OGGETTO: In guerra con Limonov
DATA: 19 Ottobre 2020
SEZIONE: inEvidenza
“Le guerre continuano perché agli uomini piace fare la guerra: ed è un piacere osceno”. Piccolo discorso su Eduard Limonov. In attesa delle sue poesie, un testo inedito, provocatorio.
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Più che altro, gli occhi. Piccoli, fermi, come proiettili di cristallo. Non gli importa ‘scavarti’ – ipotesi propria di chi crede che i sentimenti abbiano consistenza di spirito, siano il boudoir dell’anima, e che un uomo possa costruirsi l’al di là con la cartapesta del proprio destino. Misura, piuttosto, se sei pericoloso. Questo gli importa. Se sei pericoloso. Quando capisce che sei un pezzo di carne come un altro, come un piccione, come una bistecca, cosa che si corrompe, che si corrode, che si spezza, guarda di lato. Verso un vuoto. Più famelico del tuo sguardo. Forse si scava il futuro, ho pensato. Forse frena il nervo della nostalgia: quando a un suo cenno uomini predavano città, dilagavano per pianure rotte dall’oblio, caustiche come lucertole al contrario, assediavano le piazze della metropoli cinti da bandiere, inni, al vento di rivolte occasionali, tra caos e teurgia. Quando capì che non ero pericoloso, Eduard Limonov guardò di lato, a destra. Gli chiedevo qualcosa all’orecchio – rispondeva in un inglese pieno di punte, militare. Era stato punk e poeta e mercenario del sesso a New York, nei furibondi Settanta – dicono fosse intimo di Lou Reed. Fu scrittore e cospiratore a Parigi, negli Ottanta; fondatore di partiti politici e guerrafondaio in Russia, dai Novanta; leggenda caravaggesca, perturbante, dal 2011, per tramite di Emmanuel Carrére, il Giovanni Battista di Limonov.

“Che ca**o fotografi… la sua è una generazione degenerata, di deficienti”, mi disse, accennando alla guardia del corpo, un ragazzo di oltre due metri, un Golia, che a cena gorgheggiava Anna Achmatova. Gli faceva schifo l’albergo di lusso che gli avevo prenotato, per tramite di amici devoti, a Rimini. Era elegante, portava una piccola borsa, non più lunga dell’avanbraccio, “qui ho tutto quello che mi serve, se mi arrestano”. Non aveva documenti. Pensava che tutti lo spiassero. Era bianco, sottile, agile come un ago, prono a ogni catastrofe, a patto che ne fosse lui l’artefice. Indifferente. Forse prevedeva che sarebbe morto, di lì a tre mesi, “fai presto se vuoi scrivere di me”, mi disse, profezia distorta in un sorriso, nella macchina, manco fossimo a Berlino Est – e per lui, indubbiamente, esisteva Berlino Est, ancora, come esistevano Leningrado e Ilio, Samarcanda e Heliopolis, Bisanzio e Tomi, Lev Tolstoj e Iosif Stalin. “Due settimane e scriviamo il libro”, mi disse, secco. L’appuntamento era a febbraio. Il “New York Times” l’ha detto Russian Writer and Dissident, il “Times” l’ha definito The ‘Johnny Rotten’ of Soviet dissident writers. Morto a 77 anni. Gesù dice nei Vangeli che bisogna perdonare “fino a settanta volte sette”, insidiando una specie di crudeltà nel perdono, di sadismo. Forse il corpo di Limonov, eletto a mito come quello dello starec Zosima, è asceso al cielo; probabilmente si è afflosciato, livido, tarlato dal tempo, acido, come quello di tutti i cadaveri.

