Ci sono mondi che si lamentano della mancanza di storia, altri invece ne sono saturi al midollo. Il 24 febbraio 2022, se non per i danni fisici e psicologici che ha portato ai popoli di una parte circoscritta dello spazio eurasiatico, verrà consegnato ai posteri come la data che ha tagliato in due (spesso in parti ineguali) i Paesi post-sovietici, ponendo loro una domanda tanto netta quanto di difficile risposta: dove vi collocate? Un dibattito interno sino ad allora sopito, seppur presente, è diventato d’ineludibile contingenza. Il tassista polacco, così come la studentessa kazaka e l’impiegata comunale lettone, non hanno più potuto nascondersi: stiamo dalla parte di Mosca o di Kiev?
Non c’è luogo che a questa domanda stia dando una risposta più ambigua dello Stato georgiano. Attraversarlo oggi, dalle sponde del Mar Nero sino ai confini con l’Azerbaigian, significa passare in rassegna punti di vista, culture e interpretazioni storiche confliggenti, ma unite da una ferma volontà di dirsi indipendenti dall’autorità del Cremlino. Su questo punto di ambiguità non ce n’è molta. I morti ucraini impietosiscono, inquietano, e provocano quella naturale pietà poiché, in altre circostanze, “al posto loro ci saremmo potuti essere noi”. Ma allo stesso tempo sono tanti a pensarla come la direttrice di un albergo del centro di Kutaisi, che in maniera decisa riduce all’osso un evidente dilemma: “Putin lo disprezzo, ma fra Mosca e Washington noi non possiamo non stare dalla parte dei primi”.
D’altronde la presenza russa in Georgia è molto più che una presenza unicamente spirituale. Le indicazioni urbane sono spesso bilingue, così come gli idiomi parlati dai suoi abitanti. Di fronte a uno straniero il primo tentativo per farsi intendere prevede di passare dal russo, poi si azzarda qualche parola d’inglese, più o meno sicura a seconda dell’età. Perché qui solo chi ha meno di una trentina d’anni non ha ricordi del mondo che fu. Ed è interessante constatare come, sebbene in Georgia l’occupazione sovietica (così definita dal Museo Nazionale sito nel centralissimo Corso Rustaveli di Tbilisi) abbia provocato centinaia di migliaia di morti – fra repressione politica e Seconda Guerra Mondiale – la maggioranza assoluta del Paese, almeno nei dati raccolti quest’anno dal Caucasus Barometer, non riesce a dire che oggi si viva meglio rispetto ai tempi dell’URSS.
Se è vero che la capacità dell’economia di modellare il nostro tempo viene spesso sopravvalutata, rimane il fatto che il suo ruolo non è da considerarsi secondario nella capacità d’influenzare le prospettive. Batumi ne è un esempio chiaro. Affacciata sulle sponde del Mar Nero e con una centralità storica molto più profonda di quanto la sua moderna propensione turistica non lasci intendere, nei suoi grattacieli il ricambio di villeggianti russi è continuo. Percorrere la passeggiata sul lungomare è il modo migliore per rendersene conto, così come sedersi a uno dei tanti ristoranti progettati ad hoc per spillare quanti più soldi agli avventori – russi o meno fa poca importanza in questo caso. L’afflusso di capitali provenienti dal freddo Nord per costruire a dismisura non si è interrotto con il 24 febbraio. Nella città e nei suoi limitrofi villaggi costieri si ergono scheletri di edifici in costruzione. I turisti non sono calati, ma c’è il timore ciò possa avvenire qualora il Paese decida di guardare verso Ovest. Chiudere al mondo russo vorrebbe dire perdere una consistente fetta del proprio mercato, per guadagnarne un’altra che fra Italia, Spagna e Grecia sa già dove passare le proprie vacanze.
Nella seconda città del Paese, Kutaisi, i turisti sono pochi e spesso guardati con diffidenza. La paura dei cambiamenti traspare da occhi che squadrano da testa a piedi chi non sembra del luogo. Una paura che è radicata nella storia recente: qui l’Unione Sovietica sembra vivere ancora. I giovani – quelli che non si sono trasferiti nella capitale una volta compiuta la maggiore età – sono pochi e crescono nella speranza d’indossare gli abiti delle vecchie generazioni. I loro gesti, i loro movimenti, sembrano voler imitare quelli di chi li ha preceduti, e non basta la presenza di un McDonald’s nella piazza principale per spingere costoro a desiderare qualcos’altro. La storia moderna di Kutaisi passa inevitabilmente per Tskaltubo, il villaggio termale adiacente dove neanche troppo tempo fa la nomenklatura sovietica – e Stalin in primis che qui aveva una sua dacha – trascorreva settimane di riposo lontana dai pensieri moscoviti. Di questi palazzi regali oggi non rimangono che scheletri in decomposizione, ben diversi da quelli di Batumi, che al contrario lasciano presagire nascita di nuova vita. Nel sanatorium Medea, uno dei più caratteristici di tutto il complesso, la natura sta pian piano riprendendosi ciò che le apparteneva: alberi crescono in corridoi sgombri e vandalizzati che danno su piscine esterne piene per metà di acqua piovana stantia ricoperta da muschi. Sui muri interni scritte di ogni genere accompagnano l’occhio per ognuno dei piani ora liberamente esplorabili. Non c’è più vita che sia umana, e dal tetto non si vedono altro che boschi, là dove un tempo Stalin avrebbe udito il vociare dei propri sottoposti.
