Tutto si confonde nella narrazione delle relazioni internazionali: dalla politica ai media, sino all’università. Dall’esigenza dei media, che dovendo stare sul mercato seguono spesso la vulgata dominante non dibattendola, al politico – soprattutto quello istituzionale – che non fa altro che ricapitolare le scelte altrui, come proprio mestiere esige. Passando infine per l’università, dove frequentemente non v’è traccia di pensiero critico e ad essa vengono assegnati due compiti: reggere la burocrazia e tener alla larga l’eterodossia.
La “responsabilità di proteggere” – rdp – concetto nato in seno alle Nazioni Unite nel 2005, è stato, e forse lo è tuttora anche se leggermente sbiadito, principio fondamentale d’apporre ad ogni combattimento: protezione della popolazione, in senso generale, dei civili, nello specifico. «L’intervento militare in Libia del 2011 è stato considerato dalla comunità internazionale come un evento giustificato proprio dal principio della RdP».
La decisione italiana d’appoggiare, quantomeno, o di sostenere la causa umanitaria proposta da Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna contro la Libia di Gheddafi, prevalse sin dalla prima ora annientando l’interesse nazionale. Nei percorsi universitari di studi strategici gli insegnamenti che prevalgono sono quelli di diritto, rispetto a quelli di geopolitica nazionale – non pervenuti – e quelli, per l’appunto, strategici – spesso marginali.
Rimane pur vero che i governi democratici: «Nel decidere un attacco militare […] sono sempre condizionati dagli umori dei cittadini» e successivamente l’opinione pubblica prende forma sulle dichiarazioni della classe dirigente, sulle notizie filtrate dai media e poi quelle viziate sui social, allora è ragionevole dire che la ragion di Stato e l’arte di governo non esistano più. L’interesse nazionale e la sua preservazione sono stravolti dal diritto internazionale – tattica che impantana soltanto gli Stati meno blasonati, non la struttura giuridica che regola le relazioni internazionali poiché non vale per tutti e non ha efficacia –, da un’opinione pubblica da quasi un secolo ormai intorpidita sulla soglia umanitaria e una classe dirigente, indipendentemente dal colore politico, in balia della volontà altrui e dal flusso canonico dei media. Si dica inoltre che la formulazione statal-democratica, come viene contemplata dall’emisfero euroatlantico, non è per tutti i popoli e le culture. Allora, come oggi, in Libia «[…] Il Consiglio Nazionale di Transizione non è riuscito a ricomporre le diverse fazioni e l’unità nazionale non è mai stata raggiunta. La divisione del Paese in due parti ha sancito definitivamente il fallimento dell’intervento militare volto, ingenuamente, alla transizione democratica anche in assenza delle precondizioni per il cambiamento».
Già Gustave Le Bon, sul finire dell’Ottocento, raffrontando due realtà politico-giuridiche completamente diverse segnalava come: «Il governo del re di Dahomey [oggi Benin] era probabilmente ottimo per il popolo che si trovava chiamato a dirigere; e la più sapiente costituzione europea sarebbe stata pessima per quel popolo. Proprio ciò che ignorano disgraziatamente gli uomini politici che s’immaginano che un governo sia materia d’esportazione […]». Il principio della “rdp” è stato codificato, come si accennava, nel documento delle Nazioni Unite del 2005 World Summit, nel quale si dichiarava che, quando un governo non vuole o non è in grado di proteggere i suoi cittadini (la maggior parte dei Paesi del mondo non prevede, né contempla, alcuna cittadinanza, ma solamente sudditi o collettività: casta, tribù e famiglia) da genocidio, pulizia etnica, crimini di guerra o contro l’umanità, la comunità internazionale ha la responsabilità di aiutare (o combattere) questo governo per proteggere i civili dalle atrocità di massa. In questa maniera si sposta la questione dei diritti umani dal piano interno a quello internazionale, limitando de facto la discrezionalità della politica degli Stati e imponendo loro il rispetto della popolazione, pena l’intervento esterno.
Il contenuto del sopraesposto documento, presenta due problemi di natura politica e giuridica. Se c’è un gruppo di Stati, più o meno vasto non importa – significherebbe comunque una specie di “dispotismo democratico” dato dalla maggioranza, trasposto a livello internazionale – che decide per la vita pubblico-politica interna d’altri Paesi, allora vengono meno la sovranità e l’emancipazione legittime d’uno Stato. S’aggiunga che la maggior parte dei Paesi riconosciuti dal diritto internazionale, di questo non rispetterebbero nemmeno le norme cogenti, come le voci del documento ovviamente. In Italia viene poi seguita un’altra direttrice che non ha alcun connotato strategico, malgrado la Storia ne abbia evidenziato più volte l’insensatezza, ma piace molto: il richiamo alle organizzazioni internazionali e ad intese e coalizioni con alleati che si sono ampiamente dimostrati avversi o indifferenti alle iniziative di Roma. In un’intervista condotta da «Limes» un paio d’anni fa a Giuseppe De Giorgi, Ammiraglio di Squadra “in ausiliaria”, alla domanda: «Esiste una strategia italiana per il Mediterraneo?», l’Ammiraglio rispose: «No. Non abbiamo una strategia che differisca dalla generica enunciazione di alcuni principi fondamentali quali la nostra appartenenza alla Nato e all’Unione europea. Insieme alla fedeltà agli Stati Uniti e all’atlantismo. Più il multilateralismo inteso come negazione del ruolo individuale degli Stati. Così diventa molto difficile tradurre i principi in obiettivi concreti da perseguire, su terra o per mare».