Era un uomo del Novecento, Limonov, aveva il viso stretto, stava in un bicchiere, veniva dalla banda di Majakovskij, l’avrei visto di fianco a Curzio Malaparte o a predare qualche pitonata modella nella Factory di Andy Warhol. Era prossimo, per indole, a D’Annunzio – ma la Russia ti dota di una furia allucinata, tra ussari e samurai. Amava il confronto diretto, ma aveva timore che lo toccassero. Guardava le folle che applaudivano, ridendo di una sua ennesima provocazione, con faccia schifata: perché non mi ammazzano?, pensava, forse. In una farmacia, gli ho comprato un barattolo di antidolorifici – la mascella non funzionava più. Mi pareva un segno: l’uomo che ha preso a morsi il secolo non sapeva più masticare.

Uno dei suoi libri più estremi ed estemporanei, Limonov vs. Putin, è ancora inedito in Italia. Il capitolo “Alien” mi pare esemplare.

Idealmente, un leader non è solo il capo di uno Stato, ma il primo uomo della nazione, un esempio. Iosif Stalin, con la pipa, i baffi, gli stivali, la giacca militare, sinuoso, con un flebile accento, ha messo in ordine l’Unione Sovietica, governando con disciplina e spavento, soggiogando con il terrore… Sebbene la storia relegherà Boris Eltsin per sempre tra i leader negativi, egli possedeva un carattere di chiara origine popolare. La dilagante ubriachezza, la tirannia meschina, la ruvida scaltrezza da dignitario del Comitato Centrale hanno perfino un qualche fascino, ora… Putin, in Russia, è atipico. Pare creato in laboratorio. Si ha il sospetto che sia l’esito di una inseminazione artificiale, un prodotto di padre ignoto e madre surrogata. Non ha nulla di proprio e niente di popolare. Pare un intellettuale, un insegnante, neanche un accademico, il professore di chimica di una scuola tecnica. Sembra un alieno, ecco. Troppo pulito, sarebbe rinnegato perfino tra gli insegnanti.

Limonov vs. Putin – Eduard Limonov

Noto come scrittore, per lo più Limonov è poeta. La guardia del corpo, a cena, alternava versi di Esenin a quelli di Limonov. Mi ha detto che le sue poesia, in Russia, sono molto popolari. Negli Stati Uniti, Limonov frequentava Iosif Brodskij, “ma non siamo mai stati amici”, mi ha ricordato. Dice che voleva prenderlo a pugni perché si era rifiutato di scrivere la quarta del suo romanzo, It’s Me Eddie. Eppure, fu proprio Brodskij a scrivere una sontuosa presentazione all’edizione russa delle poesie di Limonov, “un poeta che, più di altri, ha preso coscienza che la chiaroveggenza filosofica non si trova tanto nelle tesi o nelle antitesi, ma nel linguaggio stesso, libero di tutto ciò che è superfluo”. Limonov rispettava il talento di Brodskij, stava distante dall’uomo, che serpeggiava nei salotti letterari. Sandro Teti, editore avventuriero e pittoresco, l’uomo che ha riportato Limonov in Occidente, sta per pubblicare Ora zero, per la cura di Marilena Rea, la prima traduzione italiana dei versi del divo Eduard.

Nell’attesa, traduco qui sotto un articolo di Limonov pubblicato su “L’Autre Journal” nel 1993, scritto in francese. Limonov parla della guerra. Ha i toni aurorali del provocatore che alterna eccesso e pathos, Limonov. Prende a sfilettare l’odio. Eppure, quando dice, da uomo del Novecento, che negli uomini è connaturata la guerra e che è balorda barbarie pensare di placare tale connaturata ferocia con il comfort delle città occidentali, con la palestra e lo svago, ha ragione. In un memorabile articolo pubblicato il 21 marzo del 1940 sul “New English Weekly”, George Orwell, parlando del “Mein Kampf” di Hitler dice pressappoco, da altra latitudine, le stesse cose.

