Da queste parti, tempo addietro, si accennava alla scomparsa, o per meglio dire assenza, di un vero dibattito politico e culturale circa i tempi che corrono. Specie per come si è andato a definire il discorso pubblico dall’avvento dei social media in avanti. Una banalità su cui la fiera delle lamentazioni indugia fin troppo ma che, proprio per la sua intrinseca condizione di dato di fatto (nella realtà, il segno di una patologia grave che da tempo sta presentando il conto), ci obbliga a fare chiarezza.
Infatti, l’assunto di base di quell’articolo era tanto semplice quanto drammatico. Se, da una parte, “l’ansia da sondaggio” pare aver risucchiato i partiti in un gorgo di sola ricerca del consenso, ormai sempre più effimero, essendo venuta meno, al contempo, la loro capacità di proporre una visione complessiva del mondo; dall’altra, la classe intellettuale, ancorché priva dell’autorevolezza che un tempo gli era riconosciuta, è stata progressivamente svilita e vissuta come un ingombro superfluo.
A fondamento di queste riflessioni, si pone il saggio Senza intellettuali (Laterza, 2023), con cui Giorgio Caravale, docente all’Università di Roma Tre, ha voluto tracciare una breve storia dei rapporti tra politica e cultura degli ultimi trent’anni: dalla crisi del modello gramsciano al craxismo, dall’intellettuale ad personam agli anni del cosiddetto populismo, fino all’attuale condizione di una politica alleggerita dal fardello del passato, che seguita a produrre narrazioni schiacciate sull’unica dimensione che conta, quella presente. Il quadro che ne emerge aiuta a comprendere l’evoluzione della figura dell’intellettuale in questi anni di crisi. Su cui, pertanto, concentreremo la nostra attenzione.
Nella disamina dell’autore, il vero elemento di rottura con il passato riguarda l’improbabile convivenza di due diversi modelli all’interno del medesimo sistema di riconoscibilità. Difatti, a fronte di chi «prova a spendere nel mondo della comunicazione la credibilità e la legittimazione ottenute nell’ambito di istituzioni tradizionali come università, case editrici, carta stampata, si affianca oggi una figura che, nata e cresciuta all’interno del mondo dei nuovi media, viene anch’essa investita di una funzione intellettuale».
Personalità influenti come Zerocalcare, definito L’ultimo intellettuale nel 2020 da L’Espresso, allora diretto da Marco Damilano, o il rapper Fedez, più che mai “impegnato” e politicamente attivo, ad esempio nella campagna per l’approvazione (mancata) del disegno di legge Zan, «scandiscono il tempo di una nuova disordinata orizzontalità che destabilizza la figura tradizionale dell’intellettuale, proponendo un inedito modello all’insegna di un malfermo, provvisorio equilibrio tra autorevolezza e popolarità, e di una costante (ri)negoziazione dei suoi spazi espressivi».
Inutile sottolineare quanto gli stessi social media abbiano generato per un verso l’apertura all’opinione di chiunque senta l’esigenza di esprimersi senza vincoli di sorta, per l’altro una preoccupante frammentazione, laddove sono proprio le forme partecipative delle piazze digitali ad aver ridotto, “spezzato” il dibattito in temi specifici, tralasciando visioni più ampie e articolate. La conseguenza è che anche «l’intervento pubblico di influencer, attori, cantanti celebrità dello sport e dello spettacolo, oggi dotati di milioni di followers disposti a seguirne i gusti e i suggerimenti, non si traduce più, come in passato, nel sostegno di un partito politico o di un candidato. Si manifesta piuttosto in esternazioni riferite a singole questioni, generalmente legate ai diritti individuali (come cannabis, eutanasia) o ai temi identitari (etnia, genere, orientamento sessuale), argomenti sui quali è più semplice schierarsi, più facile esprimersi a favore o contro senza approfondire troppo la complessità del tema stesso».
Orizzontalità, condivisione, capovolgimento delle gerarchie: espressioni su cui abbiamo modellato i nostri comportamenti. Che, analogamente, rievocano una stagione lontana (ma non molto) della storia d’Italia. Parliamo degli anni ’70. Le recenti pubblicazioni di libri (Generazione 70 di Miguel Gotor; Dolore e Furore di Sergio Luzzatto), film (La scuola cattolica di Stefano Mordini) e serie TV (Rapito di Marco Bellocchio) hanno riacceso, con tutta evidenza, l’interesse nei confronti di un periodo che, ancora oggi, vuole essere interrogato. Senza strumentalizzazioni né etichette di comodo, vedi quella di “anni di piombo”, insufficiente a racchiuderne la complessità. Come nel caso dell’anno maggiormente contradditorio dell’intera decade, il 1977. Vero e proprio laboratorio (in cui «la luce tragica del secolo prende il sopravvento», secondo Franco ‘Bifo’ Berardi) durante il quale un grande movimento giovanile di contestazione, soprattutto nelle città di Bologna e Roma, tra occupazioni, cortei, assemblee, manifestazioni, decide di prendersi la scena, la famosa “scalata al cielo”, tentando di portare a compimento un processo, già iniziato nel ’68, di radicale trasformazione della società italiana. Tuttavia, per una frammentazione dovuta alle tante anime interne, il Movimento, nato con una elevata dose di spontaneismo, già nel settembre di quell’anno verrà riassorbito dalla galassia dei partiti a sinistra del PCI ed esaurirà la sua spinta propulsiva. (Tutto questo, a pochi mesi dal rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, che sancirà la fine della stagione più movimentista e creativa e l’inizio della recrudescenza terroristica).
