Gli ultimi drammatici anni di insicurezza globale, in cui la paura è tornata a dominare la vita di milioni di persone, hanno mostrato l’inconsistenza del dibattito pubblico italiano: tanto da un punto di vista politico, con i partiti ormai privi di una visione di sistema, quanto culturale, a riprova della scomparsa (salvo alcuni rari casi) di voci libere capaci di esercitare la propria funzione critica. In Antitotalitari d’Italia (Rubbettino, 2023) Massimo Teodori richiama l’attenzione su un tema di stringente attualità, ossia l’antitotalitarismo, inteso come rifiuto, anzitutto morale, di qualsiasi tentativo di concentrazione oligarchica del potere e riduzione delle libertà individuali.
In poco più di cento pagine, egli traccia una storia «dei leader, dei gruppi e dei movimenti che nella Repubblica hanno animato la scena politica: liberali e socialisti, radicali e cristiani, conservatori e riformatori». La prospettiva è quella di non soffermarsi sul pensiero politico stricto sensu, ma prendere in esame le vicende individuali di chi ha «praticato la politica antitotalitaria nella democrazia italiana del dopoguerra, indipendentemente dall’appartenenza partitica».
L’eccezionalità del caso italiano risiede nel non aver mai fatto realmente i conti con l’antitotalitarismo in quanto «il Partito comunista e l’intellettualità di sinistra sono stati, in buona parte, all’origine dell’emarginazione delle forze e degli esponenti antitotalitari che contrastavano gli autoritarismi d’ogni colore». Come il socialista Gaetano Salvemini che, nel giugno 1935 al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura tenutosi a Parigi, ebbe la “sfrontatezza” di opporsi a chi, convintamente, si faceva promotore del sistema sovietico, uno su tutti Andrè Gide; o il cattolico Don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare (futura Democrazia Cristiana) che aveva intuito, all’indomani della liberazione, quanti e quali segni avesse lasciato il regime fascista sulla società italiana e la necessità di “ricostruire” un Paese su ben altre basi politiche, certo non sul modello comunista.
Queste posizioni, provenienti da ambienti diversi, si cristallizzarono durante la Resistenza allorché ci fu una divaricazione in seno all’antifascismo con il PCI togliattiano, da una parte, e la galassia dei democratici, dall’altra (liberali, socialisti, cattolici, azionisti etc.). Uno scontro ideologico che si rafforzò negli anni del centrismo, dominato dalla figura di Alcide De Gasperi, e della cosiddetta Guerra fredda culturale, quando i due blocchi procedettero con il finanziamento di gruppi editoriali, istituzioni, soggetti più o meno influenti, chiamati alla delegittimazione del nemico.
Da parte sovietica «il Cominform lanciava in Polonia il Congresso mondiale degli intellettuali per la pace patrocinato da personalità come Julien Benda e Pablo Picasso, e tra gli italiani Emilio Sereni, Salvatore Quasimodo, Goffredo Petrassi e Antonio Banfi», cui l’Occidente guidato dagli Stati Uniti oppose il Congress for Cultural Freedom, costituitosi a Berlino nell’agosto 1950, «alla cui nascita contribuirono gruppi di intellettuali provenienti da diversi orizzonti, ex comunisti che avevano combattuto il fascismo, resistenti antinazisti, federalisti europei e reduci scampati ai gulag di Stalin».
A Roma, quale naturale prolungamento del Congress, nasceva l’Associazione italiana per la libertà della cultura (AILC) promossa da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, con l’appoggio di intellettuali dalle esperienze politiche le più diverse, come Guido Calogero, Mario Pannunzio, Adriano Olivetti, Ferruccio Parri, Ernesto Rossi e molti altri, i quali diedero a questa realtà la forma di un moderno think thank anticomunista. (Quando la guerra fredda allenterà la propria morsa, tali esperienze, anche per questioni mai del tutto chiarite legate a finanziamenti della CIA, cesseranno la loro attività non senza polemiche e accuse reciproche).
Dall’esperienza de Il Mondo, il settimanale fondato dal già citato Mario Pannunzio nel 1949 (l’organo più rappresentativo, in quegli anni, di tutto il mondo democratico e antitotalitario), nacque il Partito radicale, cui Teodori stesso figura tra i fondatori. Un partito che, successivamente, sotto la guida del giovane Marco Pannella assumerà un ruolo preminente nella lotta politica a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, specie nella stagione delle riforme civili (divorzio e aborto). Fautori del “Comitato per il disarmo atomico e convenzionale dell’area europea” (1964); promotori, insieme ai gruppi di disobbedienza civile guidati da Aldo Capitini, della prima marcia della pace Perugia-Assisi (1960), i radicali si resero protagonisti di battaglie memorabili condotte con uno stile comunicativo e una capacità di attecchire sull’elettorato davvero innovativi. Fino a che furono presenti in parlamento, a detta dello stesso Teodori, ebbero «la funzione di anticorpi dapprima nei confronti delle degenerazioni partitocratiche, poi rispetto al giustizialismo che ha stravolto lo Stato di diritto e, infine, quale argine al populismo che ha dominato la cosiddetta Seconda Repubblica».
Quest’ultima fase, dopo il reset di Mani Pulite (a tal proposito, rimandiamo al capitolo dedicato al socialismo craxiano) e la nascita di forze politiche di tipo personalistico (vedi Forza Italia di Silvio Berlusconi), si caratterizzerà proprio per la progressiva scomparsa del concetto di antitotalitarismo, così come di qualunque riferimento storico non immediatamente spendibile nella contesa elettorale. Un processo di rimozione perseguito scientemente che conduce fino ai giorni nostri. Nei quali ci si impegna a discutere, sulla scorta dei successi della destra guidata da Giorgia Meloni, di fascismo e antifascismo senza sapere esattamente quali siano i caratteri propri di un regime totalitario; dove il riaffiorare del terrorismo islamico e l’intensificazione dei conflitti cui assistiamo prefigurano scenari inediti, quando non spaventosi. Ecco perché quegli “anticorpi” evocati da Teodori, allora, non solo sarebbe urgente produrre, ma andrebbero interpretati come l’ultimo, disperato tentativo di reimparare una storia che, colpevolmente, abbiamo scelto di ignorare.