OGGETTO: Il realismo offensivo di John Mearsheimer
DATA: 19 Maggio 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Visioni
Stretti tra le maglie di una volontà idilliaca di vedere il mondo organizzato secondo legittime aspirazioni di pace, con una tempesta in corso e sempre più avvolgente intorno al ventre molle e pacifico del globo, nessuno degli Stati europei occidentali ha oggi più contezza della tragedia insita nelle relazioni internazionali. In un simile contesto, il realismo offensivo di Mearsheimer sembra disvelare tale spettro. Rendendoci edotti della falla di un sistema per sua natura soggetto agli umani mutamenti. Anarchico, perché privo di una guida globale, che forse mai esisterà.
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Le illusioni sono finite. Sepolte sotto gli strati sempre più densi e impenetrabili del prepotente ritorno della Storia e della sua tragedia. Abituati a guardare alle relazioni internazionali sotto la lente distorta e utopica di una (al momento) impossibile aspirazione alla fine di ogni conflittualità, con annessi “governi mondiali”, istituzioni sovranazionali e tribunali in grado giudicare tra i “buoni” e i “cattivi” del nostro tempo e di ogni tempo, stiamo vivendo apparentemente un incubo. Come se fosse una parentesi da cui presto ci risveglieremo, per tornare sul sentiero tracciato dalle magnifiche sorti e progressive, dopo aver eliminato gli antagonisti di turno.

In tempi non sospetti e nel pieno del momento unipolare statunitense, dunque al culmine dell’idilliaca aspirazione globalista, il grande politologo americano John Mearsheimer diede alle stampe un volume fondamentale e per l’epoca controverso: “La tragedia delle grandi potenze”. Con una peculiare elaborazione intellettuale e un approccio alle relazioni internazionali che esula da qualsiasi mistificazione, Mearsheimer è il maestro del realismo offensivo. La vita degli Stati e delle collettività si traduce inevitabilmente nella conflittualità e nella competizione. Non per biologica tendenza dell’uomo in quanto tale, sulla quale si aprirebbe un altro capitolo; quanto, piuttosto, per un evidente problema alla base di tutti i rapporti tra le potenze grandi e piccole. Ovvero, l’assenza di qualsiasi organismo realmente credibile e sovranazionale, dotato di effettivi poteri coercitivi, in grado di tutelare la sicurezza degli Stati.

Il realismo offensivo nasce da un assunto di base: il sistema internazionale è sostanzialmente anarchico. Privi di un vertice, gli Stati sono spinti inevitabilmente a tutelarsi da soli. A perseguire la potenza non come fine ma come mezzo per garantire la propria sicurezza. L’unico modo per essere realmente al sicuro diviene il conseguimento dell’egemonia nel proprio sistema:

«Data la difficoltà di determinare l’ammontare di potere che può ritenersi sufficiente per oggi e per domani, le grandi potenze concludono che il modo migliore per garantirsi la sicurezza è conquistare subito l’egemonia, eliminando così ogni possibilità di sfida da parte di un’altra grande potenza. Solo uno Stato mal diretto si lascerebbe sfuggire l’occasione di diventare l’egemone di un sistema perché ritiene di avere già una quantità di potere adeguata alla sopravvivenza.»

Da ciò consegue, da un lato, che non siano gli specifici sistemi politici, istituzionali o ideologici a determinare i comportamenti aggressivi delle potenze. Dall’altro che un determinato “ordine internazionale”, lungi dall’essere eterno o (per non chiarissime ragioni) “buono”, preferibile ad altri sistemi di diversa natura, è solo un “sottoprodotto” del comportamento egoistico delle potenze.

Non c’è mai stato un comportamento concorde da parte degli Stati per garantire e organizzare un sistema di pace. L’esempio più chiaro è nella riorganizzazione globale di cui furono coprotagonisti gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica al termine della guerra contro le potenze dell’Asse. Nessuna delle due superpotenze si adoperò per garantire un assetto di pace. Semmai, la logica dell’acquisizione di una sempre maggiore potenza dell’una alle spese dell’altra ha alimentato l’ “equilibrio del terrore”, sancendone un’involontaria stabilità.

