OGGETTO: L'escalation incontrollabile
DATA: 16 Giugno 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Analisi
AREA: Russia
La designazione da parte di Putin del governo ucraino come "terrorista" apre a nuovi scenari operativi e indebolisce le possibilità di negoziato. Parallelamente, gli Stati Uniti, apparentemente in fase di ridimensionamento in Europa, sono in realtà impegnati in una ricalibratura strategica contro la Cina. Il rischio di una crisi di fiducia tra potenze nucleari potrebbe minare l’equilibrio MAD e alimentare dinamiche tutt'altro che desiderabili.
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Nelle ultime settimane il conflitto russo-ucraino ha subito una nuova accelerazione, non tanto nei numeri o nell’intensità degli scontri, quanto nella qualità simbolica e strategica delle azioni. L’attacco ucraino ai bombardieri russi — parte della componente aerea della triade nucleare — e il conseguente dispiegamento di TU-160 in Siberia, così come la recente ondata di droni e missili russi su Kiev e Lutsk, sono indicatori di una dinamica di escalation che potrebbe preludere a una pericolosa destabilizzazione degli equilibri nucleari e geopolitici consolidati dalla fine della Guerra Fredda. Tuttavia, interpretare questa nuova fase con le categorie del passato rischia di generare più confusione che chiarezza. Bisogna leggere i segnali, le mosse simboliche e le dichiarazioni non per ciò che appaiono nella superficie mediatica, ma per quello che sottendono in termini di strategia, dottrina militare e proiezione di potere.

La retorica impiegata da Vladimir Putin, che ha recentemente definito il governo ucraino “terrorista”, segna un punto di discontinuità significativa nella comunicazione strategica del Cremlino. È una designazione carica di implicazioni: se l’Ucraina viene assimilata non più a un’entità statale legittima ma a un’organizzazione terroristica, allora viene meno ogni vincolo giuridico e morale a trattarla secondo le convenzioni del diritto bellico. L’accostamento, implicito ma chiaro, è con entità come Al-Qaeda o lo Stato Islamico: soggetti contro i quali ogni azione, anche selettiva contro i vertici, diventa legittima.

La strategia ucraina — sempre più orientata a colpire la popolazione e le infrastrutture civili in profondità, al fine di “far sentire la guerra ai russi”, come affermato dallo stesso Zelensky — è espressione di una transizione verso una guerra asimmetrica totale. Dopo il fallimento della controffensiva del 2023, Kiev sembra aver abbandonato la speranza di una vittoria convenzionale sul campo, affidandosi invece a un’erosione sistemica della resilienza russa, sul modello delle guerre irregolari moderne.

Ma è proprio questo cambio di paradigma che sta portando Mosca a considerare nuovi scenari operativi, tra cui l’eventualità di colpire direttamente i vertici politici e militari ucraini. Si tratta, se vogliamo, di un’evoluzione darwiniana della guerra: chi cambia per primo, e più radicalmente, le regole del gioco impone all’altro una ridefinizione dello spazio strategico.

L’interpretazione di alcuni media occidentali secondo cui il dispiegamento dei bombardieri strategici russi TU-160 in Siberia sarebbe un “ritiro dettato dalla paura” è non solo errata, ma pericolosamente fuorviante. Al contrario, questa mossa ha una forte valenza simbolica e geopolitica: si tratta di un messaggio diretto a Washington, non a Kiev.

I TU-160, noti anche come “Blackjack” secondo la classificazione NATO, sono piattaforme capaci di lanciare missili da crociera a lunghissimo raggio, compresi quelli a testata nucleare. Spostarli in Siberia — a oltre 6.000 chilometri dal confine ucraino — non li rende meno pericolosi, anzi. Dal cuore della Russia asiatica possono colpire obiettivi negli Stati Uniti passando sopra il Pacifico o il Polo Nord, rendendo più difficile l’intercettazione.

Il vero significato del dispiegamento è duplice: da un lato segnalare che i tentativi ucraini di minare la triade nucleare russa avranno come conseguenza un’alterazione dell’equilibrio strategico globale; dall’altro riaffermare, in chiave simbolica, la centralità della deterrenza classica. In un certo senso, è un ritorno alla logica del Mutual Assured Destruction (MAD), l’equilibrio del terrore che ha impedito per decenni una guerra nucleare tra superpotenze.

