Henry Kissinger sosteneva che una delle differenze fondamentali tra l’approccio strategico cinese e quello occidentale fosse identificabile rispettivamente nel diverso approccio tra il gioco del wei ch’i e gli scacchi. Negli scacchi il predominio sul campo è funzionale all’eliminazione del nemico. Nel wei ch’i, gioco antichissimo che in Giappone è divenuto più noto con il nome di go, ciò che conta è proprio il controllo dello spazio.
Muovendo i propri pezzi gradualmente, la Cina si appresta oggi, senza alcuna fretta, a tessere una trama molto complessa. L’obiettivo è sempre Taiwan. Il perno intorno al quale ruotano la sopravvivenza e le ambizioni del Celeste Impero, cuore della prima catena di isole poste da Washington a soffocare le velleità del Dragone, è oggi una pedina in un più vasto goban (equivalente della scacchiera).
Se a contare è lo spazio, non l’eliminazione fisica del pezzo avversario, Pechino con cautela sta completando il proprio accerchiamento. Dapprima inscenando una globalizzazione a tinte rosse, passante per vie terrestri attraverso l’Eurasia. Poi superando il soffocamento statunitense verso ovest, attraverso il Pakistan, il Myanmar, la Cambogia e connettendosi all’Africa. Entrando nei Balcani e poi anche verso est. Aprendo a investimenti nel cortile di casa degli Stati Uniti. L’ultimo, non certo per importanza, è quello per il grande porto di Chancay in Perù. Accerchiamento completato nell’ormai irresistibile capacità tecnologica dei mandarini, in grado di apprendere, replicare e talvolta superare i propri rivali in settori chiave come l’industria automobilistica, robotica, nell’intelligenza artificiale e nella corsa allo spazio. Dominando la produzione mondiale di navi e di infrastrutture portuali. Infine, ed è una mossa ardita che stringe sempre più il cappio intorno a Formosa, aprendo a rapporti diplomatici sempre più stretti con gli Stati-isola del Pacifico. Difficile dire se tutto questo sia il segnale di un ormai prossimo sorpasso ai danni di Washington. Le differenze di stazza e il divario tecnologico tra il Dragone e l’Aquila restano notevoli e ci sono seri dubbi che a entrambi gli imperi convenga (per ora) confrontarsi in campo aperto. Inoltre permangono ancora delle debolezze strutturali, interne alla Repubblica Popolare.
Eppure i pezzi sono in movimento. E, assieme allo spazio, è il tempo l’altra variabile che potrebbe giocare a favore dell’uno o dell’altro contendente. Per la Cina resta vitale continuare a muoversi sul filo delle regole del mitologico sistema internazionale.
Scrivendo il resoconto di una straordinaria partita di go tra il venerato maestro Shusai e il giovane e super competitivo campione Osake, divenuto un capolavoro della letteratura giapponese e mondiale, Kawabata Yasunari sottolinea le differenze di approccio tra i due, rispetto al regolamento. La Cina è il venerabile maestro, che guarda all’arte e non alla competizione, ma è anche il giovane in grado di inserirsi nei vuoti normativi per trarne vantaggio:
«Nel momento stesso in cui si pongono delle norme per evitare tattiche scorrette, molti giovani giocatori trovano subito il modo per piegarle a loro vantaggio, elaborando strategie scaltre. Non mancano loro le armi per ideare espedienti, in modo da gestire convenientemente i limiti di tempo, le regole sull’ultima mossa di un incontro, la mossa in busta chiusa. Appunto così si perde il senso della partita come opera d’arte»
Nel gioco del go, come nel wei ch’i, vengono così riprodotti in miniatura i sottili meccanismi insiti nelle relazioni internazionali. Spietato terreno di scontro tra le potenze, in cui però vige (almeno tradizionalmente, in maniera a volte strumentale) un senso delle regole. Luogo in cui le energie intellettuali di tattici e strateghi si consumano, nel tentativo di occupare spazio, di amministrare e governare il tempo, per avere la meglio sul proprio o sui propri avversari.
La geopolitica diviene arte, nel momento in cui asseconda simili meccanismi. Il grado di complessità è infinitamente maggiore. I punti nodali da tenere presenti aumentano esponenzialmente, tenendo conto anche delle altre variabili, fatte di tecnologia e guerra ibrida. Il potenziale bellico è in realtà secondario se il controllo dello spazio non risulta ottimale.
Ne Il Maestro di Go, il gioco è l’assoluto protagonista e la sfida tra passato e presente si alimenta nella solennità del Maestro e nell’irruenza del suo allievo. Su di essi incombe inesorabile il tempo. Uomini e pedine organizzano il controllo dello spazio, consapevoli del debole margine tra la vittoria e la sconfitta. Compartecipi della tragedia umana che è, per esteso, tragedia delle grandi collettività e delle superpotenze. Un gioco mortale, al pari del go, in cui oltre all’abilità conta specialmente la saggezza. Ovvero, quella diplomazia che la decomposizione dell’unipolarismo statunitense si sta lasciando drammaticamente alle spalle:
«Questo è il destino delle umane sorti, degli individui come dei popoli. Saggezze che nel passato hanno illuminato la via di una civiltà per poi smarrirsi nel presente, antiche saggezze dimenticate nel presente ma i cui semi sbocceranno di nuovo nel futuro»