Promuovere “la pace per la pace” risulta essere un comportamento molto pericoloso. Le grandi potenze non avranno mai la certezza delle medesime buone intenzioni da parte dei propri rivali, con il rischio di perdere considerevoli quote di potere e di mettere a rischio la propria sicurezza. Tipica critica a un approccio liberale (ancora imperante) alla politica internazionale, è che solamente in un mondo ideale, con soli Stati “buoni” la potenza sarebbe irrilevante. Ulteriore elemento che non trova riscontro con la realtà è che tali Stati “buoni” dovrebbero essere inevitabilmente democratici, dediti all’economia e al benessere fini a se stessi, alla cooperazione internazionale. Un simile sistema sarebbe portato naturalmente al non perseguimento della politica potenza. Eppure non esiste nessuna dimostrazione di un simile assunto. Sotto il velo della libertà e del “bene”, le grandi potenze democratiche quali il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno perseguito storicamente i medesimi imperativi strategici. La sopravvivenza resta al di sopra di qualsiasi considerazione di ordine ideologico. Come si evince dalle parole di Josif Stalin nel 1927:

«Possiamo e dobbiamo costruire il socialismo. Ma prima dobbiamo sopravvivere»

Dati simili presupposti, Mearsheimer dipana la sua tesi evidenziando le caratteristiche del perseguimento della potenza, a partire dalla rilevanza del potere terrestre su qualunque altro. Assieme al mito di un mondo pacificamente integrato, di una (mai vista) umanità unitaria e senza confini, i secoli XX e XXI ci hanno abituato alla rilevanza dello spazio, del cyberspazio, del cielo e (ancora prima) del mare. Tuttavia l’apparato militarmente più rilevante resta quello terrestre. Siamo animali terragni, prima di tutto. E i mari, certamente significativi nel dispiegamento di potenza dei grandi imperi talassocratici della storia del pianeta, sono al tempo stesso una proiezione militare e un ostacolo al perseguimento dell’egemonia planetaria.

Tradotto: il pianeta Terra consta di un insieme di grandi isole continentali. Obiettivo primo delle grandi potenze installate in ognuna di esse è il perseguimento dell’egemonia nel proprio continente di riferimento. Il mare e gli oceani costituiscono elementi di difesa, con i quali le grandi potenze, assurte talvolta (raramente) a egemoni della propria isola, sono portate a intervenire per impedire che altre potenze raggiungano la medesima egemonia nel rispettivo continente. Il controllo marittimo è funzionale alla sicurezza del proprio continente. Impossibilitati a monitorare e pattugliare le enormi distese d’acqua, ciò si traduce essenzialmente nel dominio degli stretti e nella capacità di pressione sui propri avversari.

Roma, Aprile 2025. XXVI Martedì di Dissipatio

Eppure solo una preponderante superiorità militare terrestre può garantire un controllo e una egemonia effettiva su una data estensione territoriale. Scomparso il pericolo di un egemone regionale sull’altra sponda, una potenza tenderà a ritirarsi. Lo stesso ripiegamento per il quale si dicono pronti gli statunitensi.

L’unica strategia di sopravvivenza funzionale è il controllo pressoché assoluto sul proprio continente. Il che è riuscito storicamente solo agli Stati Uniti d’America. Raggiunto un simile obiettivo, una grande isola continentale assume il ruolo decisivo di bilanciatore d’oltremare. Inizialmente tale funzione si declina scaricando su altre potenze, più vicine a un potenziale egemone rivale, l’onere della difesa e del bilanciamento. Fallita una simile opportunità o nell’assenza di paesi cui demandare il contenimento dell’aggressore, il bilanciatore interviene direttamente nella contesa.

L’esempio più eloquente, oltre alle politiche continentali del Regno Unito, risiede nell’intervento degli Stati Uniti nelle due guerre mondiali. Classica sovrapposizione tra guerra mascherata da aspirazioni “liberali” e puro calcolo da realismo politico, la guerra statunitense contro Germania e Giappone esprime chiaramente il meccanismo di bilanciamento d’oltremare. Ne furono consapevoli i giapponesi sconfitti, il cui generale Kanji nel corso del processo sui crimini di guerra nel maggio del 1946 sottolineò i puri calcoli di sicurezza insiti all’atteggiamento di tutti gli Stati:

«Quando il Giappone aprì le sue porte e cercò di avere relazioni con gli altri paesi, vide che tutti quei paesi erano spaventosamente aggressivi. E così per la sua difesa prese il vostro paese a maestro e si dedicò ad apprendere come essere aggressivi. Si può dire che siamo diventati vostri discepoli. Perché non convocate Perry dall’altro mondo e non lo processate come criminale di guerra?»

