Un mese dopo si può dire con certezza. Il quasi-Ministro degli Esteri e della Difesa europeo Josep Borrell ha dichiarato, quasi per sbaglio tra le righe, ma non certo per la prima volta, che viviamo in un mondo multipolare in cui il dominio dell’Occidente è finito. Quasi parallelamente, il Presidente francese Macron ha “ponderatamente” paventato l’idea di una Terza Guerra Mondiale come atto finale di un’escalation enfaticamente iniziata trent’anni fa come occasione per la pacificazione definitiva del mondo.
L’apatica reazione pubblica è la conferma di una stanca assuefazione popolare alla militarizzazione della quotidianità politica – che vivacchia tra scarso sostegno alla resistenza ucraina e scarsissime speranze di successo per la guerra – ma sempre un argomento da nicchie di appassionati e curve di pochi ma rumorosi ultras rimane, con scarse ripercussioni pratiche. A questa, fa da contraltare l’imbarazzante carenza di idee coraggiose in grado di ribaltare il tavolo aggredendo il vero problema che ci ha portati fin qui, che rimane sempre la questione del riconoscimento quale pari. Le élites politiche nella civiltà Atlantica procedono ancora per reazione nervosa, con occhi ben fissi al breve periodo.
Approfondendo, Borrell chiarisce, di nuovo, la multipolarità della nostra contingenza storica. Due anni fa era un’espressione affidata in esclusiva agli Alexandr Dugin ed epigoni del pensiero antioccidentale più radicale; oggi è nel vocabolario ufficiale europeo. Borrell lo fa con piglio un po’ terzomondista, non disposto ad esplorarne le contraddizioni col pensiero atlantista fin de siècle. Lo fa perché sente una pressione economica che l’Europa dipendente per energia, materie prime, e prossimamente anche investimenti e mercati, non può ignorare. Molti, nel variegato “rest of the world”, non approvano le azioni di Mosca; ma contestualizzano, soppesano costi e benefici coi più deboli, meno invasivi, e talvolta anche più generosi alter ego russi e cinesi, che a differenza nostra scontano livelli decrescenti di accuse d’imperialismo.
È un pragmatismo parziale ma senza controindicazioni perché consolida interessi senza risultare dannoso per il senso di sé: rafforza i valori liberali rifuggendo dai doppi standard (Gaza docet), propugnando uguaglianza e sviluppo condiviso (vedi Piano Mattei, prontamente sostenuto in sede UE). È il lato buono del liberalismo internazionalista, la mano tesa che parla di giustizia ma con pudore e senso per la differenza.
La stessa mano tesa non va ovviamente in direzione di Mosca, colpevole nella contingenza attuale di aver rotto troppo gravemente il patto sociale della comunità internazionale. Allo stesso tempo, si traduce in silenzio per quanto riguarda proposte in grado di sconquassare il tavolo e di reimpostare su basi radicalmente nuove le relazioni pan-europee.
Dall’altra parte abbiamo invece l’inversione a U di Emmanuel Macron. Ancora una volta, le considerazioni di ampio respiro sembrano secondarie: tra elezioni europee e perenne e disperata rincorsa ad un chimerico spazio vitale diplomatico, è difficile valutare quanto questo insperato cambio di rotta sia fondato nella sostanza di un ragionamento di larghe vedute.
La stessa Francia che aveva parzialmente fermato nel 2008 l’avvicinamento di Ucraina e Georgia alla NATO, e lo stesso Macron che pure oltre i tempi regolamentari aveva provato a far precipitare un nuovo compromesso di convivenza fra Occidente ed Europa. Anche in quei casi, il sospetto di strumentalità aleggiava nella forma del carissimo distanziamento dal cugino superiore oltreoceano. Oggi la leva sembra una rinnovata idea di leadership europea, ormai definitivamente spostata, soprattutto nelle sue componenti (orientali) più dinamiche, verso l’opposizione frontale a Mosca.
Le affermazioni di Macron, in tetro parallelismo con gli ultimi Anni Trenta, si inseriscono nella logica della deterrenza. Ricalcano i toni churchilliani dell’ultima ora di pace, quella in cui provare ad attaccare alla radice i mali storici che hanno scatenato l’escalation è non solo ormai inutile, ma anche potenzialmente fatale. Come allora, esaurite (o meglio, non percorse a tempo debito) le opzioni diplomatiche in grado di ribaltare il tavolo delle relazioni, l’unica opzione di fronte alla polarizzazione estrema e alla debolezza nel teatro locale, rimane quella di alzare la posta minacciando l’annientamento totale.