Roma, Maggio 2025. XXVII Martedì di Dissipatio

Il paradigma MAD resiste ancora, ma è sotto pressione. L’evoluzione tecnologica — in particolare lo sviluppo di missili ipersonici come l’Oreshnik — e la proliferazione di tecnologie anti-satellite, stanno ridisegnando il campo da gioco. Gli accordi storici come l’ABM Treaty, che limitavano i sistemi antimissile per preservare l’equilibrio tra offesa e difesa, sono ormai superati. Ma la realtà tecnica è rimasta invariata: nessun sistema antimissile attuale è in grado di distinguere in tempo reale una testata nucleare vera da una finta, a causa dell’uso delle cosiddette decoys (esche). Se lancio 10 vettori, e ognuno contiene un mix di testate reali e esche indistinguibili, l’efficacia della difesa scende a livelli quasi nulli.

A questo si aggiunge la questione, poco discussa, della vulnerabilità spaziale: i sistemi antimissile basati su satelliti in orbita bassa sarebbero facilmente eliminabili da missili antisatellite. La Cina, che ha già dimostrato di saperlo fare, è un altro convitato di pietra in questo scenario.

Mentre l’Europa orientale si prepara a un possibile allargamento del conflitto, negli Stati Uniti si assiste a un apparente disimpegno. Il dimezzamento della presenza militare in Europa e il ritiro da importanti basi logistiche in Polonia hanno indotto alcuni a parlare di abbandono. Ma la realtà è ben diversa. La dislocazione delle forze americane verso l’Indo-Pacifico non rappresenta un disinteresse verso l’Europa, ma una ricalibratura delle priorità. La Russia, pur essendo una potenza militare formidabile, non rappresenta oggi — agli occhi del Pentagono — una minaccia esistenziale per la NATO. Al contrario, la Cina è percepita come il principale sfidante al primato globale americano.

Questo non significa che Washington sia disposta a tollerare uno strappo profondo tra NATO ed Europa continentale, o un’alleanza tra Germania, Russia e Cina. Anzi, il vero vincolo strategico americano verso l’Europa rimane inalterato: qualora un simile asse dovesse anche solo profilarsi, la risposta americana sarebbe rapida e massiccia. Da qui il riarmo tedesco e l’attenzione verso l’Est Europa.

L’operazione “Ragnatela” condotta dall’intelligence ucraina contro la componente strategica russa ha sollevato dubbi sulla capacità degli Stati Uniti di controllare gli alleati più radicali. La possibilità che la CIA non fosse al corrente delle azioni dell’SBU è inquietante, perché mina alla base la coerenza del fronte occidentale. La recente assenza del Pentagono al vertice di Ramstein — un fatto senza precedenti — è un segnale che va in questa direzione. Le frizioni tra Washington e Kiev sono evidenti e segnalano una crescente divergenza nella gestione del conflitto. Mentre l’Europa, sotto la spinta soprattutto di Polonia e Regno Unito, tende verso un’escalation sostenuta, gli Stati Uniti sembrano voler rallentare.

La guerra in Ucraina non è più solo un conflitto regionale, ma un banco di prova per la ridefinizione degli equilibri globali. L’escalation simbolica — fatta di dichiarazioni, spostamenti strategici e colpi mirati — è il linguaggio con cui oggi si comunica nel sistema internazionale.

La Russia, colpita ma non vinta, sta adattando la sua postura a una lunga guerra di logoramento. L’Ucraina, a corto di opzioni militari convenzionali, vira verso il terrorismo strategico. Gli Stati Uniti, divisi tra le priorità cinesi e la lealtà atlantica, cercano un equilibrio sempre più difficile. L’Europa, infine, è ancora una volta al centro di un gioco che la supera, ma dal quale dipenderà il suo futuro.

In tutto questo, il vero pericolo non è l’imminenza di una guerra nucleare, ma la progressiva erosione di ogni forma di trasparenza e fiducia tra potenze. Ed è in questo vuoto che si può annidare l’escalation vera, quella che nessuno saprà più controllare.

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