In psicologia linguaggio e rappresentazione sono indissolubilmente legati. Col termine rappresentazione si intende «ciò che ci si rappresenta, il contenuto concreto di un atto di pensiero, in particolare la riproduzione di una percezione antecedente» (Laplanche, Pontalis). Freud, già nel 1891, distingue tra rappresentazione di cosa e rappresentazione di parola. Nell’Interpretazione dei sogni (1899) l’annodarsi di rappresentazione di cosa e di parola si fa più esplicito:
«Il lavoro di condensazione del sogno riesce particolarmente evidente quando sceglie a suoi oggetti parole e nomi. Infatti il sogno tratta spesso le parole come cose e le sottopone alle medesime combinazioni delle rappresentazioni di cose. Ne risultano creazioni verbali bizzarre e inconsuete».
Secondo il modello psicoanalitico, e non solo, il linguaggio corrisponde ad un complesso processo associativo in cui vengono ad immettersi anche elementi mnestici e oggettuali, caricati emotivamente. Del resto non ci vuole Freud per capire quanto il linguaggio dei nostri giorni sia carico di emotività, un’emotività, ahimè, distruttiva.
Il linguaggio ha interessato anche le altre generazioni di psicoanalisti: Jacques Lacan si spinge a riunire in un unico concetto linguaggio e ordine simbolico. Il linguaggio non è solo una facoltà cognitiva e soggettiva, ma «è il linguaggio che parla l’uomo» in quanto lo precede e lo determina come soggetto. Dal 1968 Lacan introduce il concetto di «discorso del capitalista» che, a differenza del «discorso del padrone» ancora legato alla dialettica hegeliana, esalta il godimento contro ogni forma di legame: non è più il capitalismo della teoria classica weberiana, votato al sacrificio e semper fidelis alla morale protestante, ma il nuovo potere della cultura massificata del consumo, responsabile di quella «mutazione antropologica» denunciata da Pasolini. La distruzione dei legami, se per legami intendiamo anche i legami tra le rappresentazioni di cosa e di parola, produce quel linguaggio povero e frammentato che la propaganda cova con cura maniacale dentro di sè: le argomentazioni che giustificano le cobelligeranti politiche europee e italiane sul conflitto ucraino, infatti, faticano a contarsi sul palmo di una mano. La più gettonata, e anche la più pleonastica, è che ci sia un aggressore e un aggredito.
Sarebbe interessante effettuare un’analisi statistica che studi la frequenza con cui questa frase viene usata dai valletti della propaganda occidentale. Da un punto di vista semantico non racconta nulla sulla guerra, è anzi una conditio sine qua non di essa. A memoria non ricordiamo guerre che non siano iniziate con un’aggressione. Ma, come detto sopra, il linguaggio è intimamente legato all’importo emotivo (o pulsionale a seconda degli approcci) da cui nascono anche le rappresentazioni della coscienza e dell’inconscio; potrebbe essere allora utile ragionare sulle implicazioni psicologiche della ripetizione ossessiva di questa ovvietà. Dire che c’è un aggressore e un aggredito porta a solidarizzare con l’invaso e a condannare l’invasore. Fin qui nulla di male. Il problema è l’uso massiccio e le sue conseguenze: l’esasperato manicheismo di questa formula ricorda un meccanismo di difesa primario denominato scissione dell’Io, un processo psichico usato fin dai primi mesi di vita dall’infante per fronteggiare l’angoscia. Kenberg descrive tali polarità come:
«Stati dell’Io opposti, definizioni di sé di tipo grandioso (totalmente buone) contrapposte ad altre caratterizzate da inferiorità e svuotamento».
La definizione di Kernberg ci è utile per ragionare sugli effetti della propaganda bellicista cui siamo sottoposti: da un lato abbiamo la cosiddetta “Resistenza” ucraina, composta da valorosi combattenti che difendono gli ideali democratici, dall’altro la pericolosa autocrazia di una Russia popolata da barbari. Gli accenni alla pericolosa deriva nazionalista ucraina o ai massacri in 8 anni di guerra nel Donbass vengono semplicemente negati, ignorati o giustificati. É molto più semplice e rassicurante credere che il mondo sia diviso in buoni e cattivi, piuttosto di prendere atto che un oggetto sia ambivalente, cioè che contenga sia parti buone che cattive.
