Nel maggio del 2025, Xi Jinping stringe la mano a Vladimir Putin a Mosca. Le telecamere immortalano il gesto come se fosse l’ultima cena del multipolarismo. È l’undicesimo incontro tra i due da quando Xi è salito al potere, e il palcoscenico è preparato con dovizia di simboli: celebrazioni per la vittoria sovietica contro il fascismo, dichiarazioni sulla fratellanza strategica e una ventina di accordi firmati sotto l’effige di un mondo policentrico. I due leader brindano al Cremlino sotto il vessillo dell’amicizia incrollabile mentre sullo sfondo incombono il conflitto in Ucraina, l’economia russa sotto sanzioni e la sfida sistemica di Pechino a Washington. Tuttavia, dietro la cortina di velluto prende forma un copione alternativo fatto di veti, dossier di contro-spionaggio e concorrenza artica.
Nell’incontro moscovita Xi e Putin proclamano la “Nuova Era” e firmano una dichiarazione che intreccia sovranità, de-dollarizzazione e ambizioni multipolari. La data scelta, il 9 maggio, inscrive l’alleanza in un mito storico condiviso. La scenografia assolve a due funzioni: dare ossigeno finanziario alla Russia e garantire alla Cina un partner nucleare che complichi il calcolo strategico di Washington. Circa un mese dopo, il New York Times pubblica stralci di un memorandum dell’FSB che definisce la Cina “nemico” e descrive il programma di contro-spionaggio Entente-4 (attivo dal febbraio 2022). Le accuse sono molteplici e vanno dal furto di tecnologie testate in Ucraina e riscrittura storica dell’Estremo Oriente fino alla penetrazione in artico e Asia Centrale tramite istituti di ricerca. In risposta, l’FSB avrebbe hackerato WeChat e compilato elenchi di cittadini russi “eccessivamente filo-cinesi”.
Il rapporto dell’FSB – otto pagine di inquietudine strategica qualora sostanziato – getterebbe luce su uno scenario di ansia e timore tattico per il futuro. Lo spionaggio cinese è ritenuto particolarmente attivo nei settori militari e tecnologici: droni, guerra elettronica, reverse engineering, acquisizione di lezioni operative dal conflitto in Ucraina. In parallelo, ricercatori cinesi starebbero conducendo studi etnografici nell’Estremo Oriente russo, pubblicando mappe con toponimi antichi, suscitando sospetti di future rivendicazioni territoriali. Anche l’Artico e l’Asia Centrale diventerebbero in questo scenario palcoscenici di una rivalità in incognito: progetti accademici e infrastrutturali sono letti da Mosca come operazioni di influenza e mappatura strategica. La Belt and Road initiative penetra in profondità nella sfera d’influenza post-sovietica, erodendo l’egemonia russa nei suoi stessi ex satelliti.
Il 2025 è l’anno in cui la Cina ha posto il veto su una proposta russa per un nuovo gasdotto attraverso il Kazakistan, con il pretesto dell’insostenibilità economica. Mosca, alla ricerca di nuovi sbocchi dopo l’Europa, si vede chiudere la porta in faccia proprio dall’architetto con cui costruire la nuova era. Nel frattempo, Pechino espande la sua influenza armata e tecnologica in Asia Centrale: vende droni al Kazakistan e sistemi antiaerei all’Uzbekistan, insidiando il monopolio russo sulle forniture militari. La concorrenza è spietata, benché avvolta da un linguaggio ufficiale di “coordinamento strategico”. Nell’Artico, Pechino si proclama da anni “potenza quasi-artica” e Mosca teme lo sfruttamento delle sue infrastrutture mascherato da progetti minerari e accademici.
