«La diplomazia è più simile a una disciplina di combattimento che a una tazza di tè. Il diplomatico, l’ambasciatore, come il console generale, ha un ruolo di rappresentanza. In virtù della sua preparazione generale, il suo campo di competenza è ampio. Non si può improvvisare. La diplomazia è una missione regale, come quella della prefettura».
Afferma con tono pacato e sicuro, in un’intervista rilasciata a VaticanNews, Élisabeth Beton-Delègue, che ha concluso la sua missione in qualità di ambasciatrice francese presso la Santa Sede lo scorso gennaio. Non è l’unica a esprimere più di qualche riserva sulla riforma del corpo diplomatico francese varata il 17 aprile 2022, qualche giorno prima del secondo turno delle elezioni presidenziali.
La pubblicazione del decreto sul Journal officiel viene accolta con nervosismo e aspre critiche da parte tanto degli alti funzionari dello Stato quanto dai partiti di tutto l’arco politico. «Vuole sostituire dei funzionari statali imparziali con una rete clientelare», commenta Marine Le Pen. Al suo parere si associa Jean-Luc Mélenchon: «La Francia assiste alla distruzione della sua rete diplomatica dopo diversi secoli. La seconda più grande del mondo». Ma il malessere covato nei ministeri francesi emerge con clamore in occasione della storica manifestazione di protesta del 2 giugno scorso e della successiva costituzione di una Association française des diplomates de métier.
«Rimette in discussione il processo di ammissione per concorso, sia attraverso l’École nationale d’administration (ENA), sia attraverso esami specifici, come il concours d’Orient»
Élisabeth Beton-Delègue)
La posta in gioco è ben più alta di quel che può sembrare a una prima impressione. Terza rete diplomatica a livello mondiale dopo Stati Uniti e Cina, la diplomazia francese contava nel 2015 circa 14264 membri del personale, 178 ambasciate e rappresentanze permanenti e 92 consolati generali. Nonostante i tagli subiti negli ultimi vent’anni, il Quai d’Orsay si è sforzato di mantenere immutata la sua dimensione universale, a differenza di altri ministeri degli Esteri. Eppure, la recente riforma è stata paragonata, a torto o a ragione, a un terremoto senza precedenti: mise en extinction dei due rami costitutivi del corpo diplomatico d’oltralpe, i “consiglieri degli Esteri” e i “ministri plenipotenziari”. Questi dovrebbero confluire entro la fine del 2023 in un corpo degli “amministratori dello Stato”, aprendo alla possibilità per tutti i funzionari di muoversi da un ministero all’altro.
«Non si diventa di colpo diplomatici. Si tratta di un vero e proprio apprendistato che si acquisisce sul campo, di missione in missione».
Un ambasciatore in congedo all’Agence France-Presse
Ma non si può comprendere la portata della riforma se non la si mette in relazione con la più ampia ridefinizione delle pubbliche amministrazioni francesi impostata dalla presidenza Macron. «Le carte sono state rimescolate perché l’ENA non esiste più», osserva Élisabeth Beton-Delègue. Non è certo una novità che in Francia si punti il dito contro il sistema di formazione delle élite politiche e amministrative delle grandes écoles: prima tra tutte l’ENA, dominata dagli héritiers de la culture dominante e pervasa di noblesse d’État, secondo Pierre Bourdieu e Jean-Claude Passeron. Molti, persino i più insospettabili, si sono schierati contro la conservazione dell’énarchisme, come Bruno Le Maire nel 2016, allora candidato alle primarie della destra ed ex allievo all’ENA.
Con la giustificazione di dover porre rimedio a un ascensore sociale compromesso rispetto a 50 anni fa, Macron, “ultimo grande enarca”, rimpiazza l’ENA con l’Institut du service public (IEP), istituzione responsabile della formazione di tutti gli alti funzionari del Paese, sulla base di un concorso ripensato applicando un metodo di discriminazione positiva all’ingresso. E, pur tuttavia, la battaglia di Macron sembra appena avviata. A sostegno dell’iniziativa di avvicinamento alla Russia da lui promossa, il 29 agosto 2019 il presidente francese si lasciò sfuggire un’affermazione insolita, come riporta Liberation: «Noi anche abbiamo il nostro Stato profondo […] e so che molti di voi si sono formati nel segno di un clima di sfiducia verso la Russia». Ecco che Macron si ritrova a confrontarsi con lo Stato profondo francese.
