A trecento metri d’altezza sulle steppe sarmatiche, infinite distese monotone e grigie, l’occhio di un’aquila non faticherebbe a distinguere un tank russo. Probabilmente si accorgerebbe anche delle ormai famigliari lettere bianche, enigmi trasparenti della simbologia bellica, che proteggono le corazze dei mezzi militari. Purtroppo i cieli d’Ucraina in questi giorni scarseggiano di aquile, ma sono il teatro della ricognizione di altri volatili. The Punisher è un drone che si libra alla stessa altezza dei rapaci, silenzioso e micidiale quanto loro, riesce a individuare il suo obiettivo e a sganciare autonomamente 2,7 kg di esplosivo suddiviso in tre bombe. Preciso, letale, impossibile da intercettare, la sua unica pecca è che dopo un paio d’ore deve tornare alla base per essere ricaricato. Sette chilometri più in alto, invece, volteggia il Bayraktar TB2, gioiello dell’industria militare turca, ha una stazza ben più imponente del The Punisher, può portare fino a 150 kg di esplosivo e sta diventando l’incubo dei lunghi convogli russi che si preparano ad assediare le città più importanti. Ancora più su, a circa 18 km, perlustrano il suolo gli RQ-4 Global Hawk della Nato, droni con un’autonomia di 20 ore che riescono a mappare il territorio con una precisione chirurgica e a fornire immagini ad alta definizione dei movimenti e delle tattiche nemiche. Ciò che accomuna questi tre uccelli metallici è il fatto che sono velivoli a guida autonoma (Uav-Unmanned Aerial Vehicle) e sono il fiore all’occhiello dell’innovazione robotica bellica.
Il crescente utilizzo di robot e di macchine intelligenti nei campi di battaglia è stata una costante delle ultime guerre. Macchine autonome capaci di disinnescare mine nascoste, veicoli da ricognizione e razzi intelligenti sono già i protagonisti degli scontri di questi decenni. Fino a quando un robot sostituisce un uomo per un compito pericoloso come sminare un campo infestato di ordigni o favorire la conoscenza delle postazioni nemiche non sorgono problemi etici. Quando, però, la scelta di far fuoco su un possibile obiettivo scaturisce dal calcolo di un algoritmo, la questione diventa più delicata. E se la computazione delle informazioni che decide di abbattere quello che sembra essere un pericoloso caccia nemico poi si rivela sbagliata, e a cadere è un aero di linea con a bordo 290 civili come è accaduto sulle coste dell’Iran nel 1988, di chi è la colpa? Del responsabile di quel drone, dell’azienda che l’ha creato o dell’esercito che lo ha utilizzato? E ancora, i soldati che sanno di poter cadere sotto i colpi di un freddo robot come vivranno il loro spirito d’eroismo, da sempre il combustibile più a buon mercato per aizzare la fiamma della guerra? Queste e altre domande sono contenute nel libro Robot. Cosa sono e come funzionano le macchine intelligenti di John Jordan edito da Luiss University Press. Il testo non aspira a fornire delle risposte morali e politiche, ma la sua particolarità risiede proprio nella quantità e nella crucialità dei quesiti che pone. Si spazia, appunto, dalla robotica bellica a quella civile, passando per il futuro dei trasporti e gli impatti dell’automazione sull’economia.
I robot cambieranno drasticamente il modo in cui viviamo, e oggi ci troviamo nel momento decisivo in cui si stanno sviluppando le caratteristiche che plasmeranno il loro utilizzo. Si tratta del concetto di pathdependence: nel corso dell’evoluzione di una tecnologia ci sono dei momenti di svolta in cui alcune scelte condizioneranno inevitabilmente e profondamente il suo funzionamento e la sua diffusione. Di solito questo periodo arriva quando le tecnologie sono abbastanza sviluppate, ma non ancora mature a tal punto da egemonizzare il mercato e trasformare la struttura della società. I robot si trovano esattamente in questa situazione e nei prossimi anni alcune scelte, probabilmente contingenti, indicheranno il percorso che porterà alla loro futura espansione. Perché lasciare che decisioni così importanti vengano prese da uno sparuto gruppo di poche centinaia di ingegneri, informatici e imprenditori sparsi per lo più sulle coste statunitensi e in Giappone? Lo scopo dichiarato dell’autore è proprio quello di allargare il dibattito sull’intelligenza artificiale e le macchine autonome coinvolgendo più persone possibili, in modo da condizionare l’opinione pubblica e prepararla ad affrontare quei momenti in cui inconsapevolmente si deciderà il futuro della società.
