Le immagini del presidente ucraino Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj che citando Winston Churchill ed evocando William Shakespeare viene accolto da una standing ovation dal parlamento inglese fanno pensare a un film o alla continuazione della serie tv – “Sluha Narodu” / “Servitore del popolo” – che lo ha portato alla guida dell’Ucraina. La sua ascesa politica avrebbe fatto impazzire Philip K. Dick perché fiction e realtà si sono scambiati i ruoli, confondendo i confini, accelerando la storia. Tutti raccontano velocemente questo salto di specie – politica – che sembra uscito da un capitolo non scritto di “Infinite Jest” dove David Foster Wallace immaginava sistemi televisivi che avrebbero controllato lo spettatore fingendo di coccolarlo seguendo i suoi gusti. Nel caso di Zelens’kyj siamo nell’oltre: coccolare lo spettatore per poi dargli i suoi gusti: in tv come in politica. “Sluha Narodu” / “Servitore del popolo” da serie diventa partito, e Zelens’kyj da presidente dell’Ucraina nella fiction diventa presidente dell’Ucraina nella realtà, con una naturalezza che fa impressione e scavalca anche “To Be or Not to Be” di Ernst Lubitsch. Il 28 marzo 2019 finisce la terza stagione della serie, e il 20 maggio Zelens’kyj è eletto presidente. Per fare la storia prima la modifica sceneggiando, dirigendo e recitando in una serie e poi ci entra con le stesse istanze della finzione.
Anche Vladimir Vladimirovič Putin ha una serie, anzi allora si chiamavano sceneggiati, non come progetto ma come ispirazione: “Ščit i meč” / “Lo scudo e la spada”, quattro puntate sullo spionaggio, tratte dal libro di Vadim Mikhailovich Kozhevnikov e dirette da Vladimir Pavlovich Basov. Vedendola, a 16 anni, si sentirà chiamato, fino a presentarsi alla sede del KGB (Komitet gosudarstvennoj bezopasnosti) a Leningrado per chiedere come farne parte.
«Che tipo di studi dovrei fare per entrare qui?» chiede il giovane Vladimir. «Una laurea qualunque» risponde la guardia. «Quale?» chiede ancora il ragazzo mostrando una pignoleria che gli tornerà utile. «Giurisprudenza». È quello che farà. Per poi essere richiamato dal KGB, che ha sempre mostrato una buona memoria.
La cosa divertente è che i titoli delle puntate di “Ščit i meč” sembrano perfette per raccontare le fasi della vita di Putin, uno scherzo da Vita é Destino:
Parte 1. Nessun diritto di essere se stessi (Без права быть собой): è chiaramente il giovane Putin nell’Unione Sovietica che annienta l’individualismo in ragione della collettività.
Parte 2. L’ordine è: Sopravvivere (Приказано выжить): o dalle macerie alle macerie, dalla nascita, 1952, in una città Leningrado dove sono evidenti i segni dell’assedio, dalla quale parte dopo l’arruolamento nel KGB per Dresda e da dove tornerà all’indomani della caduta del Muro di Berlino, in auto, con tutto da rifare.
Parte 3. Senza ricorso (Обжалованию не подлежит): dal capodanno del nuovo millennio comincia una storia differente per la Russia, senza ricorso alcuno, chiunque ci proverà ne rimarrà o morto o imprigionato.
Parte 4. L’ultima frontiera (Последний рубеж): è quella che Putin sembra voler ricostruire, dell’Urss.
A volte quello che amiamo e che ci segna, finisce anche per raccontarci.
Putin sceglie di fare la storia in segreto, finendo poi per diventare un Kolossal, proprio al contrario di Zelens’kyj.
Dal piano Marshall al piano sequenza Marvel
La serie di Zelens’kyj, “Sluha Narodu” / “Servitore del popolo”, fin dalla sigla promette un mondo diverso, c’è il futuro presidente che pedala sorridente, spensierato, in una Ucraina dove non fa freddo e con una luce migliore del solito (quasi californiana), accompagnato da una canzone semplice e orecchiabile i cui versi centrali stanno al presidente futuro come i titoli dei capitoli di “Ščit i meč” stavano a Putin.
