L’utilizzo o meno dei profitti derivanti dagli asset russi congelati è stato al centro della discussione della comunità internazionale. Nel recente vertice del G7, è stato raggiunto un accordo di massima sulla gestione di tali risorse economiche. Per comprendere meglio la logica dietro la decisione e le sue implicazioni giuridiche, abbiamo intervistato l’Avvocato Luca Picotti, esperto di diritto commerciale e societario, autore de libro “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023).
-Avv. Picotti, nel vertice G7 è stato raggiunto l’accordo sull’utilizzo dei profitti degli asset russi. L’Unione europea ha recentemente trasferito i primi 1.5 miliardi a Kiev derivanti da beni russi congelati. Qual è la logica dietro questa proposta?
Una premessa. La Banca centrale russa ha circa 600 miliardi di riserve, di cui la metà depositate nei Paesi G7 e, in particolare, in Unione europea: presso la stanza di compensazione Euroclear, società di diritto belga, sono stimati quasi 200 miliardi. Ciò significa che le sorti di tali riserve incidono decisamente di più sul sistema finanziario europeo che su quello statunitense. Da qui, anche la diversa cautela nell’approccio. Washington si è dimostrata sin da subito aperta all’ipotesi più radicale, quella della confisca, ossia una irreversibile privazione dell’asset, che invece ad ora è solamente congelato, ossia bloccato temporaneamente, nell’ottica di una misura reversibile e oggetto di continue proroghe. L’Unione europea invece ha tendenzialmente escluso tale strada, focalizzandosi sul prelievo dei soli profitti derivanti dalla gestione degli asset da parte degli operatori europei. Ma perché questo dibattito? Perché, semplicemente, non confiscare i 300 miliardi e destinarli a Kiev?
Quattro le ragioni principali: assenza di basi legali domestiche, consuetudini di diritto internazionale, costo reputazionale, stabilità finanziaria. Sugli ultimi due punti ci torneremo. Per quanto riguarda invece i primi due, va sottolineato che, secondo il diritto internazionale consuetudinario, la banca centrale gode dell’immunità sovrana, concessa agli Stati e ai propri beni rispetto alle azioni di giurisdizioni estere, sicché una confisca delle riserve ne rappresenterebbe una violazione. Inoltre, sarebbe una misura senza precedenti. Invero, gli Stati Uniti con l’Executive Order 13290 nel 2003 utilizzarono l’IEEPA per confiscare gli asset dello Stato iraqeno. Una violazione dell’immunità, ma a) per cifre non comparabili e b) nel caso americano va detto che esiste una base legale domestica, che permette la confisca quando si è in guerra con lo Stato detentore degli asset. Circostanza però che, al momento, non permette di invocarla contro la Russia, mentre in Unione europea manca proprio la base legale, essendo previsto nel quadro giuridico solo il congelamento. Per quanto concerne i profitti, invece, non opera l’immunità del diritto internazionale, ragione per cui le istituzioni comunitarie hanno pensato di destinare a Kiev gli stessi, nell’ordine di circa 3 miliardi all’anno che ne possono derivare in media. Troppo poco? Effettivamente sì, considerate le necessità finanziarie nell’immediato dell’Ucraina. Da qui, il compromesso avanzato in sede G7 dagli Stati Uniti: anticipare 50 miliardi, con un prestito che sarà garantito dai profitti derivanti dagli asset congelati.
-Questo metodo evita la confisca ma implica un congelamento a lungo termine. Quali sono le implicazioni giuridiche?
La logica dell’anticipo è questa: prelevare 3 miliardi di profitti all’anno è troppo poco, tanto vale anticipare ora, che serve, quello che si ‘preleverà’ negli anni. In questo modo si evita la confisca, problematica a livello giuridico come si diceva, oltre che alcune lentezze procedurali – pensiamo alla necessità delle proroghe europee delle misure restrittive, da approvarsi all’unanimità. L’anticipo però suggerisce che i rapporti rimarranno congelati oltre il breve periodo. Non è radicale come la confisca (connotata da irreversibilità), ma trattasi comunque di una scommessa sul lungo periodo delle misure di congelamento. Anche perché, a ben vedere, 50 miliardi rappresentano più di 15 anni di profitti annuali (3 miliardi circa all’anno). È ancora da capire come verrà architettato il prestito, ma probabilmente sarà composto da due piani paralleli. Si mantiene il concetto di ‘temporaneità’, rifiutando quello di ‘irreversibilità’, anticipando il potenziale ‘lungo termine’ ma aggiungendovi una eventuale garanzia aggiuntiva da parte dei paesi G7. Ossia, se si arriverà ad accordi di pace e gli asset verranno usati nella trattativa e scongelati, il prestito garantito dai profitti di questi asset sarà restituito dai paesi G7.
-Quali sono i possibili rischi e benefici di tale operazione? Tale precedente potrebbe compromettere la reputazione del sistema finanziario occidentale ed in particolare europeo?