L’uso massiccio della scissione nelle prime settimane di vita diminuisce (se tutto va bene) nel momento in cui l’infante avverte la madre «non più come scissa in un oggetto persecutorio e uno ideale, ma sentita come l’unica sorgente tanto delle gratificazioni quanto delle frustrazioni» (Klein). Riconoscere che l’oggetto contenga sia parti buone che cattive è un’importante conquista evolutiva dello sviluppo psichico, e ha un ruolo predominante sulle modalità con cui l’adulto organizza l’esperienza, spesso angosciante, del reale. Al contrario, un uso massiccio della scissione è tra le principali cause della psicopatologia e dei disturbi di personalità, primo fra tutti quello narcisistico. Questo dovrebbe farci meditare sullo stato di salute della nostra società, in cui anche il Papa è accusato di putinismo dalle pagine del principale quotidiano italiano.
Come ha già fatto notare qualcuno, è ormai chiaro che esistano gli invasori, gli invasi e gli invasati. Un’altra argomentazione della narrazione è che Putin sia il nuovo Hitler. Gli Stati Uniti ne producono a ritmi hollywoodiani, e dopo la parentesi mediorientale siamo ripiombati in un’atmosfera da guerra fredda alla James Bond. È evidente il meccanismo della proiezione, «il processo per cui qualcosa di interno viene erroneamente considerato come proveniente dall’esterno (Mc Williams)». É la difesa tipica della paranoia che «implica lo sperimentare come esterno al Sé qualcosa che invece si trova al suo interno» (ibidem). Questi slogan, creati ad hoc per imbarbarire l’opinione pubblica e creare un nemico, possono avere pericolose conseguenze nel divenire della Storia.
A cominciare dal Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), la psicoanalisi ha prodotto modelli teorici per comprendere la psicologia dei gruppi, spesso attraverso le analisi che gli stessi autori hanno applicato ai processi storici del proprio tempo, come nascita dei nazionalismi e cause della guerra. Wilfred Bion sostiene che nessun individuo può essere marginale rispetto ad un gruppo, in quanto «l’essere umano è un animale gregario». Inoltre individua tre «assunti di base», ovvero tre principali fantasie onnipotenti condivise inconsciamente dal gruppo: dipendenza (organizzata sulla dipendenza da un leader che adempie alle necessità del gruppo), attacco-fuga (organizzata sulla paranoia del gruppo a causa della presenza di un nemico) e di accoppiamento (organizzata su una speranza messianica). Ci concentreremo sulla seconda. Secondo Bion:
«La cultura denominata gruppo di attacco-fuga trova il suo leader in personalità paranoidi. Il leader deve alimentare l’idea che esista un nemico, all’interno e fuori dal gruppo, dal quale difendersi o fuggire».
La paranoia anti-russa giustifica tanto le scelte politiche, come il sostegno militare all’Ucraina e la bullizzazione delle opinioni discordanti (attacco), quanto le derive sociali, come i tentativi di cancellazione della cultura russa (fuga). E’ un meccanismo tipico del nazionalismo, con la differenza che si sostituiscono gli ideali di nazione con gli ideali democratici. Il nemico non più è la minoranza etnica ma il pericoloso autocrate che minaccia la democrazia.
Abbiamo assistito ad altre guerre “giuste” in Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia. Un idealismo che usa lo stesso storytelling di una serie Netflix o di un film di Hollywood, per preparare l’opinione pubblica all’idea che una guerra con la Russia sia inevitabile, giusta e che, sotto sotto, si può anche vincere. Per ora “fino all’ultimo ucraino”, poi chissà. L’idealismo borghese di Saint Just ridotto a oggetto-feticcio del «discorso del capitalista» evocato da Lacan, e privato financo dell’idea. Puro intrattenimento voyeristico nella civiltà dei consumi. Nel 1951 Stalin era ancora vivo e Albert Camus scriveva riguardo i due blocchi:
«La civiltà giacobina e borghese suppone che i valori stiano al disopra della storia, e la sua virtù formale fonda allora una ripugnante mistificazione. La rivoluzione del ventesimo secolo decreta che i valori sono commisti al movimento della storia e la sua ragione storica giustifica una nuova mistificazione. Di fronte a questi moti sregolati, la misura c’insegna che occorre ad ogni morale una parte di realismo: la virtù pura è omicida. Per questo le ciance umanitarie non hanno maggior fondamento della provocazione cinica».
