Vladimir Putin gioca al ribasso sui tavoli diplomatici, ma alza il livello dello scontro militare sul campo. Nonostante le richieste avanzate dalla sua delegazione – neutralità dell’Ucraina, smantellamento dei corpi para-militari neonazisti, e riconoscimento della Crimea – appaiono tutto sommato “accettabili”, da Oriente stanno arrivando i professionisti della guerra totale (paracadutisti, ceceni, unità del Gruppo Wagner, soldati che hanno combattuto in Siria), mentre a Occidente è cominciata la corsa al riarmo. In Ucraina è anche una guerra contro il tempo, la Storia – tutt’altro che finita – corre a una velocità supersonica. Quanto sta accadendo in Europa Orientale è un affare gigantesco, e non perché sono saltati tutti i palinsesti televisivi per diventare dei canali di diffusione only news e h24. È un affare gigantesco e basta. Ci sono momenti come questo, dove non occorre scendere in un sottoscala di un albergo, ma salire sulla torre e guardare da tutte le parti, ma soprattutto tornare indietro nel tempo per potersi preparare al migliore e – se necessario – al peggiore scenario possibile.
La premessa fondamentale è che i popoli europei non sono pronti alla guerra. Il Continente è Vecchio, sul piano demografico, spirituale, ma soprattutto civilizzazionale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la formalizzazione dell’Unione, si è deciso di rinunciare alla volontà di potenza per perseguire il benessere economico, e di porre la qualità della vita in cima agli obiettivi. I grandi imperi vivono di sacrifici, i suoi abitanti, a parte qualche bolla – che sia una metropoli, un quartiere o ceto sociale – soffrono. La volontà di potenza è prima di tutto l’accettazione di una mentalità imperiale, dunque una vita di sacrifici e di sofferenza. E di certo non possono essere soltanto due anni di restrizioni legati all’epidemia, nonostante il linguaggio bellico dei suoi narratori, ad aver fortificato la tempra degli europei. Il nemico invisibile non si dichiara, si infiltra nella comunità, uccidendo civili innocenti più fragili, tanti, ma niente di paragonabile in fondo al costo di vite umane dei veri teatri, quelli dove si combatte ancora oggi, armi e molotov alla mano. Lì, ai ragazzi dai 18 anni in su viene impedito di lasciare il Paese, ad altri viene chiesto di abbandonare gli studi per anticipare la leva, i villaggi, le case, le città si ritrovano con sole donne e bambini perché gli uomini sono tutti sul campo di battaglia, le razioni di cibo quotidiano improvvisamente sono limitate. A noi è stato chiesto, con le buone e con le cattive maniere, semplicemente di stare a casa. Una comfort zone.
Adesso ci viene chiesto, per la prima volta, e legittimamente, di pensare la guerra nel cuore dell’Europa. La Francia ci ricorda di essere una potenza nucleare, la Germania, tramite il nuovo Cancelliere Olaf Scholz, ha deciso di investire il 2 percento del PIL nelle forze armate, l’Ue rimette finalmente la guerra in cima alla sua agenda strategica. Ma è altrettanto legittimo domandarci se questa guerra permanente siamo davvero pronti a sostenerla psicologicamente e fisicamente, se la strada di un pacificazione dell’Ucraina sia ancora percorribile, ma soprattutto se ci conviene davvero andare fino in fondo. Quello che vediamo in questi giorni è l’epilogo di una storia cominciata nel 2014, ma da Temporeggiatore, Vladimir Putin si è preso le sue responsabilità, e ha indossato la divisa dell’Invasore, senza un casus belli preciso. La Russia è diventata una Federazione, ma il racconto di sé stessa è rimasto fermo ai tempi dell’Unione Sovietica. La guerra “umanitaria” è un ossimoro che funziona, “la guerra per procura” è dissimulazione, la “guerra totale” è ingiustificabile. Lo Zar sembra non fidarsi nemmeno più dei suoi, persino del ministro degli Esteri Sergei Lavrov, fino a qualche settimana fa star indiscussa dei summit internazionali, oggi più realista del re per dimostrare negli attimi decisivi, la propria fedeltà al capo. L’umiliazione, il tradimento e il risentimento rientrano nella sfera emotiva e privata, che inevitabilmente l’opinione pubblica, trascinata in qualcosa di molto più grande, non può – e giustamente non vuole – comprendere fino in fondo.
Adesso, di fronte alle conseguenze dirette sui civili ucraini, e indirette sui popoli europei, c’è da chiedersi se esiste ancora un punto di svolta dentro a un punto che sembra senza ritorno. A bruciare non è il mondo ma l’Europa, e qualcuno anche in Italia sembra aver capito che c’è ancora la possibilità di spegnere l’incendio che divampa pur continuando a costruire un sistema di sicurezza collettivo per il Vecchio Continente. Fin dall’inizio Silvio Berlusconi, facendo valere la sua amicizia personale con Vladimir Putin, si è messo a disposizione del premier Mario Draghi sul dossier ucraino, il quale in una prima fase ha tentato di percorrere la via della distensione per poi cedere – su pressione dei dem statunitensi – sul tema delle sanzioni. Ma soprattutto c’è stato l’intervento di Matteo Renzi, che ha individuato l’unica personalità davvero in grado di fermare la guerra con un incarico da “inviato speciale”: Angela Merkel. E’ proprio lei, oggi, l’ingranaggio che inceppa il sistema delle relazioni internazionali. Non è un caso che la proposta venga dal leader di Italia Viva, che dopo l’operazione per far cadere il governo Conte II, sognava un posto da Segretario della Nato, salvo poi rimanere al palo. Cresciuta nella Germania Est, conosce la mentalità russa, è rispettata in tutta Europa, ha un canale di contatto privilegiato con la Cina, ma soprattutto si è impegnata fin dall’inizio della crisi ucraina, tramite il “Formato Normandia”, per far rispettare gli accordi di Minsk. Quello che sta accadendo è strettamente collegato alla sua uscita di scena dalla vita politica tedesca. Qualora si aprisse questo scenario, la Germania firmerebbe la “guerra” con la decisione di Olaf Scholz e conquisterebbe la “pace” con Angela Merkel. Dove sono coloro che fino a ieri la chiamavano “Regina d’Europa”?