Nel farlo, si condisce il tutto con quella retorica machista e aggressiva che lo stesso coté internazionalista liberale ha denunciato per decenni come uno dei tratti più deviati di quell’ordine che condusse l’Europa imperialista di fine Ottocento al baratro suicida delle Guerre Mondiali. Il mito della potenza è oggi sostituito da quello ideologico-morale; il resto rimane al proprio posto.
Preoccupante per chi in questa Storia vive, ma strategicamente non per forza decisivo, primo perché quel sostrato di strumentalità ne sgonfia poderosamente il portato sostanziale, secondo perché il puro e semplice dilemma della sicurezza non è il driver determinante di questo processo. Temibile perché conferma ma ancora non normalizza la tendenza all’antagonismo assoluto, nella fase in cui lo scontro assume ancora realistiche forme di minaccia esistenziale.
In un esercizio di ottimismo, si prova a chiudere enucleando proprio i principi di quei mali storici che hanno avviato il processo in cui ci troviamo ora, nella speranza che ad oggi sia ancora utile e sensato ripulire il tavolo delle relazioni da tutti quei dossier che, accumulatisi disordinati, hanno man mano offuscato la mente di chi vi stava seduto.
La spirale nasce nei primi anni Novanta, quando le controparti ancora non si percepiscono reciprocamente come novelli Hitler. Anzi, i rapporti sono ai massimi storici della collaborazione. La spontanea “rinuncia all’impero” di Gorbačëv è un immenso segnale di fiducia e di riconoscimento nei confronti dell’Occidente. Vagamente e con molte zone d’ombra, l’unità procede sotto Eltsin.
Nel mezzo una transizione al modello dell’ex-nemico che si rivela disastrosa, per una Russia che ancor oggi fatica a recuperare i non certo invidiabili standard sovietici. Il senso di umiliazione è palpabile. Quasi di contorno è il condimento di valori estranei ad un paese-mondo sempre rimasto “fuori fase” – nella formulazione di Henry Kissinger – rispetto alle dinamiche di sviluppo storico e culturale dell’Europa occidentale.
La svendita dell’impero, unita all’umiliazione nazionale nel passaggio all’economia di mercato aumenterà l’acredine verso i filoccidentali; ma è soprattutto – sulle orme di Paul Kennedy – il declino economico (e spirituale) della Russia a comprometterne ogni capacità di attrattiva politica, esponendola a quella tendenza all’accerchiamento che è suo incubo ancestrale.
Se c’è un aspetto confortante in questa vicenda storica, è che non di dilemma della sicurezza si tratta: gli schieramenti militari NATO in Europa sono crollati dopo l’89 e sono rimasti a livelli perlopiù simbolici (con l’eccezione delle installazioni missilistiche in Romania e Polonia).
È infatti, come già analizzato fino allo sfinimento, e pertanto non qui approfondito, una questione di capacità di trattenere una sfera d’influenza, per schermarsi dalle spinte sovversive (dal punto di vista del Cremlino) di un Occidente altro.
Il secondo peccato originale da qui consegue: la tragica situazione russa murò i rapporti di forza in maniera tale da rendere l’ex-superpotenza un attore muto in cerca d’aiuto, disposta a scambiare interessi vitali per carità. Per tutti gli Anni Novanta, assensi in politica estera sono scambiati con tranches di aiuti finanziari dalle istituzioni internazionali. È peculiare che, ad esempio, il dibattito sull’allargamento della sfera d’influenza americana in Europa Orientale si sia svolto quasi interamente tra Stati Uniti e nazioni post-sovietiche, coi russi (e gli europei) in veste di comparsa, con brevi e singhiozzanti monologhi in sceneggiatura, bruscamente variabili tra l’assenso e il risentimento.
Il processo culmina nel 2008 con l’espansione del principio della porta aperta a Ucraina e Georgia, due paesi con scarsissimi legami storici verso il mondo europeo, da sempre e con certezza considerati Mondo Russo dall’élite politica al Cremlino. Questa volta il processo è almeno timidamente attenzionato dal duo franco-tedesco, ma non in maniera sufficiente da fermarlo. Ancora una volta negli Stati Uniti si rimarca con orgoglio il fatto che nessuno Stato può opporre parola alle richieste di inglobamento.
Permane questa nuova idea delle relazioni internazionali in cui la componente del ragionamento relazionale è espunta, e il dialogo diventa esclusivamente interiore. L’unica controparte ammessa come lecita diventa infatti il totem dei propri valori identitari, dell’orgoglio di sentirsi avanguardia del mondo desiderata da chi non ne è parte.
