Presso la Tate Britain Gallery di Londra, ancora oggi, è esposto un quadro magnifico, forse il più emblematico e rappresentativo di tutta l’epopea vittoriana ottocentesca dell’Impero Britannico: si tratta de “I resti di un esercito. Jallalabad 13 gennaio 1842” dell’artista Elizabeth Thompson. Ritrae, in un paesaggio spettrale, William Brydon, medico chirurgo dell’esercito del Bengala che arriva alle porte di Jalalabad, esausto e quasi privo di vita, unico sopravvissuto della fallimentare campagna militare che Londra attuò contro l’Afghanistan tra il 1839 e il 1842, nota agli storici come Prima guerra anglo-afghana.
L’opera dice tutto: Brydon unico superstite e senza oramai più forze, porta la notizia del rovescio totale delle truppe di sua maestà britannica, circa 16.000, massacrate nella ritirata attraverso i passi montuosi dell’Afghanistan; il più potente esercito dell’allora mondo civilizzato e colonizzatore sconfitto dall’organizzazione logistica e dalla intraprendenza dell’indomito popolo afghano.
Se le attuali classi dirigenti delle élite dei paesi liberi, avanzati e democratici occidentali – politiche, economiche, diplomatiche – tra una speculazione finanziaria e una legge ad hoc per lobbies e multinazionali riscoprissero il valore e gli insegnamenti della storia – historia magistra vitae di ciceroniana memoria – forse avrebbero potuto capire quella che può essere considerata a tutti gli effetti una “legge” storica: non si può invadere l’Afghanistan e sconfiggerlo nel proprio suolo, nel proprio territorio, nel proprio habitat culturale e sociale, senza incappare in una tragica sconfitta o impantanarsi in una guerra di logoramento priva di ogni soluzione pacifica.
È una sentenza storica attuale, da ricordarsi e da riportare come monito, vista la prorompente avanzata dei talebani che in questi giorni e in queste ore di agosto si sono ripresi, quasi senza battere ciglio, ciò che una scellerata politica estera americana e occidentale aveva tolto loro – in barba a qualsiasi considerazione del diritto internazionale – venti anni or sono.
La lezione rifilata all’esercito inglese non fu colta in pieno neanche durante il secolo scorso: la grande potenza sovietica, l’URSS, una volta invaso l’Afghanistan nel 1979, dovette mestamente ritirarsi dieci anni dopo con un nulla di fatto, rimediando una sconfitta totale che non fu una delle ultime cause dell’implodere dello stato teorizzato da Lenin, Stalin e Trockij.
Più di quaranta anni dopo, una analoga situazione si ripete: gli Stati Uniti d’America, che hanno dichiarato guerra all’Afghanistan senza nessuna vera motivazione che non sia quella di interessi petroliferi, economici, geopolitici e di commercio di armi, hanno, fin in modo farsesco, perso un’altra guerra, l’ennesima dalla seconda metà del Novecento in avanti. Ora che i talebani sono entrati a Kabul, qualcuno dovrebbe pubblicamente spiegare per quale motivo 53 giovani uomini italiani – e tanti altri di nazionalità diverse – abbiano immolato la loro vita, coperti da un’ipocrita e velatamente suprematista propaganda mediatica di esportazione della democrazia, guerra umanitaria, missioni di pacekeeping.
Pare giunto il momento di scandire ad alta voce che concetti come “esportare la democrazia” o “guerre umanitarie” non solo non esistono, ma rappresentano una chiara forma di ipocrisia e di violenza tutta occidentale, americana e neo-liberista in particolare. L’unica cosa duratura – al netto di singoli episodi edificanti – che Stati Uniti e mondo libero e civile hanno esportato, in Afghanistan come in Iraq, in Libia come in Siria, è morte, violenza, distruzione, caos, divide et impera per poi sfruttare al meglio fragilità e influenza diplomatica.