Per quanto concerne la Libia nello specifico, l’Italia tradì Gheddafi in un attimo, ma più ancora i propri vitali interessi, sciupando l’occasione di garantirsi il proprio estero vicino. Sempre l’Ammiraglio De Giorgi, sempre per la medesima rivista, si pronunciò sulle fasi concitate tra febbraio e marzo del 2011, sostenendo che: «Il nostro errore più grande fu di non capire la decisione con cui francesi e americani volevano il dittatore libico ad ogni costo. Avremmo dovuto batterli sul tempo, lanciando un’azione molto decisa per prelevare Gheddafi e trasferirlo in Italia. Poi ci saremmo dovuti intestare la guida della coalizione.» Durante l’assedio haftariano di Tripoli poi, nel 2020, Roma non si schierò né da una parte né dall’altra, quando avrebbe potuto addirittura legittimamente risponder «presente» all’appello di al-Serraj: perché Presidente della Libia riconosciuto dalle Nazioni Unite e ciò avrebbe evitato che l’occasione tripolitana offerta dal ministro di Tripoli fosse colta dai turchi. «Certo, avremmo dovuto schierare in Libia un vero contingente militare con un reparto di artiglieria, appoggio navale dal mare, gli aerei del Cavour e la Folgore a presidiare Tripoli, in posizione difensiva».
Negli ultimi mesi e a proposito delle ultime frizioni tra l’Esercito di liberazione nazionale capitanato dal Generale Haftar che guida la forza armata orientale a difesa della Camera dei Rappresentanti di Tobruk e le milizie tripoline, con l’attenzione delle Forze Armate algerine sul confine e precisamente nella città di Gadames, il dibattito analitico italiano è tornato sulle solite proposte.
L’ex ministro dell’Interno Minniti in un’intervista ha suggerito un’azione mediterranea e africana con la Francia che potrebbe avere un proprio senso nell’ostacolare Ankara, anche se tuttavia gli interessi di Roma e Parigi hanno sempre conflitto e comunque la Francia è in crisi in tutto il Sahel, mentre in Libia “tiene un piede in due scarpe” da anni: apertamente con Tripoli (Nazioni Unite), segretamente con Tobruk in misura antiturca e l’Italia che, come s’è visto, ha un’idea monolitica della politica estera,
dovrebbe accettare un buon grado di flessibilità: accettando pure di intrallazzare con i russi.
Buono a sua volta il suggerimento del pregiatissimo Karim Mezran, in un’altra conversazione, che consiglia alla diplomazia italiana di sollecitare un’azione americana sfruttando la riappacificazione, almeno momentanea, fra turchi ed egiziani, al fine di trovare una soluzione al nodo della frattura fra Oriente e Occidente libici, passando, effettivamente sì, dall’unico organo che vale per tutti: la banca centrale. Tuttavia, è altrettanto vero che gli Stati Uniti non sono mai apparsi, tranne nel marzo del 2011, molto interessati al faldone libico che lasciano agli anatolici come argine all’avanzata russa.
L’Italia non ha poi alcun peso negoziale al momento in Tripolitania, regione nella quale dominano i turchi, tantomeno in Cirenaica. Come può dunque pensare “diplomaticamente” di metter d’accordo, semplificando, i russi e i turchi, gli attori locali e infine sollecitare Washington ad una mediazione in una stagione politica indaffarata e congestionata come questa? Inoltre, spesso si dà nei commenti uno sfondo di bontà ad un Governo, quello sotto l’egida delle Nazioni Unite, piuttosto che all’altro, non riconosciuto. Però Tripoli e i propri rappresentanti non sono meno clientelari e finanche mafiosi di quelli fra Tobruk e Bengasi o nel resto della Libia. Certo è il neo dell’influenza di Mosca che con le sue piazzeforti destabilizza il Paese e l’area circostante, ma è pur vero che nell’ultimo anno in Cirenaica le costruzioni e le infrastrutture hanno ammodernato quartieri, seppur con soldi opachi provenienti dalle attività della famiglia Haftar. Al contrario, a Tripoli pare tutto fermo: mancano gli investimenti e superare gli ostacoli familistici risulta molto farraginoso.
«A merito degli Haftar, i loro sforzi di ricostruzione stanno progredendo rapidamente e stanno già dando risultati visibili. Ma chiariscono anche che la famiglia Haftar considera quelle parti della Libia che controlla come suo dominio privato […] A Tripoli, al contrario, prevale la letargia. L’unica attività edilizia degna di nota è un’autostrada in costruzione da parte di un consorzio egiziano che attraversa i distretti meridionali di Tripoli, un tentativo del primo ministro di Tripoli, Abdelhamid Dabaiba, di ingraziarsi il governo egiziano. Gli appaltatori che lavorano ad altri progetti nella Libia occidentale lamentano di avere difficoltà a farsi pagare a meno che non abbiano alleati nella cerchia ristretta di Dabaiba».
Infine, l’unità del Paese è cosa buona, ma dipende anche sotto quale bandiera e con quali piani. Roma potrebbe seguire queste attività e nel caso d’un’intensificazione delle ostilità che violassero l’accoro di “cessate il fuoco” del 2020, partecipare tentando di raccogliere poi un risultato politico al tavolo negoziale successivo. Fra l’altro, l’Italia ha una missione in Niger che avrebbe potuto esser connessa con una corposa presenza in Libia ad ostacolo, per esempio, della rotta del traffico d’esseri umani, ma anche a tutela di quelle persone, cosa che certe iniziative umanitarie non hanno fatto.