È ormai passato quasi un mese dall’offensiva ucraina nell’Oblast di Kursk. Paradossalmente, ad una delle escalation più importanti dall’inizio del conflitto – almeno dal punto di vista simbolico –nessuna nuova minaccia di rappresaglia nucleare è seguita dagli ambienti del Cremlino, nemmeno dai soliti sospetti. Al di là delle minacce a favore di telecamera, Mosca vuole evitare a tutti i costi l’escalation nucleare: altrimenti costringerebbe i suoi alleati e i neutrali a vedere nella Russia una potenza intrinsecamente aggressiva, ormai fuori controllo, pericolosa per la stabilità dell’intero sistema globale.
Eppure, secondo la dottrina di sicurezza nucleare russa, un’occupazione del territorio nazionale (e questa volta non si tratta di zone recentemente occupate) dovrebbe rappresentare un casus belli formalmente inattaccabile per i fautori dell’escalation nucleare. Ciononostante, questa volta tutto è taciuto.
Non solo, l’immagine che la Russia voleva proiettare a sé stessa con questa guerra – quella di una grande potenza che interviene per ripristinare l’ordine nel suo giardino di casa – avrebbe potuto richiedere una reazione assoluta di fronte a un’operazione di tale sfrontatezza. Invece, la ritorsione di Mosca non ha deviato dal binario già ampiamente conosciuto in questa guerra, in qualche modo accettando di mettersi sullo stesso piano dello Stato invaso, e accettando questa occupazione di suolo nazionale come ‘parte del gioco’ a cui Putin ha deciso di giocare.
Il Cremlino non ha sventolato la minaccia nucleare, proprio perché a questo giro non si sarebbe più trattato di mosse propagandistiche, ma sarebbero dovute seguire alle parole i fatti. Il che ci dice due cose: i fautori dell’escalation non sono (per ora) maggioritari a Mosca, e, agli occhi di Putin, non esiste alcun casus belli per giustificare un’escalation nucleare (almeno per ora).
Il primo fatto si può interpretare come un segnale in qualche modo positivo: la dimostrazione che la Russia non è ancora intenzionata a cestinare ogni norma condivisa (anche dalla Cina, ad esempio) per gli scopi di questa guerra, e vuole invece mantenere quel minimo di ‘razionalità sociale’ necessaria a distinguere uno Stato insoddisfatto dello status quo da un cosiddetto Stato canaglia. La guerra è un gioco pericoloso, e questa fa parte delle conseguenze.
A separarci dall’esplosione atomica ormai non c’è più il diritto, ma solo quella residua sensibilità sociale, quella reticenza mentale a farsi beffe di una regola che tutti gli altri membri della comunità internazionale considerano ancora sacra, e fondamentale per essere accettati. Ciò per la buona ragione che, oltre a quella linea, è territorio storicamente inesplorato per i destini dell’umanità. Ovviamente, tutto ciò non tanto per un fatto morale, ma per le conseguenze (tutte diplomatiche, ma con chiare ricadute belliche) che scaturirebbero dal calpestare forse l’ultima regola condivisa nella comunità internazionale.
D’altronde anche i precedenti storici si orientano in questa direzione. India e Pakistan hanno combattuto guerre di confine di on migliaia di morti, resistendo alla tentazione dell’escalation; e dal rifiuto di Truman del ’51 (la richiesta dei comandanti militari fu di trasformare Pechino in una nuova Hiroshima per impedirne l’ingresso nella guerra di Corea), l’opportunità di colpire on armi nucleari una piccola potenza non si è più riproposta in ambo i blocchi. Questo perché nessuna esplosione nucleare non può rimanere al livello locale, diventa automaticamente di interesse globale; tutte le grandi potenze devono trarre le doverose conclusioni e mettere in atto le contromisure. Nel caso estremo, le alleane tattiche non contano più, e il contenimento diventa l’unica opzione; questo Mosca lo sa.
Certo, mai nessun Piccolo aveva sfidato l’integrità territoriale del Grande. Per questo dobbiamo spingerci a fondo nelle dottrine della deterrenza, per scoprire che a questo livello il bluff psicologico che ne è alla base non può tenere. Da un lato abbiamo la ‘Linea Sansone’, che ad una limitata offensiva a fini esclusivamente negoziali e senza rischi per l’operazione russa nel suo complesso (tale è l’azione ucraina) dovrebbe rispondere con un’escalation sproporzionata capace di emarginare seriamente e a lungo termine la Russia dalla comunità internazionale. Il tutto per riconquistare poche centinaia di chilometri quadrati che tornerebbero sotto controllo russo al tavolo dei trattati.
È una rivincita per i (pochi) teorici dell’autodissuasione, che hanno osato portare alle estreme conseguenze logiche il ruolo dell’arma nucleare, e postularne la (quasi) irrilevanza nella competizione tra grandi potenze: in un mondo in cui le armi di distruzione di massa sono in mano a più attori contrapposti, quale minaccia può mai giustificarne l’impiego con le conseguenze politico-militari?
Possiamo eliminare dalla lista anche occupazioni limitate del proprio territorio a fini esclusivamente tattici, nonostante dottrine fin qui ritenute solidissime. Rimane il vero nocciolo della deterrenza: la minaccia esistenziale, quella che mira all’eliminazione in quanto personalità politica indipendente. L’estremo ultimo prima della totale irrilevanza. E non è questo il caso dell’incursione ucraina.
Tutto ciò che separa la situazione attuale dal caso estremo dell’occupazione totale sopra postulato è territorio inesplorato di competenza della brinkmanship, l’arte del provare a piegare l’avversario con (quasi) ogni messo, fino a un passo dal punto di rottura. Da questo punto di vista perlomeno l’equilibrio dei mezzi ci giustifica a non immaginare scenari apocalittici.
Ma non è l’unico tunnel pericoloso a cui bisogna fare la massima attenzione; da due decenni almeno ci siamo incamminati su un sentiero scivoloso: quello della polarizzazione che sta attraversando la politica mondiale, e che domani potrebbe rendere razionale agli occhi del cerchio magico di Putin una reinterpretazione esplicita della defezione ucraina come tassello della strategia occidentale di cancellare l’identità russa di grande potenza imperiale, per farla sedere al tavolo delle medie potenze europee. La storia ci insegna che la distanza che intercorre tra la sottomissione manu militari e la disintegrazione politica dopo la sconfitta sta tutta negli occhi di chi la guarda.