“Ficco il naso dappertutto, ho una voce potente, ma non cerco guai” / “Oggi tutti sanno che il mio destino mi condanna ad essere il Servitore del popolo”
Zelens’kyj pedala, sorride, ha un completo blu, e le mollette alle caviglie, entrando a scuola se ne dimentica una, e la toglie alla fine delle scale, simulando una sbadataggine, un ammicco che racconta la normalità: quella di uno che vive a casa dei genitori, rimproverato dal padre perché guadagna poco, coccolato dalla madre, che trova il bagno occupato dalla nipote, è quasi preso per scemo dalla sorella e maltrattato dalla ex moglie, anche se poi lo vediamo addormentarsi con Plutarco. In aula no, è più autorevole, fraterno, un professor Keating (“L’attimo fuggente” / “Dead Poets Society”) con meno ironia – nonostante provenga dalla comicità proprio come Robin Williams – e molta più rabbia. E proprio un suo sfogo con un bidello, contro la corruzione, contro lo stato delle cose, ripreso a sua insaputa da un ragazzo, diventa virale. Il professore Vasily Petrovyč Goloboroďko diventa inaspettatamente una sorta di Beppe Grillo che vince senza nemmeno il fastidio di fondare il movimento – nella fiction –, e tutto cambia. Comincia a rovesciarsi ogni cosa, proprio con una battuta su Putin.
Il nuovo presidente viene rivestito, truccato, pettinato, e al momento di scegliere l’orologio: indica un Hublot®, ma la sua guida gli fa notare che sarebbe lo stesso modello che sta al polso di Putin, allora richiede: «Putin Hublot?» e l’altro risponde «Sì». E ridono insieme, è nata la loro complicità. Lo spettatore europeo pensa: perché ridono? Perché Hublot ha una assonanza con (хуйло) huylo – cazzo– e «Putin huylo» è una strofa di un canto anti-zar nato dagli ultras del Metalist Kharkiv e da quelli dello Shaktar Donetsk nel marzo 2014 all’inizio della guerra russo-ucraina, poi diventato una sorta di definizione acquisita del presidente russo, un gioco d’offesa popolare. Come le barzellette su Hitler che fa raccontare Ernst Lubitsch in “To Be or Not to Be”, forse a bassa voce nei corridoi del Cremlino o nella fila di carri armati fuori Kiev se lo dicono anche i russi, chissà. Manca a Zelens’kyj lo scarto d’umorismo che un gigante come Mel Brooks riesce a dare quando scrive “Heil Myself”.
Non sarà l’unica volta che, nella serie, Putin viene preso in giro. Tanto che se non ci fossero tanti civili morti e il baratro nucleare si potrebbe dire che la guerra è la recensione di Putin all’opera di Zelens’kyj. Nelle altre puntate un sosia di Putin viene trattato malamente nelle prove del cerimoniale di nomina presidenziale, e peggio va a Aljaksandr Lukašėnka, presidente della Bielorussia, la guida gli consiglia di non alzarsi proprio, e mentre fanno le prove a Zelens’kyj / Goloboroďko squilla il telefono e lui – come Berlusconi con la Merkel – se ne va, perso dentro ai fatti suoi, lasciandolo appeso. Ci sta e fa ridere, anche perché Lukašėnka è nato per essere preso in giro. Come ci sta e fa ridere che Zelens’kyj / Goloboroďko per richiamare l’attenzione del parlamento ucraino – nella finzione – in piena rissa democratico-istituzionale, quelle tipiche parlamentari, dica: «Putin è stato deposto». Ottenendo di colpo un silenzio da pagine di storia, in atto.
Come è divertente che il sonno di Zelens’kyj / Goloboroďko venga turbato solo dalle parole comunismo e default, pronunciate da Plutarco.