I numeri del commercio raccontano anch’essi una storia diversa da quella delle firme cerimoniali: tra gennaio e maggio 2025, l’interscambio sino-russo cala dell’8,2%. Le esportazioni russe verso la Cina crollano del 9,5%. Le banche cinesi rallentano i pagamenti per timore delle sanzioni secondarie occidentali. Il risultato è una Russia economicamente e diplomaticamente obbligata a tollerare anche quelle che percepisce come scorrettezze o soprusi: reverse engineering militare come il caso del caccia Su-27 trasformato in J-11 – con cui Pechino erode il primato tecnologico russo -, contratti sbilanciati, prodotti scadenti venduti come “aiuto”. Perfino i consumatori russi cominciano a lamentarsi dell’invasione di automobili cinesi low-cost e senza garanzie.
Dietro i riflettori e la grande narrazione multipolare, l’asse Mosca-Pechino tradisce una coreografia a due che cela una competizione feroce. La Cina investe con prudenza, ritira quando serve, impone condizioni e sfrutta la guerra per perfezionare il proprio apparato militare. La Russia, costretta dalle sanzioni e dal bisogno, cede, trattiene il rancore e registra ogni passo falso. C’è una visione condivisa del futuro, ma nel presente si vive un vero e proprio campo minato. Il multipolarismo proclamato è una retorica che assolve queste discrasie tra teoria e prassi e che giustifica azioni unilaterali. La nuova era proclamata si traduce in un matrimonio di convenienza, minato da gelosie, squilibri e infedeltà sistemiche. Il teatro dell’amicizia strategica resiste finché le telecamere sono accese.
Dietro ogni alleanza asimmetrica c’è una metafisica della vergogna. Mosca sa di essere divenuta dipendente. E non lo è solo in termini economici. È dipendente anche simbolicamente: non può più contestare la Cina, nemmeno quando l’intelligence suggerisce che Pechino stia saccheggiando le sue tecnologie, copiando i suoi sistemi d’arma e infiltrando i suoi apparati scientifici. La Cina, dal canto suo, non vuole umiliare apertamente la Russia. Non per rispetto, ma per cautela. Una Russia troppo debole diventa un fardello. Troppo forte, un problema. La misura ideale per Pechino è quella del bisogno gestibile. E Mosca, per ora, ci sta perfettamente dentro. L’economia sino-russa in questa fase è ancora transazionale, non organica. Si nutre di emergenze e non di visioni congiunte.
Tuttavia, lungi dall’abbandonarsi a una narrazione della sfiducia cronica, e dello strappo imminente, queste frizioni asiatiche meritano una contestualizzazione ulteriore. La tentazione di leggere l’asse sino-russo attraverso le categorie dell’alleanza occidentale tradizionale fondate su fiducia, trasparenza e convergenza ideologica si rivela il più grande ostacolo alla comprensione della sua reale natura. Mosca e Pechino hanno sviluppato una grammatica operativa che trascende la questione della fiducia reciproca. Non si tratta di credere nell’altro quanto di abitare insieme uno spazio di possibilità che nessuna delle due potenze potrebbe occupare da sola. La Russia mantiene aperte le sue linee di intelligence sulla Cina perché questa è la condizione normale di ogni rapporto tra grandi potenze. La Cina cartografa mentalmente i territori dell’Estremo Oriente russo non per restituire toponimi Qing a Vladivostok in un esercizio di irredentismo, ma perché il pensiero strategico lavora sempre su scenari multipli. Quello che cambia non è la presenza di queste dinamiche, ma la loro integrazione in un sistema relazionale articolato. Mosca e Pechino hanno, a modo loro, anticipato la propria visione multipolare. Le alleanze del futuro, in questa prospettiva, non saranno più totali ma selettive, funzionali, sovrapposte. Si tratta di una forma di cooperazione destinata a convivere perpetuamente con la competizione, la scommessa russo-cinese è che il futuro apparterrà non a chi sappia costruire oggi alleanze perfette, ma a chi saprà gestire domani partnership imperfette.
La prima sfida del multipolarismo è stata dimostrare che rapporti di questo tipo fossero possibili; la seconda sarà dimostrare che possano essere durevoli.