Assecondando i medesimi calcoli securitari, non vi è distinzione strutturale tra le politiche espansionistiche di nessuna delle grandi potenze globali. Integrando una missione ideologica, sul solco del mito di una repubblica virtuosa, Washington ha assunto la guida della propria isola-continente non sulla base di principi o sentimenti, ma sul puro interesse egoista. Meccanismo che pone sullo stesso piano medesimi tentativi egemonici perseguiti nella storia da Francia, Germania, Giappone o Russia (anche sovietica), unici viatici per sopravvivere in un sistema internazionale incapace di tutelare la sicurezza degli Stati.

Sebbene l’anarchia sia una costante nel sistema delineato da Mearsheimer, ciò non spiega completamente le motivazioni dietro lo scoppio delle guerre tra le potenze. La seconda e più importante variabile strutturale del sistema è data dalle quote di potere detenute dai singoli Stati. In un sistema multipolare le possibilità di un conflitto tra le grandi potenze sono molto più ampie rispetto a quelle esistenti in un sistema bipolare. Il bipolarismo russo-statunitense fu alla base di un duraturo periodo di pace, cui contribuì anche lo spettro della deterrenza nucleare (sebbene non sia strutturalmente rilevante). Per definizione più rigido, il bipolarismo diminuisce le variabili e dunque le possibili cause di un conflitto.

Al contrario, un sistema multipolare sbilanciato su uno Stato potenzialmente egemone, comporta una strutturazione minore, una maggiore flessibilità nelle alleanze e un rischio vieppiù maggiore di esplosione di un conflitto.

Da ciò si evince come sul finire dei decenni unipolari, sorta di assestamento globale e di delirio di onnipotenza statunitense, tradotto in un’insostenibile sovraestensione soltanto ora, e a fatica, ridimensionata da Washington, l’attuale sistema internazionale, caratterizzato dall’ascesa a potenziale egemone regionale della Cina in Asia orientale, pone delle questioni di non facile risoluzione. Aprendo a scenari in cui alle belle parole, dovrà seguire necessariamente una più attenta valutazione realistica della posta in gioco.

Che la Cina sia diversa da qualsiasi altro potenziale egemone, che persegua la pace e l’interdipendenza economica, non ci sono prove sufficienti per sostenerlo. Come nel mito libertario statunitense, l’etica confuciana maschera gli strutturali imperativi strategici di Pechino, propensa a una crescente assertività. Al pari di qualunque altra collettività nella storia del pianeta, come evidenziato da Mearsheimer citando il pensiero di Yuan-Kang Wang:

«La cultura confuciana non ha limitato l’uso della forza da parte della Cina, che da secoli è una professionista nella realpolitik, comportandosi proprio come hanno fatto le altre grandi potenze nel corso della storia mondiale.»

Stretti tra le maglie di una volontà idilliaca di vedere il mondo organizzato secondo legittime aspirazioni di pace, con una tempesta in corso e sempre più avvolgente intorno al ventre molle e pacifico del globo, nessuno degli Stati europei occidentali ha oggi più contezza della tragedia insita nelle relazioni internazionali. Mentre restano precarie le condizioni intorno alla possibile tregua tra russi e ucraini nelle trattative in corso in Turchia, calcoli securitari accompagnano le azioni dell’Iran come quelle di Israele. Del Pakistan, come dell’India. Degli Stati Uniti, come della Russia e della Cina. L’orrore della guerra si affaccia sulle nostre coscienze come uno spettro che si riteneva allontanato, quando invece era rimasto sempre presente, mascherato dalla protezione (per convenienza) dell’ombrello securitario americano.

In un simile contesto, il realismo offensivo di Mearsheimer sembra disvelare tale spettro. Rendendoci edotti della falla di un sistema per sua natura soggetto agli umani mutamenti. Anarchico, perché privo di una guida globale, che forse mai esisterà.

Entrare nel realismo offensivo, significa anche cogliere nella paura il più grande e più autentico nucleo dopo il quale ogni tematica o discussione, per quanto rilevante, perde completamente di importanza.

Per quanto tragico, l’espansionismo e l’accrescimento della potenza sono insite al sistema. Al netto di ogni legittima speranza:

«Vorrei potermi dire più speranzoso riguardo alle prospettive di pace in Asia. Ma il fatto è che la politica internazionale è un terreno pericoloso, e non c’è buon volonta che tenga per smussare l’intensa competizione per la sicurezza che prende vita quando in Europa o in Asia entra in scena un aspirante paese egemone»

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