Nel febbraio 1979, Michel Foucault chiudeva sul Corriere della Sera la sua controversa serie sull’Iran con un quesito tagliente. In Una polveriera chiamata Islam, ultimo di dieci articoli, si chiedeva: «Quale forza avrebbe il movimento “religioso” di Khomeini se proponesse la liberazione della Palestina come obiettivo?» Intrecciando spinta rivoluzionaria e spiritualità politica, Foucault prefigurava un Iran animato da una radicale ostilità verso Israele, individuando il seme del conflitto che avrebbe incendiato il Medio Oriente, trasformando una reciproca avversione in attrito, poi in aperto contrasto, infine nello scontro missilistico che oggi coinvolge l’intera area.
Un conflitto ormai proiettato su scala globale, non più relegato al piano regionale, che assume una centralità assoluta: frutto della rottura permanente dell’equilibrio di forze, rende oggi verosimile — per la prima volta, dopo ripetuti tentativi indirizzati negli anni a Bush Jr. e Obama — un coinvolgimento militare diretto degli Stati Uniti, sebbene anche per Trump, al netto delle sue oscillazioni, un’azione disintermediata resti estremamente onerosa, soprattutto in relazione all’obiettivo di rinsaldare un consenso interno sempre più fragile.
Ma è sul versante iraniano, dopo l’attacco israeliano del 13 giugno 2025 — fulmineo e chirurgico — che è stata attivata la leva dello Stretto di Hormuz, ventilandone la possibile chiusura (e che secondo il New York Times, potrebbe persino essere minato). Largo appena 34 chilometri nel suo punto più stretto, crocevia tra il Golfo Persico e quello di Oman, Hormuz non è eminentemente una rotta commerciale, ma una cerniera geopolitica. Tratta cruciale della catena di approvvigionamento energetico — da qui transita circa un quinto del petrolio mondiale —, sorvegliato dalla Quinta Flotta americana e situato frontalmente alla penisola di Musandam, lo Stretto è in grado di produrre fratture e convergenze, spingendo anche potenze riluttanti ad assumere posture inedite.
Il suo utilizzo strategico, da parte di Teheran, tenta di rovesciare la memoria della Seconda Guerra Persiana, dove le strettoie dell’Ellesponto e di Salamina si rivelarono fatali per le flotte di Serse. Ma la minaccia di chiusura dello Stretto non corrisponde a un piano operativo concreto, salvo il presentarsi della proverbiale situazione limite: troppo alti i costi logistico-militari, troppo elevato il contraccolpo economico che colpirebbe anzitutto la stessa Repubblica Islamica. Si tratta piuttosto di un’arma simbolica, di un orizzonte di senso che intende piegare la fragilità degli equilibri globali in chiave strumentale, spezzando l’equidistanza formale di potenze amiche solitamente restie a esporsi nell’agone geopolitico.
Teheran intende inaugurare un’era di “pragmatismo avanzato”, in cui ogni decisione sarà pesata sulla base dell’interesse strategico preminente, forzando l’abbandono di velleità equilibristiche o terzietà strutturale. Del resto, il fallimento delle trattative per la denuclearizzazione con gli Stati Uniti, strangolate da un’escalation repentina, obbliga l’Iran a considerare come sempre più concreto lo spettro di un coinvolgimento diretto statunitense.
Con l’impianto nucleare fortificato di Fordow — sepolto in profondità, praticamente inaccessibile alle armi convenzionali, individuato come obiettivo prioritario dell’offensiva israeliana e che ha messo in moto i bombardieri stealth B-2 americani — l’Iran ha bisogno di una rete diplomatica solida che copra la sua attuale esposizione. La Cina — principale beneficiaria della stabilità dello Stretto — è pertanto chiamata a una scelta strategica che potrebbe ridefinirne il ruolo globale.
Lo Stretto di Hormuz è infatti essenziale per gli approvvigionamenti energetici cinesi, e l’Iran, oltre ad aver aderito a SCO e BRICS, ha intensificato la cooperazione militare con Pechino e Mosca. È alla Cina che Teheran guarda come interlocutore privilegiato, affinché possa impegnarsi — anche in funzione della preservazione del proprio interesse nazionale — perché sia tutelata la sua stessa sovranità.
Tuttavia, lo scenario prefigurato dall’Iran è anche un banco di prova per Pechino. Una chiusura, seppur simbolica, di Hormuz — per quanto remota — rivelerebbe la vulnerabilità della proiezione esterna cinese. Fedele a un’impostazione anti-interventista, ereditata dalle epoche maoista e dengista, la Cina rischia di perdere influenza proprio per adesione ortodossa alla propria dottrina. La minaccia iraniana innescherebbe una crisi sistemica, colpendo la sicurezza cinese prima ancora di generare instabilità globale su vasta scala. In un contesto già segnato dalla guerra commerciale con gli Stati Uniti, dal ripensamento delle alleanze e da nuove convergenze con l’Asia centrale (recente vertice di Astana) e l’ASEAN, un regime change in Iran sarebbe un colpo durissimo. Oltre a minacciare la catena di approvvigionamento, comprometterebbe lo strumento di massimo prestigio del soft power cinese: la Belt and Road Initiative. Hormuz, dunque, argina il caos impedendo l’emersione di una nuova simmetria. Ma intanto si erge a soggetto geopolitico attivo, costringendo Pechino a un ripensamento posturale che ne rafforzi l’incisività negoziale. Nelle mani di Teheran, lo Stretto diventa leva per rimodellare i rapporti di forza e plasma il futuro dell’ordine mondiale.
La costruzione di una rete di pressione per la de-escalation rappresenta, quindi, l’unica via praticabile per una Cina già logorata dalle tensioni con Washington — dalla guerra commerciale al conflitto russo-ucraino — e ora chiamata a dimostrare, nei fatti, di poter davvero incarnare il ruolo di potenza responsabile.
In un contesto in cui il diritto internazionale appare svuotato e le relazioni tra Stati seguono una logica darwiniana, fatta di forza e capacità di adattamento, Pechino si trova a un bivio strategico. Abbandonare l’Iran significherebbe perdere un partner-chiave nella cintura eurasiatica e minare la propria credibilità nel Sud globale; esporsi troppo, senza un’architettura diplomatica chiara, rischierebbe invece di destabilizzare un equilibrio relazionale internazionale frutto di decenni di tessitura fino a compromettere anni di investimenti sulla BRI.
Sarà necessaria tutta la saggezza millenaria della tradizione strategica cinese, dal Tao all’Arte della guerra, per difendere la propria influenza senza precipitare in un conflitto aperto. Promuovendo la pace con autorevolezza e disinnescando l’inasprimento degli scontri. In questo equilibrio sottile tra cautela e incisività, torna attuale la lezione di Sun Tzu: «Sottomettere l’esercito nemico senza combattere è prova di suprema abilità.»