Nell’aria degli ultimi clangori del 16 giugno 1989, un giovane democratico, sotto i riflettori di Piazza degli Eroi a Budapest e nell’odore pirico delle fiaccole accese in onore agli eroi caduti durante la Rivoluzione Ungherese del ‘56, sferra un duro colpo politico a quel regime in decadenza e prossimo alla dissoluzione, chiedendo a gran voce il ritiro delle truppe sovietiche dal suolo ungherese. Il tutto accade di fronte ad una piazza gremita di uomini, donne e bambini, che applaudono la presa di posizione coraggiosa della futura spina nel fianco del Parlamento Europeo. Ha inizio l’ascesa e la metamorfosi di Viktor Orban e del suo partito. All’epoca Viktor aveva 26 anni, prossimo a concludere un brillante percorso accademico a Oxford, finanziato dalla fondazione di George Soros, oggi nemico pubblico dell’Ungheria. Dopo l’esecutivo nella coalizione a maggioranza socialista del ‘94, Fidesz dismette gradualmente i propri panni di promessa liberale, per portare avanti un progetto identitario attento all’anima cristiana di crocevia culturale ed etnico quale è l’Ungheria, vincendo le elezioni nel ‘98 questa volta senza i socialisti. Un’occasione per aderire alla NATO nel ‘99 insieme ai paesi limitrofi del Gruppo di Visegrad, con i quali manterrà rapporti di stretta collaborazione negli anni a venire. Fidesz perderà le elezioni del 2002 e del 2006, frangente socialista in cui verrà ultimata l’entrata nell’UE del 2004 e durante il quale il partito completerà la sua metamorfosi identitaria che lo porterà alla vittoria nel 2010. Sarà proprio la storia e la geografia dell’Ungheria a permettere ad Orban di fare del suo paese un ponte tra la Russia identitaria di Putin, l’Europa occidentale, i Balcani e la Turchia, ma non solo e qui il riferimento è diretto alla Cina di Xi Jinping.
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E’ interessante notare come dal 2010 ad oggi il premier ungherese abbia sfruttato la posizione di paese membro dell’Ue per godere delle numerose sovvenzioni, non prestiti, dall’Europa e nel contempo sia riuscito a cavalcare le spinte identitarie delle classi dimenticate dal liberismo posto in essere dal precedente governo, assumendo il ruolo di scoglio duro alle onde progressiste provenienti dalla sfera d’influenza americana nel vecchio continente e articolando una politica estera multilaterale efficace. Così da guadagnarsi un posto fisso nell’agenda di paesi come; la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, in seguito ad un incontro avvenuto nel 2018 a Budapest, dove i due leader hanno espresso il desiderio di legami economici più stretti e di una possibile cooperazione nella difesa; la Russia di Vladimir Putin con la quale il governo ungherese oltre ad accordi per il Paks Nuclear Deal, si è occupata anche di accordi per partecipare alla terza fase per la sperimentazione dello Sputnik-V, il quale non si è limitato ad essere diffuso in Ungheria, ma si è esteso anche alla Serbia, altro paese strettamente legato alla Russia, beneficiario anch’egli di tale amicizia; conseguenza sia storica che inevitabile, visti i ritardi europei nei procedimenti di accettazione della richiesta di diventare membro UE.
I fallimenti delle politiche di Bruxelles, per le quali è opportuno aprire una parentesi, hanno una rilevanza maggiore di quanto non si voglia credere; esse sono state delle opportunità colte al volo dalla Cina, che ha prontamente colmato i buchi finanziari, salvato dal fallimento imprese strategiche nelle nazioni in difficoltà, aggiungendo in maniera sistematica, un tassello dopo l’altro al puzzle della Nuova Via della Seta, la Belt Road Initiative, progetto lungimirante di penetrazione economica nel cuore d’Europa, i cui punti chiave sembrerebbero essere il Pireo, la Serbia, il Montenegro e l’Ungheria. Xi Jinping ha detto a Davos che è nell’interesse della Cina un’Europa prospera, in linea con l’orientamento relazionale win-win tipico per quegli obbiettivi per cui risulterebbe controproducente mettere a rischio i propri interessi con trappole del debito. A differenza di come è accaduto a Djibouti ad esempio, porto strategico per la Via della Seta Marittima nell’Oceano Indiano sullo stretto con il Mar Rosso, il cui governo, per garantire entrate maggiori ai giovani lavoratori, si è indebitato con il dragone per la costruzione di opere infrastrutturali che lo hanno poi portato ad una posizione di sudditanza economica e quindi anche politica. I porti caduti sotto la trappola economica cinese son molti di più di quelli disegnati nelle vecchie mappe dell’antica Via della Seta, che ritraggono tipicamente Mombasa, Malacca, Djibouti, Venezia e Pireo.