Hitler ha colto molto bene le falsità delle visioni edonistiche della vita. A partire dalla fine dell’ultima guerra, buona parte del pensiero occidentale (e certamente il pensiero ‘progressista’ in blocco) ha dato tacitamente per scontato che l’uomo non desideri altro che una vita comoda, sicura, al riparo dal dolore… Hitler sa, poiché la sua mente priva di gioia percepisce il fatto con un’intensità formidabile, che gli esseri umani non desiderano solo la comodità, la sicurezza, la riduzione dell’orario di lavoro, l’igiene, il controllo delle nascite o, in generale, il buonsenso: vogliono anche, almeno di tanto in tanto, la lotta e l’abnegazione, per non parlare dei tamburi, delle bandiere e delle parate patriottiche.

George Orwell

Che la risposta a questa considerazione non sia ‘armatevi e partite’, è perfino ovvio ribadirlo. Oggi, poi, gite guerresche come la Guerra di Spagna – per dire di un luogo dove si ritrovarono diversi scrittori del tempo, con posa dandy e fucile a tracolla – sarebbero impensabili. Il punto, come sempre, è non rischiare di sottovalutare – o di sottostimare – la natura dell’uomo. Altrimenti, nonostante lo stipendio fisso, il ristorante ogni due giorni e il relax domenicale, essa ci stupirà, per fragore.

La guerra è un’occupazione terribile, oscena, vergognosa. Due ore in un centro di identificazione dei cadaveri insegnano sugli esseri umani più di decenni di vita pacifica

L’ultima volta lo vidi che era solo. Stavamo chiacchierando. Limonov, a un certo punto, scocciato, si stacca. Andatura tra il colonnello e il playboy, fiero di tutte le contraddizioni. Un po’ guascone un po’ gangster. Ha vissuto in obbedienza alle proprie voglie. Stazione di Rimini. Deve tornare a Roma, s’imbarcherà per Mosca. Solo. Sul binario. Non si domanda dove andrà. Il giorno pare un cero. I binari la bava lucida del giaguaro divino, azzurro. Si è fatto un tatuaggio, quando lo hanno messo in prigione, nel 2001. Non ha voluto confessarmi il soggetto.  

La guerra è un Male assoluto, ci dice la morale convenzionale; dunque la pace è il Bene assoluto.

I media ci mostrano le vittime di guerra: cadaveri, feriti, donne, vecchi, bambini, rifugiati. Inorriditi, miserabili, sonori: le vittime ci colpiscono. Le vittime sono intervistate, fotografate, filmate. Intervistiamo molto meno i guerrieri, gli uomini armati, giovani e vecchi: i soldati. Se li intervistiamo, è nel ruolo di vittime. Eppure, dovremmo porre ai soldati la domanda spudorata: “Ti piace fare la guerra?”.

Testimone diretto di cinque guerre (in Slavonia, Transnistria, Bosnia, Abcasia, Ucraina) sono ansioso di dichiarare, commettendo – presumo – un sacrilegio: un certo numero di soldati, la maggioranza, direi, fa la guerra perché gli piace, ed è un piacere osceno. Il piacere osceno che spiega perché le guerre continuano.

Oppresso, disattivato, l’istinto di guerra si manifesta sempre non appena il clima è propizio. Ex Jugoslavia, ex Unione Sovietica. In tutte le ‘mie’ battaglie ho visto che di fronte alla scelta tra pace o guerra, un numero considerevole di uomini preferisce la vita di guerra rispetto a quella da rifugiato, disoccupato, lavoratore, pensionato. Ecco perché gli eserciti volontari sorgono ovunque, facilmente, lì dove il potere crolla. L’istinto guerriero precede l’ideologia.

La guerra fa schifo

Le baracche puzzano, i calzini dei soldati puzzano, le uniformi e gli stivali puzzano. Il soldato non può fare la doccia due volte al giorno come gli abitanti delle capitali dell’Europa occidentale, inodori, sterili, esangui.

L’odore freddo delle case bruciate, l’odore dei cadaveri, l’odore del piscio sono il profumo della guerra.