Alla mistificazione delle «ciance umanitarie» di cui parla Camus, sembra che gli Stati Uniti abbiano aggiunto quella mistificazione della “ragione storica” tipica del blocco sovietico. Il peggio che potessero ereditare dal comunismo. Il linguaggio della propaganda, se confrontato con la storia degli ultimi venti anni, è chiaro: per giustificare una guerra è sufficiente trovarsi davanti ad una dittatura, e ogni nuova guerra è necessaria perchè solo così realizzeremo un mondo in cui potremo riconoscerci tutti come democratici. In questo scenario l’Europa oscilla tra negazione delle conseguenze e subalternità alla NATO, avendo oramai fallito quella vocazione di mediazione politica e culturale che doveva assicurare la pace dall’Atlantico al Pacifico. Una mediazione resa impossibile dai meccanismi di scissione e proiezione. Si potrebbero citare altre perle di scemenza come “vai in Russia a dire quello che dici qui” o ricordare sciocchi neologismi come benaltrismo e neneismo. Ma, nonostante il bombardamento di slogan sentimental-guerrafondai, la maggioranza degli italiani è contraria all’escalation, favorevole alla via diplomatica e preoccupata del rischio di una guerra mondiale. Nell’era del crossmediale anche la parola guerra rivela la sua natura polisemica: una guerra che è anche linguistica e psicologica.
Camus visse gli orrori dell’occupazione nazista e fu caporedattore della rivista clandestina Combat. Nel 1947, in una delle ultime pubblicazioni, scrisse parole che oggi tornano ad essere di drammatica attualità:
«Sì, si dovrà alzare la voce. Mi sono ben guardato, finora, dal fare appello alla mozione degli affetti. Non sono certo i sentimenti a poter tranciare i nodi di una logica insensata, potrà soltanto riuscirvi una ragione che ragioni nei limiti a essa consentiti. […] Ci si chiede di amare o detestare questo o quel paese, questo o quel popolo. Ma siamo in tanti ad avvertire anche troppo bene le nostre somiglianze con l’umanità intera per accettare una scelta del genere. Il modo giusto per volere bene al popolo russo, riconoscendo quel che non ha mai cessato di essere, ossia quel lievito di mondo di cui parlano Tolstoj e Gorkij, è fare in modo di risparmiargli, dopo tutte le prove che ha passato, un nuovo e terribile tributo di sangue. E la stessa cosa vale per il popolo americano e per l’infelice Europa. É questo il tipo di verità elementare da non dimenticare nella furia delle nostre giornate. Sì, oggi vanno combattuti la paura e il silenzio, e con essi la separazione delle persone e delle anime che quelli comportano. Vanno difesi il dialogo e la comunicazione universale e reciproca tra gli uomini. La subalternità, l’ingiustizia e la menzogna sono i flagelli che ostacolano la comunicazione e impediscono il dialogo. Ecco perchè dobbiamo respingerle».
Sembra che la maggioranza degli italiani, a differenza della sua classe dirigente, sia d’accordo con Camus.
Bibliografia
Laplanche, Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi (1967)
Freud, L’interpretazione dei sogni (1899)
Recalcati, L’uomo senza inconscio (2010)
Kernberg, Narcisismo e analisi del Sé (1975)
Klein, Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi (1935) Mc Williams, La diagnosi psicoanalitica (2011)
Bion, Esperienze nei gruppi (1961)
Camus, L’uomo in rivolta (1951)
Camus, Questa lotta vi riguarda – Corrispondenza per Combat 1944-1947