Anche in questo caso si potrebbe giocare con la divisione scolastica che si fa del filosofo e scrittore greco: le Vite Parallele e i Moralia, con le vite parallele di Zelens’kyj e i Moralia e le conseguenze storiche delle vite parallele di Zelens’kyj.
Ma Plutarco non è il solo ad apparirgli. Gli appaiono tra gli altri: Abraham Lincoln, Ernesto Guevara e soprattutto Lev Trotsky. Uno dei presidenti americani più importanti della storia degli Stati Uniti, il simbolo della ribellione – anche ai russi, rispetto agli accordi di Fidel Castro – che va oltre ogni nazionalità, e un ucraino, che è il dissidente per antonomasia cancellato da Stalin.
L’incontro con Trotsky è quello meglio articolato: sono in treno, un treno con le tendine rosse che appaiono in tutte le foto dei treni dell’Urss, un drappo identitario più che un oggetto d’arredo. In più il treno è alla base del secolo russo: da Lenin in poi. Il politico e rivoluzionario è inquieto come il doc Emmett Lathrop Brown di “Ritorno al futuro” di Robert Zemeckis, ha un braccialetto elettronico, è pedinato, ma sta andando in Italia, mostra a Zelens’kyj un vocabolarietto e gli dice che sta imparando l’italiano, e il presidente gli consiglia di andare in Sicilia, ma lui ha scelto Capri. Poi tenta la fuga, ma viene ripreso dalla guardia del corpo di Zelens’kyj / Goloboroďko che gli infligge anche diverse scariche elettriche, riportandolo alla condizione di fuggiasco e abusivo.
È curioso che Putin nel suo discorso alla nazione abbia invocato Lenin, e Zelens’kyj qualche anno prima parlasse e viaggiasse con Trotsky, quindi con la variante che ha sempre lasciato immaginare una Unione Sovietica differente – secondo anche i desideri di Lenin – che invece prese poi la piega Stalin, grazie alla sua voracità e alla sua naturalezza nell’usare la violenza.
Ma i riferimenti di Zelens’kyj sembrano essere tutti americani:
– “Il presidente – Una storia d’amore” (The American President ) diretto da Rob Reiner e scritto da Aaron Sorkin. Un tentativo di creare l’immagine di un capo di stato perfetto: spiritoso e brillante, votato alla causa ecologista e democratico, eppure marchiato da un’apparente normalità che lo rende amabile come il medico di famiglia.
– “My Fair Lady” di George Cukor (tratto dall’opera Pigmalione di George Bernard Shaw) Zelens’kyj è Eliza Doolittle, una scommessa. Mentre nel palazzo di governo si alternano massaggiatori, parrucchieri ed estetisti, avviene la trasformazione da umile professore di storia a presidente, esattamente come Audrey Hepburn da fioraia diventa nobildonna.
– “The O.C.” serie tv statunitense, ambientata interamente in California. Tutti biondi, abbronzati, con i capelli in piega e luce abbagliante. Anche di notte. Se guardate le scene familiari di Zelens’kyj ve la ricorderà sicuramente.
Inoltre la scena del discorso invettiva al primo consiglio dei ministri – che poi verranno sostituiti con ex moglie e amici, una sorta di governo familiare – Zelens’kyj armato di una mazza chiodata- scettro ricorda il De Niro / Capone de “Gli intoccabili” (The Untouchables), e la scena – una delle poche raccontata dai media – che lo vede immaginare di sparare sui parlamentari ucraini ricorda sicuramente Al Pacino in “Scarface” ma anche Mel Gibson in un episodio dei Simpson: “Oltre la sfera della cantonata” (Beyond Blunderdome).
Una menzione a parte merita l’episodio che evoca “The Game” di David Fincher, dove il presidente Zelens’kyj / Goloboroďko viene picchiato, incappucciato, rapito, ricattato, portato su una scogliera, rinchiuso nella sua auto che viene cosparsa di benzina con la minaccia d’essere bruciato vivo, poi lasciato fuggire e inseguito da una pioggia di pallottole, fino a quando non rimane appeso come un Robinson Crusoe fantozziano a una trappola, ma è solo per festeggiare il suo compleanno, un regalo degli amici ministri con i quali poi beve vodka ancora legato.
