OGGETTO: La guerra per finta di Macron
DATA: 03 Aprile 2024
SEZIONE: Geopolitica
Dietrofront francese sulla guerra in Ucraina: dopo due anni di tira e molla, l’Eliseo starebbe valutando l’invio di truppe sul campo. Ma la vera battaglia Macron la prepara in Europa, per battere Le Pen alle consultazioni di giugno, restituire alla Marianna il prestigio perduto con le ultime débâcles africane, e avvantaggiarsi in vista della lotta per controllare la nuova UE.
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La Russia in Ucraina non deve vincere. Non glielo si può consentire: un eventuale trionfo di Mosca nella guerra che da due anni imperversa sanguinosissima al confine tra Oriente e Occidente manderebbe in frantumi il già fragile assetto della sicurezza europea e minaccerebbe l’esistenza stessa del’UE e della Francia. È questo l’avvertimento che un irriconoscibile Emmanuel Macron ha rivolto ad amici e nemici, interni ed esterni, dagli studi di France 24. Apparentemente abbandonati i toni concilianti tenuti finora sulla vicenda, in barba ad ogni polemica — ricordiamo il controverso invito a «non umiliare» Mosca, lasciandole «una rampa d’uscita» — l’inquilino dell’Eliseo conclude in en plein il dietrofront-lampo avviato in merito appena qualche settimana fa. Dapprima Macron ha esortato gli alleati a «non porsi limiti» riguardo al sostegno offerto al Paese assediato, richiamando una fitta lista di armi e altre risorse negate con veemenza solo per venire concesse in un secondo momento; poi ha fatto pubblicare l’audio di un tragicomico colloquio telefonico avuto con Vladimir Putin a ridosso dell’invasione, prova incontrovertibile dei futili tentativi di scongiurare il massacro; ora, a sorpresa, «non esclude» l’intervento diretto.

Un crescendo retorico dietro il quale si scorge la consapevolezza che Kiev rischia davvero di avere la peggio nell’impari contesa col suo vicino. Il recente abbandono della città-fortezza di Avdiivka, nell’oblast di Donetsk, non è che l’ultimo insuccesso riscontrato dalle forze gialloblù in oltre un anno di campagna costante; pesa in particolare il clamoroso fallimento della controffensiva della scorsa estate, costata ingenti perdite in cambio di guadagni territoriali assai modesti. Così, intanto che il grosso dei reparti di prima linea si affretta a puntellare il fronte in vista di una possibile spallata del nemico, gli alti comandi ripiegano su di una strategia asimmetrica, concretizzatasi proprio in queste settimane in una sequela di attacchi ad infrastrutture energetiche e militari sul territorio russo. Non c’è altro da fare: con il nuovo pacchetto di aiuti americano, valutato in sessanta miliardi di dollari, da mesi in balìa delle beghe partitiche del Congresso e l’Unione Europea impantanata more solito nel suo farraginoso processo decisionale, gli ucraini possono soltanto attendere e sperare.

Beninteso, l’Ucraina non è ancora battuta: il governo e la cittadinanza, pur provata, non danno segno di voler cedere, e l’esercito continua a resistere al meglio delle proprie capacità. Se però la sconfitta non è inevitabile, la vittoria — concepita sin dai primi mesi del conflitto come il ripristino dei confini delineati dopo il collasso dell’URSS, Crimea inclusa — sembra mai quanto oggi lontana. Senza una base industriale adeguata cui appoggiarsi, per ottenere il necessario materiale bellico le ZSU debbono sottostare alle accennate lungaggini politiche, burocratiche e produttive di un Occidente del tutto impreparato ad affrontare la guerra d’attrito imposta dal Cremlino. Mentre va detto che oltreoceano si registra un graduale aumento dell’output di armamenti, le iniziative elaborate dagli organi comunitari per stimolare il comparto militare del Vecchio Continente faticano a decollare; anche il miracoloso reperimento di circa un milione e mezzo di granate d’artiglieria da parte della Repubblica Ceca rappresenta al più un rimedio temporaneo alla penuria strutturale di munizioni che tormenta i difensori.

