I falchi volteggiano sull’Europa Orientale. È quello il terreno di scontro, la linea di demarcazione che separa la Terra dal Mare. Una cintura di ghiaccio e sabbia che va dalla Scandinavia fino all’Afghanistan passando dall’Ucraina. Intorno ad essa, Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Carter, ci ricamò una teoria micidiale, supportata dagli establishment sunniti e sciiti delle nazioni musulmane lungo il confine, per contenere l’Unione Sovietica, e accelerarne il collasso. Chi è cresciuto all’ombra del Cremlino oppure con gli insegnamenti di Henry Kissinger ne conosce bene il valore strategico, ma soprattutto sa che quel pezzo di terra ribolle, e può diventare una pistola puntata sulla tempia. Chi spara per primo ha una chance di vincere. Chi temporeggia all’infinito, viene superato dalla storia. I falchi sono tornati a Mosca e a Washington. Le diplomazie hanno fallito. L’intelligence statunitense anticipa l’imminente attacco su Kiev, pochi giorni dopo Vladimir Putin ha dato l’ordine di invadere l’Ucraina da tre fronti diversi. La guerra, scoppiata nel 2014, non è più una guerra di posizione e di trincea, con qualche incursione di sabotaggio nel territorio nemico, ma una guerra totale con aerei, navi, carrarmati, soldati. Vladimir Putin non è più Cunctator.
Tutti i conflitti fra l’Occidente e la Russia, dalla campagna di Poltava fino alla Guerra Fredda – scrive Claudio Chianese su Dissipatio – sono scontri fra due pensieri contrapposti del mondo. O meglio, fra un pensiero del mondo e un sentimento del mondo. Nella guerra di Ucraina siamo invece nel terreno del risentimento, e a confrontarsi sono Vladimir Putin e la Storia. Prima ancora che militare e logistica, la “fatica imperiale” dell’esercito russo a Karkiv, Mariupol e Kiev, si manifesta nella narrativa zarista in assenza di un preciso casus belli. Infatti nonostante la guerra sia un gesto estremo, dunque estremamente razionale, la narrativa della guerra del Cremlino risulta a tratti isterica, a tratti macchinosa. Ma accanto al calcolo, alla premeditazione, all’analisi di tutti gli scenari possibili, ci sono elementi apparenti di paranoia, di nevrosi, di rancore. Dalla scenografia dei tavoli al face to face con il capo dei servizi segreti dell’Fsb.
E arrivati a questo punto, non si torna più indietro. Perché se da un lato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha salvato la faccia con i suoi elettori, decidendo di respingere il suo piano di evacuazione fino a diventare un’icona del mondo occidentale, ora è l’Occidente che deve concedere qualcosa affinché Vladimir Putin faccia un passo indietro senza perdere la faccia col suo di popolo. Da qui la trattativa di pace, al confine con la Bielorussia, dove la delegazione del Cremlino ha avanzato delle richieste precise (dal riconoscimento della Crimea alla neutralità dell’Ucraina). Non sappiamo quale sarà l’esito, soprattutto dopo che nessuno aveva previsto quello che è accaduto in questi giorni. Di sicuro però sta emergendo da questo conflitto, la necessità dell’Europa di parlare il linguaggio del potere, e soprattutto di rimettere la guerra in cima alla sua agenda strategica. Nel giorno in cui a Berlino hanno manifestato centinaia di migliaia di persone, dalla Colonna della Vittoria fino alla Porta di Brandeburgo, con lo slogan “Stop war, Stop Putin”; la Germania, tramite il nuovo Cancelliere Olaf Scholz, ha deciso di investire il 2 percento del PIL nelle forze armate. Un’azione straordinaria se pensiamo che fino al 1990 la difesa del Paese era in mano a potenze straniere, e che tutt’oggi la Bundeswehr ha dei vincoli rigidissimi a cui sottostare. Guerra chiama guerra.