Nella realtà poi, Zelens’kyj farà come Goloboroďko e si porterà nel partito e nelle istituzioni gli amici e colleghi della sua casa di produzione: Kvartal 95 Studio, che secondo le sue dichiarazioni ha lo scopo di «rendere il mondo un posto migliore, più gentile e più gioioso con l’aiuto di quegli strumenti che abbiamo, che sono l’umorismo e la creatività».
Dalle macerie alle macerie
Mentre Zelens’kyj è questo concentrato di americanità, pur essendo cresciuto nella Russia tra il comunismo e l’ondata liberista – è nato nel 1978 – tanto che parla un russo perfetto, Putin è l’ultimo prodotto del Novecento sovietico. Nasce nella città dell’assedio nazista, a leggere le sue biografie, cresce respirando quella storia – che è epicissima, non a caso l’ultima espressione omerica del cinema, Sergio Leone, stava lavorando a una trasposizione cinematografica dell’assedio – e poi crescendo come un teppistello che picchia i bulli, tanto da ricordare proprio il “Noodles” di “C’era una volta in America” con un grande senso dell’amicizia, un grande dolore (cresce con la perdita del fratello), ma anche con la voglia enorme di lasciare la puzza della strada che aveva l’altro personaggio di Leone: “Max”.
Putin è un bambino che esce da “Vita e destino” di Vasilij Grossman: ha la guerra addosso, nelle ossa, sua madre camminerà male proprio in seguito alla malnutrizione durante l’assedio, il racconto di come arrivavano i pochi viveri attraverso una pista – quella della vita – sul Ladoga, il lago ghiacciato, con i mezzi che rischiavano di finire in acqua, e gli uomini che misuravano lo spessore del ghiaccio ad ogni movimento, supera di gran lunga tutta la narrazione del proibizionismo e dei carichi di alcol clandestino, aggiungendosi al comandamento di Stalin che negava i corridoi umanitari per far lasciare la città ai civili. Putin cresce con i racconti di guerra del padre, e si proietta in “Ščit i meč” che era intriso di eroicità, a cominciare dal regista: Vladimir Pavlovič Basov aveva combattuto durante la seconda guerra mondiale, era stato ferito in combattimento ed era un decorato con l’Ordine della Stella Rossa. Sarà Putin a spostare il culto della vittoria nella seconda guerra mondiale da vittoria comunista a vittoria patriottica, sfilando nel «reggimento degli immortali» con la foto del padre, per ricordare proprio tutti i russi che avevano combattuto contro il nazismo. Alla luce della denazificazione dell’Ucraina, questo non è un dettaglio relativo.
L’eroe del giovane Putin, protagonista della serie, aveva come modello reale il comandante Yuri Ivanovich Drozdov, nome in codice Vympel, «vessillo», simbolo del coraggio e dell’audacia sovietica. Che poi si ritroverà a commemorare davvero, raccontandolo come «modello di devozione alla patria senza riserve alcune». Drozdov fu protagonista dello scambio di prigionieri avvenuto nel 1962 sul ponte Glenicke di Berlino fra l’agente russo Rudolf Abel e il pilota statunitense Francis Gary Powers, raccontata anche da Steven Spielberg ne «Il ponte delle spie». Dopo gli incarichi sotto copertura a Berlino, Pechino e New York, Vympel avrebbe guidato la presa del Palazzo Tajbeg a Kabul.
L’altro modello è Markus Wolf, in codice Misha: che ispira la figura di Karla a John Le Carré. Wolf ha creato l’HVA (Hauptverwaltung Aufklärung), il servizio segreto della DDR, che Putin conosce quando fa servizio a Dresda.
I modelli di Putin sono reali e iperspeciali al punto di diventare personaggi letterari, mentre quelli di Zelens’kyj – come la sua stessa carriera – fanno il percorso inverso: dall’irrealtà diventano reali. Un salto di specie, appunto. Dove il modello è l’invenzione che diventa verità.