La Georgia che strizza l’occhio all’Occidente sta nella capitale, Tbilisi. È qui che la contraddizione si fa incomprensibile. Il centro urbano più popoloso, quello più vivo e quello geograficamente posto più a Est, sembrerebbe già parte dell’Unione Europea. Le bandiere nazionali e quelle della Comunità di Stati in cui vorrebbe entrare si affiancano costantemente su edifici pubblici richiamanti un brutalismo oggi non più tanto di moda. I ragazzi vestono come fossero a Berlino e riempiono la città di graffiti che inneggiano all’Ucraina e insultano Putin. Nei locali più frequentati di notte, come Mutant Radio e Left Bank, la lingua russa è ufficiosamente bandita: molto più facile comunicare in inglese. Nei bar antistanti Piazza della Libertà capita sovente di leggere manifesti all’entrata che fra il serio e il faceto invitano a procedere unicamente se si è concordi nel credere che Putin sia un criminale di guerra. Dall’altra parte del fiume che taglia in due la città, un’ex fabbrica sovietica è stata riconvertita ad ostello per viaggiatori internazionali. Qui l’aria che si respira non è propriamente georgiana, ma per gli autoctoni è forse l’unico porto sicuro dove incontrare e conoscere coetanei provenienti da quel mondo da loro desiderato. A costo di pagare una birra quanto la si pagherebbe a Kreuzberg.
Una volta usciti e tornati alla vita vera, basta poco per ricordarsi che il Mar Caspio è vicino tanto quanto il Mar Nero. Il proprio appartamento è magari in una delle tante krusciovke che ancora torreggiano sulla città, e per arrivarci serve una metropolitana che per fattezze è l’immagine sputata di quella moscovita. Nella vita di tutti i giorni ancora l’approccio alla burocrazia e certi atteggiamenti paternalistici della pubblica amministrazione ricordano un luogo e un tempo che non esiste, evidentemente, solo nei ricordi di una delle innumerevoli bancarelle improvvisate che vendono gadget, libri e statuine inneggianti ad un’iconografia che ora è solo storia. Ma se si osserva solo la superficie, l’immagine che Tbilisi vuole dare di sé è un’altra, e lo si avverte anche solo camminando in uno dei quartieri residenziali dei nuovi ricchi: qui la spaccatura fra tradizione e iperprogressismo che il Cremlino sente come esistenziale è affare secondario. È impossibile che l’occhio non cada su una bandiera dell’Unione Europea, siano esse tangibili o disegnate con le bombolette, qui presenti sino a raggiungere il parossismo.
Non esiste Paese più politicamente ambiguo nello spazio post-sovietico della Georgia. Difficile credere che queste contraddizioni non raggiungeranno in un tempo non lontano una valvola di sfogo. D’altronde, come ricordato sovente dai medesimi che ci tengono a definire Putin un criminale di guerra, circa il 20% del territorio georgiano è oggi occupato dalla Russia. L’attuale situazione di stallo – le cui origini e potenziali sviluppi meriterebbero un approfondimento a parte – è stata tacitamente accettata dalle parti ed è sopravvissuta nel corso degli ultimi quindici anni. Dopo il 24 febbraio, però, anche i giovani più europeizzati di Tbilisi vivono in uno stato di tensione crescente. Ad alimentarla i numerosi manifesti pubblicitari che campeggiano su autobus, treni e giornali: uomini e donne in uniforme militare imbracciano fucili d’assalto invitando ad arruolarsi. Il sogno georgiano non può difendersi da solo. La NATO è ancora lontana e nonostante passeggiando per Tbilisi la sua bandiera si scorga sovente, un suo impiego a difesa dei confini nazionali rimane utopico.
Ma la sensazione, osservando il Paese nel suo insieme, e non solo alcune nicchie rumorose della capitale, è che la terra natia di Stalin, prima ancora di pensare a chi sta fuori dai propri confini, dovrebbe pensare a chi sta al proprio interno. Se l’indipendenza non è in discussione, la fedeltà a questa parte di mondo piuttosto che a quell’altra appare ancora una matassa troppo difficile da sbrogliare. Ma il tempo scorre e arriverà il giorno dove alla domanda bisognerà rispondere, senza appello: da che parte stiamo?