Lo scorso 3 novembre Maria Teresa Carbone ha intervistato Goffredo Fofi per un’inchiesta sulla funzione del giornalismo culturale in Italia, nella rivista online Le parole e le cose.
L’ultra ottuagenario intellettuale engagé utilizzando una terminologia sarcastica, scendendo anche nel turpiloquio, ha affermato che in questo preciso contesto in Italia gli unici portatori di prodotti culturali sono le riviste e il giornalismo a discapito dell’Accademia. A riguardo dell’accademia, citiamo direttamente quanto detto da Fofi, «[L’Università] si è tagliata la lingua, il naso e le palle, e produce una delle peggiori classi dirigenti del mondo».
Quanto dichiarato da Fofi sembra essersi fenomenologizzato in occasione della sottoscrizione di una petizione da parte di più di quattromila docenti e assegnisti di ricerca dell’Università italiana i quali hanno rivolto alla ministra dell’Università e della Ricerca Annamaria Bernini, qui è la singolarità del documento, ovvero nel richiedere di interrompere qualsiasi rapporto di collaborazione di ricerca con atenei ed enti di ricerca israeliani. La richiesta, rivolta anche al ministro degli Esteri Antonio Tajani, è quella d’interrompere le operazioni militari da parte israeliana su Gaza. I relatori del testo danno anche una ricostruzione storica dell’evento, inquadrandolo in un processo causa-effetto da cui si evince la totale responsabilità di Tel Aviv per la condizione del popolo palestinese.
Scorrendo l’elenco dei firmatari, emerge l’importante numero di docenti e ricercatori afferenti a dipartimenti di scienze umanistiche, come ha riportato Orsola Riva nell’articolo L’appello contro le università israeliane che divide docenti e ricercatori italiani pubblicato sul Corriere della Sera del 12 novembre. Tra i firmatari risultano esservi ricercatori di fama internazionale per l’attività scientifica svolta, come l’arabista Isabella Camera D’Afflitto, già professoressa ordinaria di letteratura araba e moderna presso l’Istituto italiano di Studi Orientali de La Sapienza, l’africanista Itala Vivan, massima esperta italiana di letteratura post-coloniale, curatrice di innumerevoli titoli di romanzi dei maggiori scrittori africani, e Paolo Matthiae, archeologo e professore emerito di Archeologia presso La Sapienza, scopritore della città di Ebla in Siria.
La petizione fa seguito alla lettera fatta da centocinquanta docenti dell’Alma Mater Studiorum di Bologna al Rettore, in cui si chiedeva una presa di posizione in favore del popolo palestinese, oltre ad una richiesta di cessate il fuoco e la condanna, da parte del Senato accademico, dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Nella lettera, pur sostenendo l’innocenza delle millequattrocento vittime israeliane morte durante l’attacco di Hamas, non veniva condannata tale azione come atto terroristico. Il rettore Giovanni Molari aveva replicato alla lettera assumendo una posizione equidistante tra i due schieramenti belligeranti: «Il nostro pensiero accurato va a tutte le vittime e che l’unanime auspicio delle nostra comunità è la pace». La dichiarazione di Molari era sulla stessa linea di quella precedentemente espressa dalla Crui (Conferenza dei rettori delle Università italiane), dove veniva condannato ogni tipo di conflitto bellico, di fatto non prendendo nessuna posizione.
Tali posizioni assunte dagli accademici italiani riflettono o meglio sono influenzate dalle petizioni che ci sono state, fin dai primi giorni del conflitto, nelle università statunitensi. In primis quella dell’Università di Harvard, la regina della Ivy league a stelle e strisce, che con una lettera aperta da parte di trentatré gruppi di suoi studenti viene imputata allo Stato d’Israele la totale responsabilità per il conflitto. L’attuale rettrice di Harvard, Claudine Gay, in una sua dichiarazione dopo la lettera degli studenti, ha condannato l’attentato di Hamas del 7 ottobre ed espresso il cordoglio per le vittime, prendendo distanza dalla lettera degli studenti, sostenendo che quanto scritto non rispecchiava l’opinione dell’intero ateneo. Questa lettera ha scatenato negli Usa un acceso dibattito pubblico, al contrario che in Italia, cui si sono inseriti anche diversi politici statunitensi, tra l’altro alumni dell’ateneo, come Larry Summers, membro del Partito Democratico statunitense, Segretario del tesoro sotto la seconda amministrazione Clinton e già rettore di Harvard, oltre al senatore repubblicano Ted Cruz. I due esponenti politici, oltre a condannare la presa di posizione degli studenti, hanno anche criticato la rettrice perché, a detta loro, troppo accomodante con gli studenti pro-Palestina.
In Italia, a maggior ragione, la petizione dei quattromila ricercatori si pone in totale antitesi con lo scopo fondante delle Università, ovvero quello di superare la collocazione geografica di ogni singolo ateneo, sia ideologico che politico, in cui la stessa comunità umanistica è la prima forma di confronto interculturale e interlinguistico. Appare evidente che l’istruzione universitaria è un luogo in cui per forza si devono concentrare le diversità, come sosteneva Umberto Eco nell’opuscolo Perché L’Università?. Proprio l’ex rettore dell’Alma Mater, il classicista Ivano Dionigi, nel libretto Osa sapere, pubblicato nel 2019 in tempi non sospetti, in un capitolo dedicato alla funzione dell’università ha scritto che proprio al suo interno il conflitto che deve entrare, ed essere accettato, è quello delle idee, in cui lo scontro deve essere portato avanti attraverso il logos – la parola. Senza barricarsi dietro il rifiuto della dialettica, si potrebbe aggiungere.
Ma il problema della censura nelle università italiane sembra essere ben presente all’interno dell’ideologia collettiva degli atenei, che scorre come un fiume carsico sotto le fondamenta e che riemerge in occasione di contesti geopolitici particolari, come quando il 2 marzo del 2022, dopo poco più di una settimana dall’inizio del conflitto russo-ucraino, l’Università Bicocca annullò un ciclo di seminari, un totale di quattro lezioni, di Paolo Nori su Dostoevskij. Un triste episodio da tutti ricordato.