«E quindi la tendenza collettiva potrebbe essere quella di dire: – Lui ha detto così, ma noi sappiamo la verità, continueremo come abbiamo sempre fatto».
Emmanuel Macron alla “Conférence des ambassadeurs et des ambassadrices” dell’agosto 2019)
Certe uscite pubbliche del presidente della Repubblica francese vengono mal tollerate al Quai d’Orsay, secondo un diplomatico presente alla conferenza del 2019. Secondo Christian Lequesne, docente del Centre de recherches internationales di Sciences Po, «i diplomatici utilizzano metodi di resistenza indiretti, volti a sabotare la situazione lasciando che le cose si trascinino». Di un grado non indifferente di resistenza interna al Quai Macron aveva fatto esperienza fin dai primi anni alla presidenza della Repubblica, e su svariati dossier di politica estera, da quello russo alle crisi mediorientali. Quando si percorse la strada della reintegrazione della Russia nel club europeo, e in particolare nel Consiglio d’Europa, anche mediante l’azione diplomatica di Jean-Pierre Chevènement, stretto collaboratore di Macron già nel 2016, poi nominato rappresentante speciale per la Francia in Russia nel 2020, proprio Chevènement osservò:
«Quando il Presidente Macron mi riceve con tutto il suo “staff”, percepisco subito che ci sono persone sulla vecchia linea. Mi sono scontrato con lo Stato profondo a tutti i livelli. Tutte le mie proposte contraddicevano alcuni funzionari del Quai. Da Bernard Kouchner [Ministro degli Affari Esteri dal 2007 al 2010], e dalle nomine che ne sono derivate, la linea su questo tema è stata quella dei neoconservatori americani».
Le Monde Diplomatique ha identificato alcuni dei centri di potere dello Stato profondo che minano alla base il percorso riformatore di Macron. Fino alla sua morte, nel 2012, la politologa Thérèse Delpech riuniva intorno a sé un pugno di alti funzionari del Quai, esperti in affari strategici e lotta alla proliferazione nucleare e paragonati a una “setta” dai loro detrattori. A partire dal 2001 ha guadagnato terreno anche il Cercle de l’Oratoire, che tanto spinse per l’intervento militare in Iraq.
«Nel giro di quindici anni, questi diplomatici “occidentalisti”, che ritengono che la Francia debba difendere i “valori occidentali” e non possa avere una politica estera troppo autonoma, si sono imposti alla guida della direzione politica e strategica del Quai».
Hubert Védrine, ministro degli Esteri dal 1997 al 2002)
Era giugno 2017 quando Macron dichiarava in un’intervista rilasciata a Le Figaro:
«Con me verrà la fine di una forma di neoconservatorismo importata in Francia da dieci anni. La democrazia non si impone dall’esterno all’insaputa del popolo. La Francia non ha partecipato alla guerra in Iraq e ha fatto bene a farlo. Ed è stato sbagliato condurre una guerra in questo modo in Libia. Qual è stato il risultato di questi interventi? Stati falliti in cui prosperano i gruppi terroristi. Non voglio che questo avvenga in Siria».
Non v’è motivo di dubitare che, nell’ottica di un ritorno della Francia al ruolo di grande potenza promotrice di un’autonomia strategica dell’Unione Europea, l’attuale inquilino dell’Eliseo accantoni il discorso sui valori occidentali e restituisca il primato alla Realpolitik. Ma gli interrogativi sulla qualità della formazione del futuro corpo diplomatico restano insoluti, con la progressiva estinzione degli “enarchi”. E sono interrogativi tanto più urgenti di fronte al vuoto di leadership che ha segnato i recenti anni di crisi.