Anni dopo, incontrando al Cremlino, alcune spie russe espulse dagli Stati Uniti, Putin, in un clima di cameratismo, cantò loro: “С чего начинается Родина”- “Where the Motherland Begins” – “Dove comincia la Patria”– la canzone che accompagna “Ščit i meč”, ricordando la colonna sonora della sua vita, della sua biografia e il coincidere di queste con la storia russa. Una storia figlia di un libro di spie, proseguita in uno sceneggiato di spie che ha ispirato la spia che divenne presidente della Russia. Perché Putin su questo dettaglio di James Bond russo ci batte tanto, al punto che il suo oppositore Aleksej Anatol’evič Naval’nyj nel video che racconta la villa-città sul Mar Nero lo ritrae come James Bond tra le tante caricature, una per stanza.
Da Leningrado a Dresda a/r. Nemmeno Kurt Vonnegut avrebbe saputo fare di meglio, cosa c’è dopo l’assedio nazista della città russa? Il bombardamento angloamericano della città tedesca, e Putin tiene insieme i due luoghi. Ovviamente è l’ago che cuce la memoria, e fa solo in tempo a respirare i ricordi dell’orrore. Anzi, per lui Dresda è un salto, anche se sperava in Berlino, sono gli anni Ottanta, e la Germania – seppure dell’Est – rappresenta un passo in avanti. Putin parla molto bene il tedesco e questo gli servirà proprio nei giorni rocamboleschi della caduta del muro – permettendogli di farsi passare come un semplice interprete, e assiste tra la gente all’assalto della Stasi di Dresda –, evento che lo costringe a tornare in Russia, su una vecchia Volga stracarica di roba, in un viaggio che è una ritirata, epico e denso di sconfitte. Torna a Leningrado e vive mesi difficilissimi, pensa di fare il tassista e il maestro di judo oltre a tornare all’università come assistente, ritrovando il professor Anatolij Aleksandrovič Sobčak, futuro sindaco di San Pietroburgo e vera origine della sua fortuna. È un soldato del Novecento che mette in crisi l’Occidente.
– Intervallo –
La terza epoca di Internet e la terza guerra mondiale
Alex Masmej ha creato uno strumento finanziario: token sociale – una forma di cripto valuta il cui valore ruota intorno a una persona – secondo la definizione che ne dà Rex Woodbury su The Atlantic, e vende azioni di Sé stesso. Alex ha generato il suo investimento. In pratica sta riscrivendo il valore economico aprendo nuove strade. Passa dall’eliminazione delle autorità alla trasformazione del capitale sociale in economico. La proiezione sociale – il token – della persona diventa una banconota intercambiabile. È solo l’inizio di un nuovo mondo, molto più liquido del presente, anzi la sua forma fisica sembra l’impalpabile, per molti inimmaginabile.
Seguiamo Alex nell’esempio che fa Woodbury:
I possessori di $Alex – le sue azioni – avrebbero ricevuto il 15 per cento del reddito di Masmej nei tre anni successivi con un tetto massimo di centomila dollari complessivi. Potendo anche scambiare token per avere privilegi: con diecimila $Alex ottenevi un retweet di Masmej su Twitter, con ventimila $Alex una conversazione con lui a tu per tu, con trentamila $Alex eri presentato a uno del suo giro.
Poi nel quadro di $Alex, Masmej ha creato un componente: Control my life, dove i detentori dei token potevano votare sulle scelte della sua vita: se doveva correre, dimagrire, lavarsi, svegliarsi a una ora diversa dal solito, mangiare delle cose speciali, etc. Ovviamente i possessori di token ottenevano un interesse finanziario dal fatto che Masmej seguisse le indicazioni.
In pratica la finanza ingoia il libero arbitrio.
Per Masmej è un gioco, tanto che questo ultimo esperimento “Control my life” ricorda “L’ uomo dei dadi” un vecchio libro di Luke Rhinehart, tornato in auge per via di un articolo di Emmanuel Carrère.