E alla quale viene adesso a sommarsi la carenza sempre più evidente di personale. La cifra ufficiale di 31mila caduti totali non sta in piedi, specie tenendo conto del conclamato divario nella pura e semplice potenza di fuoco a disposizione dei due schieramenti; se non bastasse, è noto che a Kiev si sta valutando di abbassare l’età di leva. La relativa proposta di legge attualmente in discussione presso il Parlamento mira ad incrementare il numero di effettivi in servizio attivo di almeno mezzo milione di unità, in ossequio alle richieste avanzate sul finire del 2023 dall’ex capo dello Stato Maggiore congiunto Valerii Zaluzhny. Sia la Rada che il presidente Zelensky tentennano, ben consci delle gravi conseguenze politiche e soprattutto demografiche che una simile decisione è destinata ad avere. Attingere alle fasce più giovani della popolazione creerebbe un precedente sgradito, rafforzando peraltro il diffuso fenomeno della renitenza; nel peggiore dei casi la nuova mobilitazione porterebbe ad un ulteriore tracollo del tasso di natalità, in grado di minacciare la sopravvivenza della nazione al pari dei russi.

Si fa allora strada l’idea inedita di colmare i vuoti emersi tra i ranghi dell’esercito ucraino con truppe straniere. In teoria la Francia sarebbe pronta ad inviare sul campo un’intera divisione di 20mila uomini, e a comandarne fino a 60mila inquadrati in un corpo alleato; tra le ipotesi quella di schierarli a difesa di Odessa, verosimile bersaglio di una manovra russa che si sospetta potrebbe aver luogo già nella tarda primavera, e sul confine con la Bielorussia, per ostacolare eventuali movimenti verso la capitale. Ma si parla anche di stabilire un cordone d’interdizione sul fiume Dniepr: la presenza dei soldati d’Oltralpe, questo il calcolo, dovrebbe dissuadere Mosca dal tentare un colpo di mano analogo a quello del febbraio 2022, ed impedire un allargamento del teatro operativo alla porzione ovest dell’Ucraina. L’Armée de Terre è «preparata ad affrontare i compiti più impegnativi», assicura il generale Pierre Schill; riesce nondimeno difficile credere che un contingente così esiguo sarebbe in grado di offrire altro che una resistenza simbolica davanti alla rodata macchina militare del Cremlino.

Non aiutano la presumibile assenza di supporto aereo, né problemi di approvvigionamento affatto dissimili da quelli che interessano Kiev; stando ad un rapporto parlamentare del 2022, le munizioni conservate nei magazzini sarebbero sufficienti per soltanto quattro giorni. Per non parlare del supporto politico, pressoché nullo («Sono io il Presidente e decido io», è stato l’ineffabile commento di Macron), o del tempismo: molto probabilmente il temuto assalto russo coinciderebbe infatti con la stagione olimpica. Che Parigi rinunci all’evento sportivo dell’anno è fuori discussione, e anzi lo stesso M. ha chiesto alla Russia di osservare per l’occasione una breve tregua. Insomma, uomini, mezzi e fortuna sono decisamente troppo pochi per una guerra vera. Bastano tuttavia per una finta, da combattere nelle trincee metaforiche — ma non per questo meno spietate — della politica francese. Obiettivo Bruxelles: le elezioni europee di giugno si avvicinano inesorabili, e con esse l’ennesima resa dei conti tra monsieur le Président, in crisi di consensi a causa della querelle sulle pensioni, delle tensioni razziali e dei rovesci subiti all’estero, e Marine Le Pen.