Novembre 1991, nei pressi di Vukovar. Apro la portiera della macchina. Le narici si gonfiano dell’odore acre e grasso dei cadaveri. Nonostante il freddo, l’odore è forte, molto forte, un odore che non si mitiga nonostante il fumo denso della stufa, vicino a me.

La guerra è un lavoro psicotico

Il dottor Zoran Stancovic e il suo assistente indossavano guanti medici, bianchi, girano su un fianco il corpo di una donna anziana. Il cadavere è spaventoso, marcio e bruciato, le dita delle mani carbonizzate fino all’osso. Ha un numero: 1-431.

I cadaveri: colori sgargianti, vividi, e osceni, sempre osceni. Gli organi sessuali maschili attaccati come miserabili vesciche, sembrano palloncini sgonfi.

La guerra è un’occupazione terribile, oscena, vergognosa. Due ore in un centro di identificazione dei cadaveri insegnano sugli esseri umani più di decenni di vita pacifica.

Soldati in camice verde scaricano i corpi da un rimorchio. Il dottore è alto, calvo, in tuta arancione da astronauta, si toglie i guanti, si lava le mani nel vento gelido sotto il filo d’acqua che sgorga dalla cisterna. I soldati, dopo aver scaricato i cadaveri, si dirigono verso le baracche, si scaldano vicino alla stufa e improvvisamente ridono… è normale perché la guerra è folle e chi partecipa alla guerra è un pazzo. Un’enorme massa di uomini banalmente folli si scontra – al freddo, dentro una terra di rovine fumanti – contro un’altra massa di uomini, ostile. Una folla di folli contro un’altra folla di… folli.

La guerra è follemente allegra

Come un grande evento sportivo all’aperto. Gli uomini sorridono, scherzano, giurano che la situazione è difficile, ma non c’è quella silenziosa tristezza che di solito pervade le grandi città occidentali. Forse i soldati ridono per scacciare la paura, forse per nasconderla. Non importa…

La guerra è molto più libera della pace

Questa libertà costituisce la principale attrazione degli uomini per la guerra. Il soldato è pieno di tempo libero. Per dirla cinicamente: ci saranno sempre uomini che preferiscono fare la guerra piuttosto che lavorare. La guerra fa sentire potente anche l’uomo più piccolo. Ammetto che anch’io, soldato mercenario, temporaneo, armato di pistole e Kalashnikov, circondato da amici in armi, mi sento mille volte più forte – e dunque più libero – che a Parigi o a Mosca. La morte è possibile, ma sono più protetto che a Parigi.

Il potere mi rende libero. Possiedo la mia vita e ho la responsabilità di difendermi. Ammetto di aver preso in considerazione l’ipotesi di rivolgere la pistola contro di me qualora la prigione fosse stata inevitabile. Non voglio essere torturato. Ho contemplato il suicidio con fredda fermezza, senza timore. La pistola calibro 7,65 Browning prodotta in una fabbrica jugoslava, Cervena Zvezda, totalmente inutile sul campo di battaglia, mi dà fiducia e stabilità. Questo non è ragionevole?

La guerra non è ragionevole

Apparentemente, gli uomini vogliono solo comfort, sicurezza, lusso. In verità, almeno per brevi periodi, preferiscono la lotta e il sacrificio. Vogliono bandiere, canti militari, eserciti, armi.

Il desiderio di guerra precede l’ideologia o l’ideologia precede le armi? Credo che alcuni uomini abbiano una sete biologica di guerra e che nessuna civiltà possa mutare la loro natura. “Rimuovere la violenza dalla vita umana significa rimuovere un colore dallo spettro dell’arcobaleno”, ha detto Konstantin Leont’ev, il ‘Nietzsche russo’. Il soldato è eterno perché la guerra è eterna. Come l’uomo e la donna, la guerra e la pace vogliono unirsi in un essere perfetto, ma non è possibile.

Eduard Limonov

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