I sogni di Zelens’kyj e il vecchio Giubbotto di Sartre
A un certo punto della seconda stagione di “Sluha Narodu” / “Servitore del popolo” Zelens’kyj / Goloboroďko ha un incubo premonitore: vede il suo fantoccio tra due fuochi, con un grosso cartello che dice позер, impostore/sbruffone, e non fa in tempo a meravigliarsi che viene ripetutamente accoltellato dai suoi amici che sono anche ministri del suo governo, con varie stralunate accuse.
In un’altra puntata c’è una brutta scena, con Zelens’kyj / Goloboroďko che ha un buco in fronte, una scena da “Soprano”, per fortuna è finzione nella finzione, e serve per trarre in inganno gli oligarchi che giocano con i destini dell’Ucraina.
Gangs of Kiev
Sugli oligarchi è doveroso nominare Ihor Valeriyovych Kolomoyskyi tre cittadinanze – ucraina, israeliana, cipriota – e un solo modo di agire: la voracità. Proprietario – tra le tante cose – del canale 1+1 che mandava in onda “Servitore del popolo”. Kolomoyskyi è un romanzo a parte, che riesce a truffare Abramovich e la più grande banca ucraina PrivatBank, controllare tre compagnie aeree ucraine, farsi nominare governatore dell’oblast di Dnipropetrovsk (la più grande regione industriale del paese), finanziare il battaglione Azov, finire nel mirino dell’FBI e nella lista nera degli Stati Uniti facendo anche affari col Hunter Biden – un altro romanzo ancora – figlio dell’attuale presidente degli Stati Uniti, almeno secondo una indagine del “New York Post” che collega una miriade di società offshore che fanno parte di Burisma Holdings e Kolomoisky.
Questa indagine verrà usata anche dall’ex presidente Donald Trump nella campagna elettorale. Hunter Biden dal 2014 al 2019 viene nominato nel consiglio d’amministrazione della Burisma Holdings, compagnia cipriota che opera sul mercato ucraino di gas e petrolio, mentre il padre allora vicepresidente degli Stati Uniti si occupa della crisi Ucraina-Russia.
Z.
Zelens’kyj è uno Zelig 2.0, cambia di continuo, riesce ad attraversare tutto, anche Kolomoyskyi, si traveste, parla con la Storia, e la sua serie è un ammicco populista al suo popolo, tra orologi con i nomi delle vittime ucraine dimenticate, rinuncia alle auto blu e ironia conseguente sui trasporti che non funzionano, un abbassamento della spesa e un cambio del mestiere politico, tanto che si permette anche di buttare nel cestino la domanda di assunzione di Viktor Fedorovyč Janukovyč – ex presidente ucraino filo russo – dopo averne lodato la biografia senza leggere il nome né guardare la foto, poi si accorge che è il vecchio politico e lo boccia. Zelens’kyj nei panni di Goloboroďko buttava nel cestino il vecchio presidente, usava Putin come se fosse Monsieur Malaussène e Lukašėnka come un pupazzo. Era tutto facile, e a forza di farlo nella finzione quando poi ha detto di volerlo fare nella realtà: l’Ucraina gli ha creduto, tanto che nella realtà ha preso più voti che nella finzione.
Guardando il suo profilo Instagram si vede tutto l’essere uno Zelig 2.0, tanto da sembrare davvero uno storyboard del film mancato di Woody Allen su questi anni. Un album che porta l’attore dai set che ricreano il parlamento al Parlamento, dai suoi allenamenti in palestra ai discorsi con i leader mondiali – ci sono diverse evocazioni di Obama e Michelle nella serie – dalla finta Merkel alla vera Merkel, senza la confusione tra Corea del Sud e Corea del Nord in cui incappa il disastroso ministro degli Esteri che si sceglie nella serie.