Già negli Anni Novanta, la strategia sottesa a questo movimento veniva chiarita da Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale sotto Carter, uomo di immensa e comprovata influenza sull’establishment politico americano; il Kissinger dei Democratici, con le dovute proporzioni. Per lo stratega polacco, la Russia dev’essere sottoposta a pressione (ovvero erosione del proprio capitale politico-territoriale) per “costringerla ad esercitare l’opzione dell’unica alternativa”, quella pro-europea dell’integrazione nell’Occidente.
Si capisce perché il dialogo resti sempre superficiale, estetico, aldilà dei celebrati marchingegni istituzionali in sede NATO e OSCE. Il principio clintoniano della porta aperta e dell’allargamento della sfera della democrazia rimane intimamente incompatibile con le richieste di sicurezza del Cremlino. Riecheggia qui sullo sfondo il classico adagio wilsoniano, poi neocon per cui “la sicurezza [di un paese liberale] dipende dal carattere degli altri regimi” e trova traduzione (nel linguaggio di Mearsheimer) in una mentalità intrinsecamente attivista, costantemente revisionista, degli equilibri internazionali.
È per questo che dal 1990 nessun accordo coraggiosamente onnicomprensivo viene mai raggiunto sulla gestione dell’Europa post-guerra fredda. Sempre di compromessi contingenti si tratta, strappati di volta in volta in forza della debolezza della controparte. Ognuno parla il proprio incomprensibile linguaggio, che ha portato a postulare dall’altra parte, per bocca del Presidente del Valdai Club Fedor Luk’janov, che la guerra debba tornare ad essere strumento legittimo di risoluzione delle controversie internazionali, in incredibile opposizione storica all’obsolescenza della guerra postulata in Occidente da ormai quasi un secolo.
Al di là dei possibili utilizzi strumentali e retrodatati dell’espansione occidentale da parte di Putin, si tratta di una spirale da Geopolitics 101, già individuata al momento del suo moto originario dalle menti lucide di Henry Kissinger e George Kennan, preoccupate da un processo in cui “il mondo stava perdendo troppo velocemente il suo equilibrio”, in un modo che nuoceva gravemente al “prestigio della Russia”.
Su queste basi storiche si innestano oggi le visioni strategiche dei due leader europei più in vista, in un ambiente intellettuale molto più occluso dalle paure e dal conformismo prodotti dalla polarizzazione, che di queste paure a sua volta si nutre. In cui l’autoreferenzialità ha sostituito l’imprescindibile livello relazionale. Un atteggiamento egoriferito su cui si gioca anche la reputazione presso il cosiddetto Sud Globale, che da più lontano vede molto più lucidamente doppi standard e prospettive precluse ai nostri sensi.
In prospettiva storica, la prudenza cara a Morgenthau è stata sostituita dal rapporto costi-benefici applicato alla singola decisione, al margine, nel linguaggio economicistico di Gilpin: una riduzione degli orizzonti al breve periodo che ha permesso di trovare vantaggiose concessioni strappate di volta in volta per mortificato silenzio-assenso e turbinoso disordine interno agli stessi establishment strategici della controparte.
Oggi, parallelamente alle considerazioni storiche, prendono rilevanza quelle del confronto tra volontà di potenza e capitale umano, con la prima che spesso eccede le capacità della seconda, in questo caso per un motivo antropologico ancor più netto, che riesuma una celeberrima massima kantiana: “Se il consenso dei cittadini è richiesto per la dichiarazione di una guerra, niente è più naturale del fatto che essi saranno molto cauti nel cominciare un così cattivo gioco”. Motivo per il quale la saggezza popolare si è dimostrata spesso più lungimirante nell’analisi storica rispetto all’elaborazione intellettuale, colpita dall’aria rarefatta delle alture sociali; un’aria ricolma di identità e ideologia, ottima per gonfiare i polmoni, meno per rifocillare la materia grigia.
Nel frattempo gli USA, che giocano in Ucraina una partita per loro (apparentemente) a costo zero, potrebbero presto sorpassare gli Europei in quanto a indifferenza e cinismo. Una tragedia tutta europea che oltreoceano rappresenta ancora oggi poco più che un’utile opportunità di indebolire un nemico storico, potrebbe essere presto archiviata (ottimisticamente, visti gli equilibri delle forze locali) come stallo perenne, sull’altare di esigenze elettorali, ancora una volta di cortissimo respiro.