OGGETTO: L'esistenzialismo di Gazdanov
DATA: 01 Giugno 2022
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Analisi
AREA: Europa
Morte, felicità e assassinio. Il romanticismo esistenzialista dell’osseta Gajto Gazdanov si mostra nella sua opera “Il fantasma di Alexander Wolf”.
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Il fantasma di Alexander Wolf, di Gajto Gazdanov, è per molti versi un romanzo autobiografico. La narrazione avviene in prima persona e l’identità del protagonista non è chiaramente esplicitata: si tratta di un giovane emigrante russo che, dopo aver partecipato alla guerra civile del 1917 all’età di 16 anni, si stabilisce in Francia. La sua vita è tormentata: durante la guerra civile ha ucciso un uomo. A causa di questo peso la sua vita ha perso tutta la sua attrattiva e la colpa ha spento completamente la sua esistenza. Una serie di avvenimenti casuali, però, conducono il protagonista a una terribile scoperta: l’uomo che pensava di aver ucciso in realtà non è morto. Egli si chiama Alexander Wolf ed è uno scrittore di successo che vive a Londra. Anche l’esistenza di Alexander Wolf è altrettanto tormentata: per tutta la sua vita non si è potuto perdonare di aver obbligato un povero ragazzo a un tale gesto, di averlo reso un assassino. Il finale è altrettanto tragico: il “fantasma” di Alexander Wolf viene ucciso dal protagonista. Il ritmo della narrazione è scandito dalle lunghe riflessioni dei due personaggi che vanno a costituire la parte maggiore dell’opera. L’intreccio è ben strutturato e avvincente, gli inattesi colpi di scena ben si innestano nella struttura generale del romanzo.

Il fantasma di Alexander Wolf (Voland) di Gajto Gazdanov

Il protagonista vive una consapevole tensione che è costantemente immotivata: sa di essere mosso, ma non sa da cosa, sa di tendere inevitabilmente verso la fine certa (cioè la morte), ma non sa come, quando e perché avverrà. Da ciò l’inesorabile alone di indeterminatezza che accompagna ogni suo moto, tanto esteriore quanto interiore. Questa indeterminatezza cosmico-esistenziale è dovuta non solo all’impossibilità di un reale approdo a una meta, a un punto fisso (sia esso anche solo uno stato d’animo durevole, un pensiero privo di contraddizioni o una semplice certezza), ma anche e soprattutto all’ignoranza della propria origine, del senso del proprio destino.

A dispetto del giovane Werther, il protagonista sente con la ragione e ragiona con il cuore: la sua vita è descrivibile come un’inarrestabile concatenazione di avvenimenti e stati d’animo che occupa uno spazio irrisorio nell’indeterminatezza cosmica che le fa da sfondo. L’inesorabile tentativo del protagonista di uscire dalla nebbia esistenziale che lo avvolge è necessariamente volto al fallimento. Vuoto e confusione non sono però modi d’essere statici, ma cinetici: essi cambiano con lo stesso protagonista, che ne rimane a sua volta profondamente influenzato.

La chiarezza e la luce sono raggiungibili esclusivamente a livello formale-stilistico. Lo stile del romanzo infatti è profondamente equilibrato e ponderato. In realtà l’autore ha optato per una soluzione formale non molto semplice: descrivere il caos attraverso l’ordine, scattare cioè la fotografia marmorea di un magma oscuro. La poeticità della prosa di Gazdanov è dovuta principalmente al fatto che le cause prime di questa ineludibile tensione esistenziale sono esperibili e intelligibili dall’individuo solo a livello biografico. Da qui la necessità di dare forma e sfogo alla propria anima.

Tutti questi motivi spingono Gazdanov a prediligere romanticamente l’immaginario al reale. Questa scelta non è esente da conseguenze esistenziali che trovano una sintesi consolatoria e edificante solo in rarissimi e irripetibili casi: in questi momenti al protagonista è dato di conoscere intuitivamente l’integrità e l’unità del proprio essere, del proprio sentire.

L’insistenza e la centralità su alcuni dei temi più cari all’esistenzialismo francese (e non solo) dell’epoca è dovuta alla consapevolezza che, nella maggior parte dei casi, l’unica via per la conoscenza di sé e del mondo è data dalla propria individualità. Questa limitazione non è però né esaltata né tantomeno demonizzata e rintuzzata: in questo senso Gazdanov applica un semplice e saggio realismo. Proprio per questi motivi Gazdanov può essere definito come un romantico esistenzialista e non il contrario.

Ogni destino individuale è l’unità di avvenimenti, azioni, stati d’animo, che, susseguendosi più o meno logicamente secondo il senso originario, raggiungono l’apoteosi solo con la morte. Nel caso umano è l’esistenza personale a costituire l’unica base possibile a questa concatenazione di cause: proprio per questo la conoscenza di quelle concatenazioni cosmiche di cui l’uomo occupa solo una parte è impossibile. D’altro canto, alla presa di coscienza di essere solo parte e non assoluto segue la caduta di molteplici illusioni. Riconoscere il limite e l’effimerità dell’esistenza modifica inesorabilmente l’atteggiamento nei suoi confronti. L’individuo muore e rinasce trasfigurato. Il pensiero è denudato e ridotto all’osso, da qui la sua radicalità. Da qui la scoperta di tre verità fondanti e originarie: morte, felicità e assassinio. Nella fattispecie, la morte e la felicità presuppongono l’idea dell’immobilità: come già si è detto la felicità è la conoscenza intuitiva (e temporanea) della totalità del proprio essere e del suo posto nel cosmo (per quanto ciò sia possibile), mentre la morte è la molla costante, il movimento originario, la forza chiara e oscura senza la quale non ci sarebbe quella rara ed estemporanea felicità, che è l’unica ad essere autenticamente concessa all’uomo. Per Gazdanov la morte è un fine che richiede costante lavoro su se stessi. Questo fine è fatalisticamente predeterminato, ma l’opacità che avvolge l’esistenza umana lascia ampio spazio di libertà. Il raggiungimento di questo fine costituisce il coronamento del proprio autentico sé.