Tantissime le ragioni del conflitto: accanto alla lotta contro il Capitale e le trasformazioni, intraviste già allora, di un mondo del lavoro sempre più precario, sulla scorta del vangelo marxista, vi è anche quella contro i persistenti vincoli gerarchici e patriarcali propri della realtà sociale italiana. A essere messo in discussione è un sistema di potere percepito come antagonista e irriformabile, votato alla sola perpetuazione di sé stesso, per mezzo di istituzioni tanto conniventi quanto antiquate. In Generazione 70 (Einaudi 2022), lo storico Miguel Gotor, a riprova di quanto detto, menziona gli episodi della famigerata “cacciata” del sindacalista Luciano Lama dall’Università di Roma e l’aggressione al sociologo Franco Ferrarotti, «che si era opposto all’uso, ormai invalso, tra gli studenti, di reclamare in sede di esami il ’27 politico’ sotto la minaccia delle armi e di violenze fisiche», per concludere, lapidariamente, che il Settantasette nel suo complesso «si caratterizzò per essere meno colto, più plebeo e violento, formato in prevalenza da studenti precari e lavoratori part-time, e con una scarsissima interazione con gli operai rispetto al precedente movimento. Non un fratello minore del Sessantotto, dunque, che si diffuse a livello mondiale, ma un’esperienza soprattutto italiana, con una pluralità territoriale assai pronunciata e con una sua specifica autonomia culturale, politica e sociale, risultato di una difficile transizione».
Del resto, la controcultura alternativa e underground prodotta dal movimento è paradigmatica di questa alterità. Raduni come quelli organizzati dalla rivista Re nudo, l’esplosione delle radio libere, la nascita del Punk, le riviste di taglio satirico e politico come Il Male, Cannibale, Frigidaire: sono esperienze che rappresentano il tentativo di una trasformazione profonda sul piano dei linguaggi espressivi, mediante i quali scardinare la cultura “ufficiale”, naturaliter oppressiva, e abbatterne le gabbie verticistiche.
Secondo il poeta e saggista Nanni Balestrini (1935-2019), che di quegli anni può considerarsi testimone d’eccezione:
«I soggetti del movimento tendevano a non rapportarsi più da utenti e consumatori dei prodotti culturali degli intellettuali ma cominciavano essi stessi a costruirsi strumenti comunicativi: decine di giornali, riviste, etichette discografiche, case editrici, radio […] fu proprio la caratteristica di quel movimento, che univa una forte radicalità politica a una produzione creativa e culturale autogestita, a determinare un allontanamento dai suoi percorsi di altri settori di intellettuali. Solo per chi era in diretto contatto con quelle nuove realtà di movimento poteva darsi possibilità di comprensione e quindi di dialogo, per tutti gli altri c’era solo lo “scemo scemo” a sottolineare l’assurdità della pretesa di perpetrare uno status di separatezza della funzione intellettuale che non aveva più alcuna ragione di esistere»
– Settantasette, Nanni Balestrini, DeriveApprodi, 1997
Un processo, ancorché agli albori, di democratizzazione culturale che ha avuto l’effetto di svuotare ruoli e funzioni di un ordine gerarchico giunto al tramonto. Ecco cosa ha rappresentato il ’77. Solo in seguito, da tale sovvertimento vedrà la luce un sistema nuovo di relazione con il sapere, di ri-gerarchizzazione senza più il volto austero dell’Ancien Règime. Anche se in forme non previste, pur sempre una rivoluzione, di cui oggi vediamo avverarsi la sciagura. Se si vuole cogliere, dunque, l’origine di quel disprezzo per i “professori”, quell’antintellettualismo da cui siamo partiti (raccolto e portato a termine dalla politica), occorre guardare ai banchi del DAMS di Bologna in cui, durante un’assemblea studentesca, cerca di prendere la parola, invano, uno dei docenti: Umberto Eco (nel celebre scatto del fotografo embedded Enrico Scuro); oppure all’atteggiamento irrisorio di una parte considerevole della gioventù di allora nei confronti di scrittori, filosofi, giornalisti, ritenuti degli avversari politici da mortificare, quando non da “silenziare” (si recuperino, in questo senso, le inchieste de L’Espresso, che sul ’77 ebbe posizioni diverse e contradditorie).
La verità è che a delegittimare la cultura, ben prima dei politici, ci ha pensato la società nel suo complesso, convinta di potercela fare senza il suo aiuto. Da cui l’appiattimento del modello attuale e il difficile equilibrio tra autorevolezza e popolarità, sempre sul punto di implodere, che condiziona l’agire di chiunque ricopra un ruolo intellettuale. Si dice sempre che, più delle risposte, conta farsi le domande giuste: allora, data la situazione, da dove bisogna ripartire per debellare la pregiudiziale che tiene avvinti gli attori di questo dibattito tutto da immaginare?