Innanzitutto bisogna mettersi d’accordo sulla definizione di cosa sia un robot, impresa ardua anche per gli scienziati che hanno partorito questa materia. Un paradigma utile per tentare di sintetizzare le loro caratteristiche è quello del “percepire, pensare, agire”. Il robot è una macchina che autonomamente riesce a percepire la realtà in cui si trova, elaborare i dati di questa percezione ed eseguire azioni conseguenti. Quindi un robot dovrebbe avere dei sensori (telecamere, termostati, microfoni, radar ecc…), dei computer e delle protesi meccaniche in grado di permettergli di agire in qualche modo. Se si riflette un po’ più a fondo, le tre caratteristiche che descrivono i robot sono le stesse che definiscono a grandi linee il mondo animale. Qui entra in gioco un secondo concetto importante per capire i robot, quello di biomimetismo. Le macchine autonome sarebbero i risultati degli sforzi umani di imitare la vita in maniera artificiale. Da Pigmalione a Mary Shelley anche la storia culturale è costellata di tentativi di costruire esseri viventi a partire da materia inanimata, come se la dicotomia uomo-macchina/anima-materia, che assilla la coscienza da secoli, trovasse una sublimazione negli automi artificiali. La differenza che il biomimetismo non riesce a colmare tra i robot e le persone, però, diventa l’origine delle paure e delle incertezze che sopraggiungono quando si pensa a un futuro non troppo lontano in cui l’automazione prenderà il sopravvento.
La sostituzione dell’uomo con il robot è lo scenario da incubo con cui i grandi maestri della fantascienza hanno plasmato l’immaginario collettivo: a lungo andare le macchine autonome saranno più forti, più intelligenti e più perspicaci di noi, gli uomini dipenderanno in tutto e per tutto da loro e allora, quando anche lo sviluppo e la programmazione dei nuovi robot non sarà più appannaggio degli umani, avverrà la sostituzione definitiva. In realtà se è vero già da oggi che in molte situazioni un robot o un computer è più bravo di un uomo, un uomo e un computer battono di gran lunga un computer da solo. Un esempio lampante dell’invincibile complementarietà tra il calcolo di una macchina e l’istinto umano viene dal mondo degli scacchi. A partire dal 1997 gli algoritmi sono diventati più forti degli uomini sulla scacchiera, il campione del mondo non avrebbe nessuna possibilità di battere Stockfish il più forte motore scacchistico in circolazione. Eppure, il connubio tra uomo e macchina riesce a vincere una partita contro un motore di pari potenza. Dai primi anni 2000 si organizzano tornei in cui gli sfidanti hanno la possibilità di utilizzare un software che gli suggerisce le mosse migliori. Non sempre i giocatori seguono quella che l’algoritmo gli indica come posizione più performante e, decidendo in base ad altri parametri che non siano solo vantaggi calcolabili, riescono a trovare strategie inaspettate e vincenti.
I centauri, così vengono chiamati questi ibridi di cuore e processori, sono il paradigma dell’atteggiamento che secondo l’autore di Robot bisognerebbe assumere nei confronti delle macchine intelligenti. I robot non sono dei potenziali competitors degli umani, ma strumenti che ampliano le loro capacità e prospettive. Se i centauri mitologici sono nati dall’amplesso di un re mortale con una nuvola, i centauri del futuro nasceranno dall’unione dell’uomo con i calcolatori del cloud, l’invisibile e pervasiva nube di informazioni che racchiude il reale. Tra queste futuristiche fusioni di sangue e kilobyte si spera di trovare anche un nuovo Chirone cibernetico, che continui a insegnare all’uomo l’arte di rimanere tale.