Il momento dell’omicidio è invece considerato da un punto di vista cinetico: uccidere una persona, privarla del suo destino e della sua esistenza, ahinoi, avvicina temporaneamente a Dio: per un terribile e eterno momento si smette di subire l’influsso della cause che determinano l’esistenza e si diventa agenti assoluti, cioè sciolti e privi di legami. Uccidendo viene interrotto un percorso, annullato un senso, disgregato l’insieme di esperienze che ha prodotto la persona a cui, con l’assassinio, si è negato il diritto all’esistenza. Proprio per questo in quel momento non si è più individui, ma qualcos’altro, qualcosa di più. Trascendendo sé stessi ci si avvicina all’onnipotenza: l’assassinio spinge l’io a un annullamento onnipotente di sé. La potenza è incosciente, illimitata, cieca. Con questo Gazdanov non vuole in alcun modo giustificare l’omicidio, non a caso il protagonista del suo romanzo proprio per questa colpa vive una vita tormentata e inquieta. L’idea dell’assassinio non manca tra l’altro di una base concreta: si tratta infatti di un istinto atavico, che può essere trasmesso per via ereditatiria e famigliare. In ogni caso, quando il peso dei secoli e l’impellenza dell’istinto non permettono di agire diversamente, l’assassinio mostra altresì il suo lato romantico-esistenziale: esso è la risposta più o meno consapevole a un richiamo eterno a cui l’ostinato Gazdanov consiglia di resistere fino alla fine, è affermazione di sé sugli altri e su sé stessi, è superbia e alterigia ma, ahinoi, è anche vita, essere e conoscenza…

Gazdanov per molti aspetti è uno scrittore occidentale. Le riflessioni del protagonista e di Alexander Wolf prendono in considerazione tutte le coppie di concetti che hanno segnato l’intera tradizione filosofica occidentale, in questo romanzo c’è davvero tutto: fatalismo e libertà, soggettivismo e realismo, infinito e finito, reale e astratto, trascendente e immanente, trascendentale e empirico, animale e umano, autentico e inautentico, definito e indefinito, la correlazione fra amore e sapienza etc. Una possibile causa di una così approfondita conoscenza della tradizione occidentale può essere la lunga appartenenza di Gazdanov alla Massoneria. La particolarità dell’opera di Gazdanov sta nel fatto che dal punto di vista di un russo dell’epoca è raro (e perciò encomiabile) non dare ai temi trattati un risvolto politico-sociale, storico-destinale, patriottico-metafisico, mistico-religioso. Come osserva Zachar Prilepin nel suo saggio dedicato a Gazdanov:

«Se dovessimo far emergere Gazdanov dalla tradizione letteraria russa (cosa da cui converrebbe cominciare, come primo passo), le sue fonti andrebbero senza dubbio ricercate non in Dostoevskij e Tolstoj, non in Čechov e Puškin, bensì in Michail Lermontov. In Gazdanov non si ritrova la benchè minima propensione a ricercare l’idea russa e a giustificare l’uomo attraverso il cristianesimo, come in Dostoevskij, né l’abbraccio universalistico di Tolstoj o la chiarezza solare di Puškin, e nemmeno l’implacabile cavillosità di Čechov».

Se Prilepin ha individuato le fonti di Gazdanov in Lermontov, chi molti decenni dopo, in un altrettanto tragico e turbolento periodo, ha fatto propria l’apoliticità di Gazdanov è Venedikt Vasil’evič Erofeev. In una delle sue opere più importanti – il poema Mosca-Petuški – Erofeev descrive autobiograficamente la processione esistenziale di un alcolizzato cronico che viaggia lungo la tratta ferroviaria Mosca-Petuški. Questo poema postmoderno è iniziato a circolare clandestinamente nell’Unione Sovietica a partire dal 1969. Il suo protagonista è un derelitto, uno sconfitto, un ultimo. Il suo pellegrinaggio religioso si conclude con la morte. Nonostante ciò nessuno dei temi trattati in questo romanzo assume una connotazione politico-sociale. Erofeev è uno scrittore che non si può considerare né sovietico né antesignano delle correnti letterarie che seguiranno al ‘91 (muore nel ‘90). Il suo esistenzialismo è caratterizzato da un forte senso di religiosità che è assente in Gazdanov. Il cristianesimo di Erofeev, a differenza di quello ortodosso e cristocentrico di Dostoevskij, è cattolico e rivolto a una spiritualità primitiva, a una cristianità archeologica.

A dispetto delle giuste osservazioni di Zachar Prilepin, leggendo Il fantasma di Alexander Wolf non possono non ritornare alla mente i versi di Elegia di Puškin del 1830: «Ma non voglio lasciarmi morire, amici miei, voglio vivere, per pensare e soffrire». Con le parole dello stesso Gazdanov:

«Si può anche riconoscere che ogni illusione è vana e che, in definitiva, non c’è consolazione, ma questo non porta a niente. E poi, se non siamo capaci di una pur piccolissima illusione, allora ci rimane soltanto ciò che lei chiama rottura del ritmo. Ma dal momento che continuiamo a vivere, forse non è tutto perduto».

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