pensiero umano dispiegato, dell’azione di questo sulla realtà e della costruzione, evoluzione e decadenza della civiltà in concomitanza al tramonto del suo pensiero filosofico. Il pensiero filosofico più vitale dell’ultimo secolo è la consapevole certezza di una fase terminale. Posti come indistruttibili pilastri al limitare del grande fiume in secca della storia, si sono posti i grandi pensatori del processo irreversibile. Audace interprete dell’angoscia crescente e insopprimibile che accompagna i bagliori del crepuscolo umano è stato certamente Manlio Sgalambro.

Per molti anni collaboratore e coautore di alcuni testi delle canzoni di Franco Battiato, al quale fu unito da una sincera stima ed amicizia, è l’autore del monumentale La morte del Sole, ripubblicato per Adelphi nel 2023. Il testo viene definito da Giuseppe Raciti, uno “zeppelin che solca i cieli italiani dei Cacciari e dei Vattimo”, erede spirituale di Spengler e sua ideale continuazione filosofica.

La morte del Sole è la constatazione di un incubo. Comincia con una consapevolezza: ogni filosofia è sola:

«Tra una filosofia e un’altra non esiste seriamente legame; i nessi che la storia vi trova sono come le catene che legano il prigioniero, ma il suo spirito è lontano. Il passaggio dall’una all’altra, che lo storico effettua schioccando le dita, è solo l’illusione del movimento che lui stesso vi proietta»

La filosofia è lampo improvviso, slegato, svincolato dagli altri. Spesso e in alcuni autori costituisce uno squarcio attraverso il velo dell’esistenza. Uno squarcio che apre al caos, che ne assorbe tutto il gigantesco peso. Ridotta ad oggetto di cultura, ad insegnamento scolastico, essa smarrisce per Sgalambro lo slancio iniziale. Diviene altro da sé. La filosofia non è formazione. Non è unità tra conoscenza e bene, ma è un oggetto che perverte, inganna, conduce ad una verità che è radicata nell’uomo e contribuisce ad annientarlo. Fortissima è l’influenza di Schopenhauer (e del nostro Leopardi) sul pensiero del filosofo siciliano. Una filosofia del buio e dell’incommensurabile oltre il velo di Maya:

«Ferocia, crudeltà, delitto, che il malvagio perpetra, è come se non provenissero da lui ma manifestassero quel buio totale che avvolge le cose, da dove si insinuano nella vita le potenze cosmiche – e l’atto del malvagio datore di morte non sembra diverso da ciò per cui tutti moriamo»

La verità arride laddove non vi sono accordo, armonia e successo. Laddove l’ordinario cede il posto al caotico e alla notte. Giunta al suo compimento, la civiltà è sempre più in grado di contemplare tali elementi. Il mondo viene concepito e contemplato come caos. Il regresso è il progresso stesso di tale civiltà. Eppure i filosofi progressisti hanno spinto verso l’eliminazione di ogni paura. L’eliminazione della paura fa eco al senso della suprema espressione della Zivilisation: la matematica posta a direzione e alla guida dell’esistente.

I numeri sono ciò che resta delle idee platoniche. Poste alle origini, divengono in Sgalambro simboli di una fine. Linguaggio smaterializzato che si fa universale, intelaiatura fatta di algoritmi, statistiche, informatica ed economia, la matematica permea il cosmo, disumanizzandolo. Introduce la precisione, laddove l’umano sembra in continua difficoltà e non sa gestire i propri demoni. A poco serve avere fiducia in una filosofia della scienza che è maschera dell’orrore già disvelato, quello della fine del mondo:

«Per la fisica il senso del mondo è nella fine. Lo sguardo che si affida alla fisica vede le cose dal punto di vista della loro fine. Si inverte così l’atteggiamento fondamentale dell’individuo. Alla luce della fisica, non l’origine, ma la fine è la meta. Il vedere tutto alla luce di essa, già distrutta la vita, ogni cosa in una eterna quiete, è vederlo come un giorno apparirà»

Il mondo della fisica è promessa di un annientamento già annunciato. A tale annientamento si associa il trionfo della negazione della vita, introdotto dalla tecnica. La vita viene sostituita dal gelo della macchina. Come con la matematica, giunta come simbolo funebre, la tecnica si affaccia sul mondo che guarda intimorito alla preannunciata “morte termica” dell’universo. L’organico si fa inorganico e ammette la miseria dell’umano:

«La condizione scientifica è la condizione di esseri miserabili che sanno la loro miseria»

Miseria che è anche miseria sociale. La volontà del vivere collettivo si fa rappresentazione e come tale viene studiata dalla nascente sociologia. Ancora una volta riecheggia Schopenhauer nelle parole di Sgalambro quando osserva l’amore borghese, che da forza e pulsione vitale si tramuta in promessa di conformismo:

«Di fronte a due che si amano, la volontà sociale si frega le mani: ormai vi tengo, essa dice. Avrete cura l’uno dell’altro e quindi lavorerete; vorrete dei figli e quindi accumulerete; vorrete per voi e per essi una vita “migliore” e quindi non guarderete in faccia nessuno. Vi tengo, vi dico. Non siete voi che così disponete, ma io»

Tali considerazioni non si rivolgono però al rapporto sociale, quanto alla società in sé. L’uomo, caduta la società, è un bersaglio indifeso. Diviene uomo “impunemente”. La compassione che si realizza nel rapporto sociale è la “social catena” leopardiana di un’unica grande e umana sofferenza. Come scrive Raciti nel saggio Per la critica della notte, è nella contemporaneità degli stati finali della civiltà che l’uomo, libero della propria scorza biologica ridotta ormai a puro inorganico, si riscopre “morente”. Un morente che è pura anarchia. Un uomo che solo in questo modo si associa e si consola. Un “comunismo” dei morenti che è lo sguardo disilluso della Ginestra di Leopardi. Sintomo non tanto e non solo di una senilità estrema, quanto piuttosto di una morte già avvenuta. La società si irrigidisce fino a scomparire. L’artifizio sostiene e scherma dal dolore. L’individuo si fa atomo in un contesto liquefatto: «La forma, una volta venuta meno la necessità interna che la univa in un tutto e la giustificava, si scioglie da ogni vincolo e comincia il suo processo di disintegrazione, di dissoluzione.» scrive nel Declinare del mondo Di Dario, immaginando di scrivere una lettera proprio a Sgalambro. 

D’altra parte, la condizione della decadenza è anche condizione di accresciuta consapevolezza. Di compassione e di comune, umana sofferenza. Nel mare in tempesta in cui si è trascinati, volenti o nolenti, si deve restare immobili, lasciandosi trascinare con coraggio, impassibili al richiamo di ogni futile porto, come già scrisse Michelstaedter nel poemetto I figli del mare:

«Senia, il porto non è la terra

dove a ogni brivido del mare

corre pavido a riparare la stanca vita il pescator.

Senia, il porto è la furia del mare,

è la furia del nembo più forte,

quando libera ride la morte

a chi libero la sfidò»

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