Sul Pireo forse vale spendere qualche parola in più, dato che la relativa società PPA è detenuta in sostanza dal socio di maggioranza cinese COSCO. In seguito alla crisi inaugurata nel 2011, con l’applicazione del Fondo Salva Stati al fine di saldare i debiti accumulati nei confronti dell’asse franco-tedesco, sono stati messi in atto tagli alle spese pubbliche e privatizzazioni, che hanno causato la svendita del Pireo alla COSCO, per altro già presente sul posto dal 2008, detentrice all’epoca di una piccola quota della società, coincidente con due piccole banchine del porto. Essendo però la Grecia un paese membro dell’Ue, Strasburgo ha operato in senso ostruzionistico alle esportazioni cinesi a partire dal Pireo. Era necessaria allora una figura statale che fosse europea e che non lo fosse al tempo stesso: la Serbia, pezzo unico insieme al Montenegro tra i pretendenti (per il momento) snobbati del mercato unico. La Exim Bank cinese è disposta a continuare a prestare miliardi al Montenegro per costruire un’autostrada che attraversa 165 km di catene montuose, collegando la Serbia con l’Adriatico tramite il Montenegro, e lo stesso sta accadendo per la modernizzazione dello scalo ferroviario Belgrado-Budapest, che verrà ultimato probabilmente entro il 2025.
Delineato dunque il contesto geoeconomico in cui è immersa la piccola Ungheria, risulta più comprensibile il motivo della sua importanza a livello mondiale. La politica multilaterale di Orban e del suo partito Fidesz ha tenuto testa alla Germania della Merkel e alle sue delocalizzazioni produttive del settore automobilistico sul suolo ungherese; tanto da obbligare multinazionali del calibro di Daimler ad assumere cittadini ungheresi, tanto da restare saldamente ancorato al PPE nel Parlamento europeo grazie alla mediazione del Cdu della Merkel sulla questione dello Stato di Diritto, la quale ha fatto i suoi interessi nazionali mantenendo quindi intatti i rapporti economici con Fidesz. Orban è pertanto riuscito a modificare la Costituzione al fine di proteggere senza mezzi termini i valori cristiani della famiglia naturale, pilastro fondamentale per l’equilibrio della società ungherese. L’impegno per la salvaguardia dei valori cristiani è in linea con quella dei governi polacco e russo, dove la cultura cristiano ortodossa è viva e vegeta, e opera insieme a questo asse cristiano per la salvaguardia dei cristiani perseguitati nel mondo. Lo fa in particolare in Medio Oriente e in Africa tramite la Hungary Helps Program, la quale specialmente durante la pandemia, si è attivata per inviare carichi umanitari in Iraq e Siria e una raccolta fondi per la ricostruzione di Beirut dopo l’esplosione.
L’avversità del mondo liberal di George Soros – contro il quale Orban ha sancito le cosiddette leggi anti-soros – che si articola in organizzazioni non governative ispirate all’ideologia popperiana della Società Aperta, si è fatta sentire nell’ultimo anno con violentissime manifestazioni LGBTQ+ in opposizione alle politiche pro-life del premier. L’onda liberal potrebbe rappresentare un problema ancora maggiore per Fidesz negli anni a venire, a causa della presidenza Biden, sia da un punto di vista ideologico che geopolitico, determinata a ostacolare il più possibile qualunque forma di sovranismo in affari con la Cina nel cuore d’Europa. Certo è che paesi come quelli del Gruppo di Visegrád, che hanno avuto un passato di occupazione comunista, difficilmente rinunceranno ad una tendenza conservatrice per fare spazio al secolarismo che fa da padrone in quella che i mediorientali definiscono la vetrina abbandonata dell’Occidente.
L’opposizione al liberalismo di George Soros ha preso forma concreta con gli ingenti investimenti cinesi, che oltre alla già citata Belgrado- Budapest finanziata dalla onnipresente Exim Bank, un progetto del tutto antagonista a quello dell’Università Europea finanziato dal magnate della Open Society, è quello dellaFudan University, campus universitario cinese tra i primi 100 nella classifica mondiale, pronto ad essere uno dei primi poli culturali del dragone su suolo europeo. Per quanto riguarda la pandemia, Fidesz ha subito messo in chiaro che non avrebbe accettato le condizioni imposte da Pfizer e Moderna e ha immediatamente aderito alla sperimentazione del vaccino Sputnik-V, per poi accettare anche la distribuzione del Sinopharm cinese, dando una svolta alla propria campagna vaccinale e rinsaldando i propri rapporti con i due colossi in questione, prendendo definitivamente, insieme a Putin e i paesi di Visegrad, le redini del sovranismo cristiano europeo. Molte saranno dunque le sfide da affrontare per l’audace Paese magiaro alle frontiere orientali dell’Europa, ma è anche vero che esistono due tipi di paese, quelli che parlano della Cina e quelli che parlano con la Cina. Della Cina Orban sembra non volerne parlare.
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