L’Afghanistan del Mullah Omar, al potere nel 2001-2002, all’epoca della sciagurata operazione militare yankee, era un paese relativamente stabile, con tante ombre e ingiustizie – e il valutarle o il giudicarle a chi spetta? E con quali strumenti? – ma con una gerarchia di potere salda e individuabile. Dopo venti anni l’Afghanistan è un paese spaccato, che non ha mai sopportato la presenza americana e occidentale nelle proprie città e nelle ambasciate, che ha vissuto due decadi di guerra come un indebito sopruso, le cui spese più salate sono ricadute – in tutti i sensi, visto che questo fanno le famigerate bombe umanitarie – sulle case e sulle teste di uomini, donne, bambini; civili inermi che dopo tali perdite – perbacco che strano! – hanno iniziato ad odiare l’Occidente e la bandiera a stelle e strisce.
L’Afghanistan è stato lacerato per tanti motivi, non ultimo per il ripristino di una industriale produzione della coltura del papavero da oppio, espressamente proibita per motivi morali e sociali durante il regime del Mullah Omar e tornata prepotentemente in auge con l’arrivo dei salvatori dei diritti e dell’umanità, a colpi di mercato clandestino di stupefacenti.
C’è una responsabilità politica enorme circa la situazione afghana di Whashington, Bruxelles, Unione Europea, Nato e paesi membri come l’Italia, una responsabilità che grida sete di giustizia nei competenti tribunali per crimini di guerra e contro l’umanità, non diversamente da quanto dovrebbe accadere anche per la folle gestione delle due criminali guerre del Golfo in Iraq (1991-2003).
Nel XIX secolo, nella cornice del Grande Gioco, dello scontro sotterraneo tra Impero Russo e Impero Britannico per la disputa dell’Asia Centrale, l’Afghanistan già rappresentava un crocevia fondamentale a livello strategico e geopolitico, il vero punto di cesura tra Oriente e Occidente, tra Europa e India, per poter sfondare ancora più nel cuore dell’Asia e della Cina. Un territorio ispido, scontroso, ostile; un clima inospitale, una popolazione e tante etnie legate a modelli di vita tradizionali, ben radicati e strutturati, solidali e con una conoscenza del territorio impareggiabile, dei suoi nascondigli migliori per imboscate e guerriglie in grado di resistere a qualunque superpotenza.
Logisticamente imprendibile, con un carattere indomabile, coraggioso e ferino, l’Afghanistan attraverso i combattenti radicalizzati Mujaheddin – armati, addestrati e pagati dallo Zio Sam in funzione antirussa – avrebbero ricacciato un secolo dopo persino l’Armata Rossa, che pensava di varcare il confine e risolvere il conflitto in pochi mesi. Il XXI secolo ci ha regalato un’altra vittoria afghana, più clamorosa e fragorosa, quella guidata dai talebani, che oltre ad un alto livello di organizzazione possono contare anche sull’appoggio concreto di un’importante fetta della popolazione troppe volte sottovalutato, direttamente collegato a decenni di soprusi di potenze straniere.
Una grande lezione per tutti, sulla quale è impellente riflettere per ribadire la necessità di non imbastire più guerre preventive e pilotate da piccoli gruppi di guerrafondai in giacca e cravatta. Mai più distruzione di nazioni come l’Iraq e l’Afghanistan, in nome di risibili motivazioni politiche, per coprire il vizio oscuro dell’Occidente di volere imporre, con la violenza, capitalismo neo-liberista e individualismo democratico. Mai più guerra e morti innocenti, ancora di più in Afghanistan, che all’interno del proprio limes non risulta militarmente espugnabile. Sì, invece, ad un Afghanistan libero in un mondo di rapporti diplomatici indipendenti da vincoli esterni; governato dai talebani, governato da una coalizione, governato da ceti dirigenti di diversi etnie. Un Afghanistan sovrano in grado di adottare il sistema politico-istituzionale che meglio si cala nella specifica realtà socio-culturale e storica del grande stato dell’Asia Centrale. E a noi il compito di consigliare, aiutare, ascoltare, ma non intervenire per evitare quello che da trenta anni stiamo impunemente facendo.
Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, scrive Tacito. Laddove fanno il deserto, la chiamano pace. La pace occidentale, la pace americana: iniziamo a costruire un sistema internazionale in cui pace non venga più imposta, sotto le mentite spoglie del migliore dei mondi possibili.