Agneddu e sucu e finìu ‘u vattìu. A Palermo chiunque lo dice quando finisce la festa, quando si passa ai saluti finali e si torna a casa. È un detto della cui origine religiosa si è persa completamente ogni traccia: il Vattiu è propriamente il battesimo, l’agnello, simbolo per antonomasia della cristianità era anche simbolo di prosperità quando legato alle ricorrenze liturgiche o sacramentali festeggiate con amici e parenti. E di liturgia sterile e insignificante è fatta anche Cosa Nostra, coi suoi santi giuramenti, i santini bruciati in mano, i saluti ai boss durante le processioni e tutta la simbologia che adorna i covi sperduti dei latitanti, gente ricca e potente che vive nascosta, che comunica con messaggi in codice, che è fondamentalmente sola. È finita la festa, oggi, per una stagione criminale lunga più di trent’anni. Per trent’anni Matteo Messina Denaro è stato latitante e trent’anni fa è stato arrestato Totò Riina. Sembra essersi chiuso un lungo capitolo, quello più inquietante della storia della criminalità organizzata. Un capitolo incominciato con la sanguinosissima Seconda Guerra di Mafia, nella prima metà degli anni Ottanta, vinta dai corleonesi a suon di omicidi, proseguito con lo stragismo come metodo negoziale con l’apparato statale, ma anche come contrattacco alla guerra giudiziale, e quindi gli attentati dinamitardi, le stragi contro la magistratura, ma anche i depistaggi, i segreti inconfessabili, la trattativa con lo Stato. Matteo Messina Denaro è stato l’ultimo pezzo da novanta di questo mondo qui, l’ultimo detentore dei segreti oscuri della storia più recente nostra Repubblica, forse.
Qui a Palermo non piove da settimane. Per quanto possa piacere un inverno primaverile, la mancanza di precipitazioni sta diventando negli ultimi anni un serio problema per tutto il settore agrario. La siccità non è più, quaggiù, un fenomeno straordinario. La poca acqua raccolta durante l’anno e la pessima gestione delle acque dolci sta desertificando l’isola. Il 16 gennaio, mentre gli agenti del ROS e del GIS dei Carabinieri trasportavano il superlatinante all’interno di un camioncino, davanti la clinica privata Maddalena nel quartiere San Lorenzo, la pioggia scendeva sulla città, lavava le strade, portava aria pulita. L’ultimo capo dei capi stava curando un tumore al colon, come un normalissimo cittadino ma con un nome falso, in una delle cliniche più frequentate della città. Si era recato di lunedì mattina, come già diverse volte nell’ultimo anno, per una seduta di chemioterapia, registrato col nome di Andrea Bonafede, geometra nella carta d’identità. Insieme a lui il suo autista, Giovanni Luppino, nominalmente commerciante di olive a Campobello di Mazara. Si è sempre parlato, in questi tre lunghi decenni di latitanza, di fughe estere, di nascondigli spagnoli o albanesi, ma è molto più probabile che la maggior parte del tempo, Matteo ‘U Siccu, lo abbia passato proprio qui, tra Palermo e Trapani, re nel suo regno, grazie al fiancheggiamento e all’aiuto di familiari e di fedelissimi, ma inevitabilmente anche di chi ha operato nell’ambiguità di un ruolo istituzionale e ha rallentato questo fatidico momento. Questo lato della storia lo scopriremo tra molto tempo o forse mai.
Figlio di Zu Ciccio, boss incontrastato di Castelvetrano, cresce sotto l’egida di Totò Riina che lo fa diventare capomandamento e suo fedelissimo uomo d’azione, tanto da mandarlo a Roma per l’omicidio di Giovanni Falcone, piano che poi verrà abortito per una strage più eclatante. Ed è sempre a Roma che organizza l’attentato a Maurizio Costanzo, dal quale il giornalista resterà illeso. Quando il potere passa a Bernardo Provenzano, giura fedeltà al nuovo capo e inizia a lavorare più sommessamente, mantenendo alto nome e prestigio all’interno dell’organizzazione. Con la cattura di quest’ultimo, Messina Denaro è il nuovo padrino. Non sappiamo con certezza quanto vasto ed effettivo sia il suo potere oltre le province di Palermo, Trapani e Agrigento e se il suo arresto adesso non sia il sintomo di un passaggio di potere al vertice di Cosa Nostra, come qualcuno inizia a sostenere. Di certo, gli ultimi anni del suo governo sono stati segnati da un abbassamento della violenza mafiosa verso le istituzioni, una strategia che Totò Riina gli rimprovera dalla cella, ma piuttosto da affari e intrecci silenziosi con le altre famiglie siciliane e con le organizzazioni criminali più importanti di tutta Italia, dal controllo territoriale, dagli appalti milionari, come quello degli impianti eolici nel trapanese. Il suo lungo governo è stato anche transitorio: Cosa Nostra, proprio a causa della forte esposizione mediatica e giuridica legata alle violenti stragi degli anni Novanta, è tra le organizzazioni mafiose quella che ha perso più terreno negli ultimi anni, ha perso il controllo delle maggiori tratte del narcotraffico e del commercio delle armi, ha perso molto del suo potere economico e finanziario, al contrario di Camorra e ‘Ndragheta che invece hanno accresciuto esponenzialmente il volume dei propri affari.
La pioggia ha cambiato l’aria, la festa criminale è finita e inizia la festa delle istituzioni. C’è chi parla di riscatto dello Stato e chi invece, dietro tutto questo, legge un’occasione arrivata forse troppo tardi. Matteo Messina Denaro sconterà diversi ergastoli in un istituto penitenziario di massima sicurezza, nel frattempo bisognerà capire come si sta, o si è già, riorganizzata Cosa Nostra, chi risiede al vertice e verso dove si sta muovendo. Come noto, le organizzazioni criminali, attirate dai grandi flussi di denaro come le falene dalla luce, si stanno muovendo verso i grandi mercati finanziari, verso il mondo web, le crypto, gli investimenti energetici e senz’altro saranno attirate dalla mole dei fondi europei del PNRR. Messina Denaro, il primo dei latitanti in Italia, tra i primi del mondo, nonostante il suo spaventoso potere, appartiene però a una generazione passata di uomini d’onore, personaggi provenienti dal mondo contadino e pastorizio, legati principalmente al controllo del territorio e a un vecchio modo di fare affari e di gestire il potere, spesso fin troppo violentemente sfacciato. I figli dei nuovi boss studiano economia e legge nelle migliori università d’Europa, si sanno insinuare nelle insenature grigie del sistema economico e politico, i nuovi capi sono più trasparenti e ambiziosi.
E ancora, oltre al problema mafioso prettamente macrocriminale, esiste ancora molto forte in Sicilia un problema culturale legato alla mafia, fatto di prepotenza, inciviltà e prevaricazione, sistemi di valori tramandati da padre a figlio e radicato trasversalmente in tutta l’isola. Oggi in tutta Italia si festeggia, ma da domani si lavora di più.