Fin dagli albori della storia, lo spazio territoriale è stato interpretato dagli uomini come spazio politico, ossia come luogo di dispute per il suo dominio. Uno spazio non può restare vuoto, res nullius, esso è sistematicamente penetrato da una forma di potere, diretta o indiretta che sia. Come per gli individui anche per le entità politiche il concetto di «autodeterminazione» è astratto, sempre soggetto al ridimensionamento da parte di forze esterne: il potere è dialettico, deve relazionarsi con un’altra forza per conoscere i suoi vincoli, così come le sue oggettive capacità d’azione. La divisione dello spazio in sfere di influenza è innata ai rapporti di potere fra entità politiche, indipendentemente dall’unità di grandezza che le caratterizza.
Così lo spazio della Grecia classica ha visto lo scontro fra le póleis legate ad Atene con quelle fedeli a Sparta; nel Medioevo l’Europa cattolica ha arginato, pagando con l’abdicazione alla sua egemonia nel Mar Mediterraneo, l’esuberante ascesa del potente impero musulmano; qualche secolo più tardi, all’interno dello stesso continente europeo, a partire dal XVI, si è consumata, all’altezza del fiume Elba, una frattura fra Europa cattolica nel sud ed Europa protestante a nord; ancora, dopo la battaglia di Waterloo, le monarchie europee dell’antico regime hanno “restaurarono” il loro tradizionale sistema di potere all’insegna dell’equilibrio fra le proprie rispettive forze; infine, nella seconda metà del Novecento, le due entità politiche che maggiormente avevano contribuito alla sconfitta del nazifascismo, lottarono a distanza, utilizzando i mezzi della proxy war, per affermare la propria influenza e il proprio modello di pensiero all’interno di un’arena che aveva raggiunto le dimensioni di uno spazio globale.
Il quindicesimo vertice dei Brics – il foro delle economie più rampanti fra quelle dei Paesi in via di sviluppo – ha formalizzato l’allargamento del consesso a sei nuovi membri: Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia ed Iran. Il fatto che i cinque membri tradizionali – che rappresentano da soli rispettivamente il 42% della popolazione e un quarto del Pil mondiale -, si siano decisi, dopo oltre un decennio di gestione ristretta, ad un allargamento così pronunciato, può tradursi come chiaro messaggio volto a suggellare una nuova fase della divisione del mondo in sfere di influenza. Difatti l’invasione russa dell’Ucraina, che in altri termini può anche essere definita come la ribellione di Mosca all’ordine internazionale creato dagli Stati Uniti, associata, oggi, all’allargamento del Brics, forzano Washington con tutto l’occidente ad un ritorno al principio di realismo. Il momento unipolare, eccezione della storia, è ufficialmente esaurito.
Nella dichiarazione finale del vertice di Johannesburg si rendono manifesti due macrobiettivi (che, potenzialità a parte, potrebbero definirsi più malignamente “macrosogni”), uno di tipo economico-finanziario, e un secondo di stampo politico-istituzionale. Il mitologico obiettivo di «de-dollarizzazione» dell’economia mondiale, paventato da diverse testate giornalistiche, anche specializzate, rientrerebbe in realtà in un’altamente fiaccante ma certo più circoscritto progetto di creazione di un sistema di pagamenti internazionali alternativo ma competitivo al dollaro statunitense. Indirizzare una mossa in tal senso trova facili giustificazioni nello strapotere del biglietto verde nelle transazioni internazionali e nel controllo statunitense sulle leve degli istituti di credito internazionale (Fmi e Banca Mondiale). Gli esempi non mancano. L’esclusione della Russia dal sistema Swift ha depresso notevolmente la sua economia, la quale, nonostante tutto, è riuscita ad aggirare le sanzioni e a trovare nuovi mercati solo grazie all’abbondanza delle sue preziose materie prime: cosa accadrebbe ad uno Stato a basso reddito, con scarse risorse, se venisse escluso da quel sistema di pagamenti? Allo stesso modo emanciparsi dalle istituzioni finanziarie gestite da Washington significherebbe ridurre notevolmente la potenza di fuoco del meccanismo sanzionatorio, vero sostituto alla guerra attiva, che sempre più spesso colpisce i Paesi ribelli all’ordine internazionale liberale (vedi ancora una volta la Russia oppure l’Iran) strangolandoli poiché la sua ricaduta secondaria è quella di colpire tutti i Paesi terzi che commerciano o investono nel Paese sanzionato. Emanciparsi dal dollaro e dalle istituzioni che lo rendono famelico, significa maggiore capacità di arbitrio per coloro che non si sentono riconosciuti da quel sistema di regole vergato col chiaro di fine di perpetrare i vantaggi dell’Occidente. La costituzione, nel 2015, della New Development Bank, ossia una banca di sviluppo che permette ai membri Brics di effettuare scambi commerciali senza la mediazione del dollaro, rappresenta, al momento, solo uno stadio embrionale (per ora gli scambi si aggirano intorno ai 35 miliardi) del fantasmagorico processo di emancipazione summenzionato.
