L'editoriale

Senza epica e senza estetica

Non siamo in guerra, ma siamo prigionieri di un frame che usa un linguaggio bellico e che ci porterà al suicidio sociale collettivo.
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Ospedali che diventano “trincee”, infermieri “disarmati”, medici “in prima linea”, piani economici di emergenza, “militarizzazione” degli spazi, droni di sorveglianza, bollettini funebri che ogni giorno annunciano il numero di contagiati e di morti. Poco più di 20mila deceduti per Covid-19 ovvero lo 0,025 per cento sul totale di 60 milioni di italiani cioè, al momento, ciascuno di noi avrebbe 0,025 probabilità di morire. Non siamo in guerra, è peggio di così. In realtà siamo prigionieri di un frame che usa un linguaggio bellico contro un nemico invisibile, non dichiarato, che si infiltra, muta, si aggira negli strati sociali della comunità, uccide civili innocenti, tanti, ma niente di paragonabile in fondo al costo di vite umane dei veri teatri di conflitto, quelli dove si combatte ancora oggi, armi alla mano sul fronte e con autobombe parcheggiate nelle grandi città. Dove i ragazzi interrompono gli studi per anticipare la leva, i villaggi e le città si ritrovano con sole donne e bambini perché gli uomini sono tutti sul campo di battaglia, dove ogni famiglia ha già celebrato almeno un funerale, e dove le razioni di cibo quotidiano sono limitate.

Ricordo quando viaggiai ad Aleppo, negli anni più violenti della guerra in Siria, era il 2016. La strada era chiusa ai civili, viaggiare da una città all’altra, per i siriani, non era vietato ma impossibile a causa dei checkpoint che controllavano tutte le vie di comunicazione. Aleppo, per chi riusciva ad arrivarci, era una vera e propria prigione a cielo aperto in cui mancava l’aria, strangolata dal clima di guerriglia urbana (eravamo in quella che noi oggi chiamiamo “Fase 1: sconfiggere il virus”). Si combatteva da un quartiere all’altro, si usciva poco per paura dei cecchini e quando lo si faceva si camminava il più veloce possibile. Ai primi tempi nelle case ci si vedeva con gli altri ma senza fare troppo rumore, nei bar ci si sedeva lontani dalle vetrate, per evitare le schegge impazzite durante le esplosioni. Poi col passare degli anni i più temerari, abituati al rumore dei bombardamenti e stanchi di quella vita impietosa, avevano deciso di sfidare la morte e convivere con il sentimento diffuso di paura.

La percezione della guerra non poteva ingoiare la vita di un’intera generazione. Così poco a poco, dopo qualche anno, nel pieno del conflitto, si riaprivano anche i ristoranti all’aperto e alcuni locali serali (“Fase 2: Convivere col virus”), frequentati in massa dai più giovani, e ogni volta che le raffiche di kalashnikov e i colpi di mortaio alzavano il volume, ci si alzava di botto, senza nemmeno pagare il conto, per rientrare di corsa a casa. E così tutti i giorni. I militari semplicemente stazionavano vicino ai luoghi di aggregazione per intervenire soltanto nell’attimo dell’evacuazione. Per il resto non esistevano auto-certificazioni, non c’erano ordinanze, leggi che impedivano gli assembramenti, poliziotti che multavano i clienti, droni che sorvegliavano le vie, app per smartphone che tracciavano gli spostamenti, semmai indicavano quelli dei nemici, i miliziani di Jabhat Al Nusra. Proprio in quel periodo, il presidente siriano Bashar al Assad definì la guerra come “una lezione durissima per qualunque società”. Era vero perché convivere con la paura di morire significava imparare il valore della vita, il senso del mutuo soccorso, la forza dell’unità.

In Occidente, ai tempi del Covid-19, nulla di tutto questo. Accanto ad un linguaggio bellico, si chiede alle persone di combattere una guerra senza epica né estetica, di rimanere chiusi in casa, sul proprio divano guardando serie su Netflix, in camera in smart working, o in cucina a preparare pranzi pantagruelici. Nel mondo virtuale è tutto uno sharing di fotografie, flash mob, e video virali, mentre nella realtà è una gara tra “guerrafondai” in tuta e pantofole che si nascondono dagli appestati della porta accanto; agenti del DPCM che richiamano all’ordine; spie improvvisate che denunciano dalla finestra passanti senza l’ultimo modello di mascherina, e applaudono il triste spettacolo andato in onda su Pomeriggio 5 di Barbara D’Urso che mostra la guardia di finanza in elicottero a caccia di cittadini a passeggio nelle spiagge come fossero dei delinquenti qualsiasi. Tutti adoratori dello “Stato di polizia” forte con i deboli, che durante le guerre convenzionali, quelle vere, in altri Paesi, contestano la “militarizzazione” dello Stato e il non rispetto dei diritti umani.

Ignari che il vero nemico non è il virus, ma la destabilizzazione sociale ed economica alle porte. Non a caso ad averlo capito in fondo sono gli stessi vertici che hanno elaborato quel totem incontestabile – già definito su queste colonne digitali ““decreto della paura” – consapevoli ormai che non è possibile curare tutti, fare abbastanza tamponi alla popolazione e rendere la società sicura, e dunque discutono di una seconda fase (“convivere col virus”, dicono). Proprio quando il numero di morti è praticamente lo stesso di molte settimane fa. È un gioco di percezione del problema, dunque, il problema stesso. Così a gestire la riapertura, l’esecutivo si è affidato a una task force di 17 esperti guidata da Vittorio Colao. E sarà, pare, graduale: «La data chiave è il 4 maggio, ma tra lunedì 20, 27 aprile e la settimana successiva si valuterà di riaprire, con i protocolli, i settori produttivi più esposti alla concorrenza estera che se dovessero rimanere chiusi verrebbero tagliati fuori dal mercato», si legge nelle prime bozze. Bar e ristoranti potrebbero riaprire il 18 maggio, probabilmente solo su prenotazione. Il campionato di calcio dovrebbe ripartire il 31 di maggio ma a porte chiuse. A Natale si tornerà al cinema e a teatro. A marzo 2021 anche in discoteca e allo stadio.

Insomma strana guerra quella in cui si passa più tempo a scrivere regole e decreti ai danni della popolazione che ad elaborare una strategia comune per combattere un nemico, seppur invisibile. Perché in guerra, dove si chiedono sacrifici, deve dominare l’anarchia (che non significa fare come ci pare, ma accettare la realtà e responsabilizzarsi, ognuno secondo le sue forze e possibilità), e non una una task force autoritaria di esperti che vuole toglierci i migliori anni della nostra vita, a colpi di multe e restrizioni. Altro che convivenza col virus, siamo di fronte ad una scelta di campo alternativa al suicidio sociale collettivo, che è molto peggio della guerra convenzionale e dell’immunità di gregge.

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