Abbiamo visto che sul piatto vi sono tre strade. Il prestito rappresenta una operazione sostanzialmente politica, nel senso che è difficile possa essere attuato senza garanzie parallele da parte degli Stati. La mera corresponsione a Kiev dei profitti, come il recente trasferimento di 1.5 miliardi da parte dell’Unione europea, rimane la strada ad ora più semplice, seppure non priva di problematiche. Oltre al fatto che si tratta di cifre troppo piccole, giuridicamente non è così lineare. O meglio: sul fronte del diritto internazionale i profitti non sono tutelati da immunità, sicché si riesce, in linea teorica, ad evitare violazioni palesi. Sul fronte privatistico dei rapporti con le singole società, pensiamo ad Euroclear che destina i profitti derivanti dagli asset al fondo per Kiev, l’operazione probabilmente presenta dei profili ambigui che potrebbero generare diversi contenziosi; infatti, sembra che Euroclear abbia chiesto di mettere da parte una quota per un fondo rischi legali. Il vero rischio, sul fronte reputazionale, è però quello della confisca, che preoccupa diversi attori, dall’Arabia Saudita alla Cina, attenti nel monitorare le sorti degli asset russi congelati, perché con un simile precedente nessuno potrebbe più dormire sonni tranquilli. Difatti, al netto degli aspetti giuridici, quello che veramente conta è il sostrato metagiuridico: ossia, le conseguenze di una violazione dell’immunità sovrana o dello Stato di diritto in termini di tutela della proprietà. Conseguenze che sono soprattutto reputazionali. Nel senso che, se si crea questo importante precedente (300 miliardi confiscati), il sistema finanziario occidentale e le sue stanze di compensazione (come Euroclear) saranno considerate inaffidabili, a favore magari di altre (es: China’s Securities Depository and Clearing). Il rischio di claim a cascata, di perdita di attrattività e fughe dal dollaro e dall’euro, con relative conseguenze finanziarie, esiste. Per questo ci si muove con cautela, tra misure di ingegneria finanziaria borderline (il possibile prestito G7) e azioni più soft (destinazione dei profitti senza confisca).
-Alcuni analisti hanno ipotizzato l’eventualità che tale azione possa innescare un processo di de-dollarizzazione. Ritiene sia plausibile tale scenario?
Come ho detto, il rischio senz’altro c’è, specie nel caso di confisca, ed è una delle ragioni per cui nessun paese G7 ha ad oggi optato per tale misura radicale. Anche perché l’affidabilità è proprio ciò che ha reso i sistemi finanziari occidentali centrali, con Stati Uniti e Unione europea in grado di controllare tutti i chokepoint delle infrastrutture finanziarie (dollaro, Swift, Euroclear etc.). Garanzie, affidamento, credibilità, Stato di diritto sono il motivo per cui, ad esempio, banche centrali terze depositano le proprie riserve presso Euroclear. Tirare troppo la corda è rischioso. Ma qui si arriva al paradosso: nonostante vent’anni di sanzioni secondarie americane e weaponization dei chokepoint finanziari da parte dei paesi G7, non si è ancora creato un sistema alternativo e la de-dollarizzazione è lontanissima. Perché un conto è qualche scambio commerciale in più in valuta locale, o in criptovalute o altri panieri, un conto è creare ed essere sistema globale, che è possibile non solo per la potenza militare che c’è dietro, ma anche per la tutela dei diritti di proprietà, l’affidamento dei terzi, lo Stato di diritto. La situazione attuale? Siamo di fronte ad un sistema euroatlantico ancora dominante e senza alternative valide nel breve periodo, ma sempre più inaffidabile, in quanto costantemente “weaponizzato”. Da qui l’irritazione dei vari attori, grandi e medi, che si scontra però con la consapevolezza dell’assenza di altri sistemi alternativi. In sostanza, regna l’incertezza.
-Quali sono gli sviluppi più significativi da monitorare nel breve e medio periodo?
I paesi del G7 si muovono nel delicato equilibrio tra diritto e politica, tra misure più o meno assertive per colpire la Russia e aiutare l’Ucraina e frenate per evitare un eccesso di arbitrarietà politica, che non solo rischia di violare il diritto internazionale, ma presenta notevoli costi reputazionali. La logica è quella attendista: si attua misure temporanee, si attende le evoluzioni del conflitto, mantenendo gli asset congelati per poterli al caso utilizzare in sede di trattative. Il processo di decoupling tra le economie occidentali e quella russa ha raggiunto un livello notevole, ma nessuna delle due parti ha ancora implementato misure irreversibili. Gli asset della banca centrale russa sono congelati, non confiscati. Le sussidiarie delle società occidentali in Russia, si pensi ad Ariston o Bosch, sono state oggetto di misure di trasferimento temporaneo che non incide sulla proprietà. È una partita a scacchi, giocata in parallelo a quella sul campo: tutto rientra in possibili futuri negoziati. È solo quando vedremo misure irreversibili, come una confisca degli asset, che potremo dire di essere arrivati ad un vero e proprio punto di non ritorno nei rapporti tra G7 e Russia. Per ora, seppure tutto sembra indicare questa direzione, non è ancora così.
Ad oggi, come si diceva, regnano l’incertezza, l’attesa e i paradossi: il paradosso politico-economico di un sistema finanziario euroatlantico sempre più weaponizzato e inaffidabile ma ciononostante più valido delle ipotetiche alternative; oppure, il paradosso giuridico di un’Ucraina che, secondo il diritto internazionale, avrebbe diritto alla compensazione per l’aggressione russa, ma che non può, sempre per il diritto internazionale, beneficiare della confisca delle riserve della banca centrale russa, con il rischio di non vedere alcuna compensazione.