«Dove c’è una censura, io non ci sono»
Con queste parole Indro Montanelli (1909-2001) chiosava un articolo del 1973 di presentazione ai lettori di Oggi, nelle cui pagine avrebbe trovato asilo temporaneo in seguito alla rottura assai discussa con il Corriere della Sera. Un anno dopo, insieme a una pattuglia di cronisti e grandi firme, avrebbe fondato Il Giornale, facendone una scialuppa di salvataggio per tutti quei lettori orfani del quotidiano di via Solferino per come era stato fino ad allora, e a cui egli sentiva fieramente di appartenere.
Ora che il vento di sinistra scompigliava la redazione del Corriere, ponendovi a capo quel “progressista” di Piero Ottone che proprio in Montanelli aveva individuato una voce da confinare, quando non da zittire, era necessario smarcarsi, compiere uno scatto in direzione altra, cosa che puntualmente fece, andando a rappresentare e definire un’area moderata di destra che alle elezioni votava un po’ Dc e un po’ quello che passava il convento.
La più prestigiosa tra le firme del giornalismo italiano aveva subito, strano a dirsi, la tagliola della censura, senza per questo rinunciare all’idea che da quel putiferio di accuse e recriminazioni potesse nascere, seppur altrove, uno spazio di libertà e autonomia. Non fu la prima volta, non sarà nemmeno l’ultima.
È da poco in libreria Contro ogni censura – volume curato da Guendalina Sertorio e impreziosito dall’introduzione di Marcello Veneziani – che raccoglie articoli, interventi, scritti già apparsi altrove, con un unico filo conduttore: un’avversione feroce per il controllo delle opinioni, specie sui giornali, nel cinema e in televisione.
Una battaglia iniziata negli anni immediatamente successivi alla caduta del regime fascista, quando il giornalista firmava su Tempo (un rotocalco settimanale a colori fondato nel 1939 da Alberto Mondadori) la rassegna della stampa estera con il significativo pseudonimo di Calandrino, celebre personaggio del Decameron di Giovanni Boccaccio che, in fatto di censure e ostracismi, rappresenta uno degli autori più disgraziati e maledetti della nostra storia letteraria.
Celebri le inchieste dedicate agli sprechi in Rai, alla lottizzazione politica consumata senza tanti scrupoli dai governi targati Dc, specificatamente dalle manovre di Amintore Fanfani, il quale mise alla direzione generale della Tv pubblica Ettore Bernabei, considerato dallo stesso Montanelli il “luogotenente” del politico democristiano.
A non convincerlo sono i cosiddetti “monopoli di complicità”, le correnti interne ai partiti che impunemente procedono a spartirsi posizioni di potere, fatto di favoritismi, stipendi milionari, rapporti di consulenza ambigui, concessioni alla Chiesa. Con evidenti ricadute sull’offerta culturale: «Ogni sera, accendendo il video, noi respiriamo gas illuminante condito di acqua santa e di colonia», in quanto «pagato il tributo d’obbligo alle più alte autorità spirituali e temporali, si può con tutto comodo procedere al quotidiano avvelenamento». Come nel caso del documentario dedicato alla figura di Galileo, in cui, inspiegabilmente, non v’è traccia del processo al Sant’Uffizio, paradigmatico, da solo, di un certo servilismo dei funzionari Rai.
Quelle dedicate al cinema italiano sono le pagine più belle e risolute dell’antologia, per altro scritte da chi al “cinematografo” ci andava molto poco, giusto qualche volta l’anno (per sua stessa ammissione).
L’assunto di partenza è che la censura sia ineliminabile, certo odiosa, eppure necessaria in taluni casi (per esempio per la commedia sexy o la pornografia); piuttosto, occorrerebbe limitarne gli effetti, spesso controproducenti: per dirla con Veneziani, essa «non sa distinguere tra opere d’arte e film scadenti di cattivo gusto», per questo motivo «l’unico criterio di distinzione è artistico, di qualità».
Si prenda il clamore, difficilmente comprensibile ai giorni nostri, suscitato da La dolce vita, capolavoro di Federico Fellini del 1960, che arrivò nelle sale tra mille ostacoli e tentativi di messa al bando (il successo del film sarà enorme, con ben quattro candidature agli Oscar); secondo il regista romagnolo un piccolo grande merito per l’ottenimento del visto della censura l’ebbe proprio Montanelli, schieratissimo a difesa della pellicola e della sua forza visionaria di fendere l’immagine di un paese tanto refrattario quanto immaturo.
In diversi articoli scritti per perorarne la causa, più che dei suoi meriti estetici, cui attribuisce una indiscutibile eccezionalità rispetto al panorama nostrano, del film sembra interessargli la capacità di raccontare l’Italia meglio di quanto farebbe qualunque reportage. Il film deve arrivare nelle sale, pazienza se «questi fotogrammi, presi uno per uno, ci fanno disperare di noi stessi e di tutto», e tolgono «alla dolce vita ogni fascino»: il merito di Fellini è quello di aver demistificato una realtà inconsistente fatta di sola retorica, e tanto basta.
Un tratto essenziale, quest’ultimo, dello stesso Montanelli che emerge in un articolo, di fatto l’appendice della raccolta, scritto con lo pseudonimo di Antonio Siberia per la rivista Il Borghese dell’amico e maestro Leo Longanesi.
In questo memoriale autobiografico si fanno i conti con il fascismo e si rievocano alcuni giovani intellettuali riuniti attorno al quindicinale fiorentino L’Universale, fondato nel 1931 da Berto Ricci («il solo maestro di carattere che io abbia trovato in questo Paese in cui il carattere è l’unica materia in cui si passa sempre tutti senz’esami»).
Il racconto procede su un doppio binario, quello individuale, con la fine di esperienze giovanili come L’Italiano, Il Cantiere e, appunto, L’Universale, che dovevano dare al fascismo una base dottrinaria e che scemarono in un attivismo di fronda sterile e inoffensivo; e quello collettivo della caduta del regime di Mussolini, ormai privo di qualunque slancio ideale, fatto di «oceaniche adunate» e innervato da un «patriottismo verboso e di maniera».
Due piani del discorso che si toccano e divergono in egual misura, ma che obbligano il giornalista ad ammettere: «Io sono fra i rassegnati: so benissimo che di bandiere non posso averne altre e l’unica che seguiterà a sventolare sulla mia vita è quella che disertai, prima che cadesse».
Gli capitò, con qualche anno di anticipo, di diventare esattamente come gli altri, di diventare «quella malinconica cosa che è l’Italia d’oggigiorno, l’Italia smaliziata e utilitaria degl’italiani che non ci credono più».
Un autoritratto, scritto ad appena quarant’anni, che se non corrisponde alla condizione di “esule in patria”, parafrasando il vecchio saggio di Marco Tarchi che descriveva la difficile condizione, anche psicologica, dei fascisti nell’Italia democratica della Prima Repubblica, gli si avvicina pericolosamente. E che, fatti i dovuti distinguo, ci pare dica qualcosa anche dell’Italia di oggi.