Roma, Marzo 2024. XVI Martedì di Dissipatio

L’inossidabile signora della destra transalpina è in netta ascesa, forse al punto da potersi finalmente scrollare di dosso l’etichetta di eterna seconda che si trascina dietro sin dagli albori della sua carriera. Sospinta dall’importante risultato ottenuto con la riforma della normativa sulla cittadinanza, Le Pen si candida ancora una volta a guidare il blocco conservatore ECR (a discapito di Giorgia Meloni, della quale ha criticato l’ambiguità riguardo alla riconferma di Ursula Von Der Leyen a capo della Commissione): lo dimostra la netta condanna nei confronti di Putin, espressa in un recente discorso all’Assemblea Nazionale tramite cui ha voluto fugare in maniera definitiva i dubbi rispetto alla posizione spesso ondivaga del suo Rassemblement National sul dossier ucraino. Un segnale ai piani alti dell’Unione, che presa dalle minacce esterne vere e presunte si direbbe disposta una tantum ad accogliere nell’ovile stellato i figliol prodighi del sovranismo, e ai vertici della NATO, da sempre invisa a Macron e all’area gollista che l’ha innalzato ad erede del Maresciallo.

Ecco dunque che da imbarazzante preludio alla disfatta del ’40 la drôle de guerre diventa l’asso nella manica con cui Macron spera di prevalere nell’imminente battaglia d’Europa. In gioco non ci sono soltanto gli equilibri di potere in seno alla compagine UE; trovatasi di colpo estromessa da quasi tutti i principali avamposti del suo ex impero africano in favore degli avversari russi e cinesi, la Marianna guarda ora al cortile di casa come ultimissima spiaggia dove ricercare la proverbiale grandeur perduta. Sogni di gloria analoghi a quelli della Polonia, che al culmine di un decennale processo di riarmo (ad oggi Varsavia destina alle spese militari circa il 4% del PIL, più degli Stati Uniti) s’immagina e soprattutto vuole essere considerata una grande potenza, titolata a tracciare la rotta del blocco euro-atlantico nelle acque burrascose del momento attuale. Quanto ciò sia vero è discutibile; in ogni caso, al summit di Weimar la Francia ha scelto di prendere una precauzione, strizzando l’occhio ai polacchi con il velato intento di ribadire a loro e al resto del mondo che la diarchia franco-tedesca rimane comunque l’arbitro delle questioni europee.

La Germania sente d’altronde vacillare sotto di sé il trono serenamente occupato nei tre decenni passati: tocca all’esecutivo di Olaf Scholz barcamenarsi tra la non facile situazione economico-finanziaria legata alla repentina crescita del costo dell’energia e agli ammanchi nel bilancio, e l’arena internazionale, dove l’atavica debolezza militare dei teutonici ha finito per offuscarne il prestigio a beneficio dei falchi ex-sovietici del fianco Est. Compito a dir poco ingrato per il cancelliere socialdemocratico, costretto a fare i conti con le pressioni convergenti dei Verdi, di Kiev e di Washington sul conflitto. Nonostante la notevole entità del sostegno già offerto all’Ucraina (ben ventidue miliardi di dollari, oltre dieci volte l’ammontare degli aiuti francesi), tutti e tre spingono a vari livelli affinché si abbandonino le riserve riguardo la consegna di assetti strategici come i missili a lunga gittata Taurus; il voto contrario del Reichstag — influenzato dallo scandalo seguito alla fuoriuscita di pianto per un loro utilizzo contro il ponte di Kerch, in Crimea — gli ha dato un po’ di respiro, ma nel braccio di ferro coi fratelli-coltelli in patria e non Scholz è in deciso svantaggio.

Ben venga pertanto l’assist di Macron; Berlino potrà ricambiare il favore a tempo debito. I timidi passi dell’Unione verso un meccanismo di difesa comune lasciano presagire la nascita di una nuova rivalità in seno al consesso europeo: da un lato il vecchio club dei fondatori, intenti a tenere salde le redini di questo gigante zoppo, dall’altro i nuovi arrivati, desiderosi di strappargliele. In mezzo ci siamo noi, gli europei, e la prospettiva ancora fosca di poter opinare sugli affari del pianeta in tumulto. Trascorsi quasi ottant’anni dal collasso del progetto CED, la nozione di un’Europa in armi si riaffaccia all’orizzonte coi contorni a malapena definiti ed un futuro incerto. Eccetto per il fatto, ça va sans dire, che la Francia vorrà avervi un ruolo di primo piano: Macron lavora anche per garantirglielo, magari perché cosciente che Parigi non ha altre opzioni se non ripartire dalle origini. O magari perché, semplicemente, è francese.

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