La ricerca di nuovi meccanismi finanziari da parte dei Paesi emergenti certo sancisce l’ingresso nella dinamica economica della «slowbalization». In un articolo uscito sull’ultimo numero di Foreign Affairs la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, denuncia come alla base della diminuzione della ricchezza globale e all’aumento della povertà stia la sinergia fra protezionismo di Stato e decoupling, ossia la dissociazione dei legami fra economie sovrane che l’ultraliberismo dagli anni Ottanta aveva integrato. Rispetto alla situazione fotografata da Georgieva, i Brics puntano sì ad un decoupling ma comunicativo. Dalle dichiarazioni di Johannesburg sembra scorgersi in nuce l’idea di formalizzare un nuovo ordine mondiale caratterizzato da blocchi economici distinti – ciascuno operante con una propria valuta di riferimento -, ma che non dimentichi il dialogo tra blocchi stessi, i quali si riconoscono tacitamente nella lingua comune del capitalismo. Pertanto, si potrebbe distinguere all’orizzonte di un potenziale futuro, una nuova economia mondiale impermeabile al protezionismo, frammentata sotto il punto di vista valutario ma dialettica nel suo funzionamento sistemico.
Sotto il punto di vista politico-istituzionale il Brics allargato punta a riorganizzare, in senso meno occidentale, il corpus di istituzioni create con la fine del Secondo conflitto mondiale. Storicamente il sistema legislativo con cui hanno funzionato e funzionano l’Onu o il Fondo Monetario Internazionale ha in qualche modo perpetrato il fantasma della missione civilizzatrice occidentale nei confronti di altri luoghi del mondo ritenuti barbari solo perché legati a tradizioni politico-culturali radicalmente altre. Il fondamento legislativo di siffatte istituzioni internazionali riconosce come simile chi accetta certi valori, indicando, viceversa, come estraneo, chi ne ripudia il fondamento: quest’ultimo non sarà pertanto soggetto ma oggetto passivo, colonia, protettorato, di chi al sistema è integrato.
A questo proposito, fra le missioni dei nuovi Brics figurano: la riorganizzazione del sistema di veto nel consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; la possibilità di fare entrare a pieno titolo nel G-20, come ventunesimo membro, l’Unione Africana; la discussione di nuovi parametri per l’elargizione di prestiti internazionali da parte di Fmi e Banca Mondiale.
Il pregio (o la tracotanza) di tali obiettivi per un futuro non troppo lontano si scontra con la severa realtà di una lampante divisione interna, per i motivi più disparati, fra i Brics stessi. Diversamente da Russia e Cina che propongono una linea di rottura con Stati Uniti ed alleati, India, Brasile e Sudafrica preferiscono mantenere buoni uffici con quella parte del mondo. La stessa India è un caso emblematico. Membro di punta del Brics, si vanta di essere alleato strategico del Quad – una alleanza con Stati Uniti, Australia e Giappone per contenere l’espansione della Cina nell’Indo-pacifico -; sempre l’India condivide inoltre con la Cina il fardello di una guerra d’attrito endemica sul confine Himalayano. Il disallineamento fra alleati si è potuto osservare, nel corso degli anni, anche nelle preferenze di voto durante le assemblee generali dell’Onu.
Se si pensa ad un organismo come la Nato o all’unanime condanna verso l’invasione russa dell’Ucraina, espressa all’Onu da Stati Uniti ed alleati, si scopre come il blocco occidentale sia il sistema di alleanza più leninista che mai sia apparso sulla faccia della terra. Il suo centralismo democratico è adamantino: quando gli Stati Uniti (e alleati) prendono una decisone, questa è seguita da tutti e in modo marziale. La forza dell’occidente sta ancora nella fiducia reciproca. Fino a quando il Brics non troverà un linguaggio o un sistema di valori comuni le sorti della partita non potranno essere ribaltate.