Goloboroďko smette di fingere, torna Zelens’kyj ma in alcuni punti, come per la molletta dimenticata nella sigla, qualcosa della finzione rimane attaccata alla realtà, così quando gli ucraini si trovano il presidente Zelens’kyj che viene intervistato su una cyclette e parla di entrata nell’Unione Europea, la scritta Philip K. Dick, ai più colti, appare grande come quella del McDonald a Mosca che ora chiudono.
E che differenza c’è tra i video postati nell’ultima puntata della serie con l’incidente alla Centrale Nucleare e quelli di Zelens’kyj sotto le bombe russe? Ovvio la realtà. Ma oltre la realtà c’è l’abbigliamento. Nei momenti di crisi della serie continua a rimanere vestito da presidente, mentre ora è vestito da soldato, ed è condannato perché nel primo episodio della serie posa vestendosi in base al contesto: col camice in ospedale, col caschetto con gli operai e via così. Ora in guerra è vestito da soldato, e pare che abbia eternamente caldo, come se fosse su un set, perché appare quasi sempre con una maglietta militare a mezze maniche. Perfetto per Instagram e gli altri social, tanto che riappare il vecchio Sartre che al posto della giacca da professore sceglieva il giubbotto per somigliare ai suoi lettori sessantottini.
Si ha l’impressione che Zelens’kyj interpreti il soldato, mentre Putin è un soldato.
Fuori dalle ragioni – è evidente che l’Ucraina non doveva essere invasa e che Putin è un gangster, non una sua recita, è il male nella sua espressione più complessa e compiuta – rimane la rappresentazione di queste ragioni, e dettaglio intrascurabile: I MORTI. E dopo ci saranno solo tombe e bandiere.
Si ha l’impressione che Zelens’kyj si aspettasse una semplicità d’azione dell’Europa e della Nato e quindi degli Stati Uniti e dell’Inghilterra più da serie tv che da politica reale, in una confusione dickiana tra realtà e finzione che si è scontrata con la ferocia e la fermezza della verità russa.
I due Russi
Putin è un uomo vecchio, che nasce dalle macerie della seconda guerra mondiale, rinasce da quelle del Muro di Berlino, ed ha un sogno antico: passare alla storia, non importa a che prezzo. Ha vissuto e risolto la crisi della sua Patria con la repressione e l’orgoglio, riuscendo a inasprire le leggi mentre le dimenticava con chi si opponeva, il suo corpo vive nella diffidenza, nel sospetto, e alla ricerca dell’audacia, fuori dal consenso dei social, proprio perché è figlio di un mondo storicizzato, ripete le cose che sa, evolvendole, ma cerca una storia vecchia, la sostiene con ragioni vecchie e la supporta con una azione vecchissima che, però, non passa mai: la guerra.
È un figlio del corpo.
Zelens’kyj è un figlio dell’immagine, un altro tipo di russo, è cresciuto avendo due genitori che si occupavano di informatica, quindi con i verbi al futuro, si è laureato in giurisprudenza come Putin, ma non per entrare nel KGB, solo per darsi un metodo, per avere un titolo, e poi si è barcamenato: ha ballato, ha fatto ridere, ha recitato, si è messo a scrivere, dirigere e produrre film che andavano bene nel mercato russo, è uno che ha letto bene la situazione del suo paese, dopo aver visto come ogni occidentale moltissimi film americani, è probabile che vedendo “House of Cards” (2013) di Kevin Spacey abbia colto la possibilità di giocare con la realtà del suo paese, è probabile che abbia studiato “Man of the Year” (2006) di Barry Levinson e chissà quante altre cose ancora, masticandole, digerendole e rielaborandole.
Tra i due russi, per un paradosso, l’imprevedibile è Zelens’kyj.
Alla fine della serie, il suo personaggio Goloboroďko scrive:
le ombre, la mente, lo spirito della nazione
si manifestano nelle sue azioni.
Non dobbiamo scegliere un paese, una lingua o un’ora di nascita,
ma di essere persone.
Che fa pensare ad Alex Masmej, e al suo token sociale: una cripto valuta il cui valore ruota intorno a una persona, che stiamo pagando tutti, soprattutto il popolo ucraino.